mercoledì 29 dicembre 2010

(con il naso fuori. proprio fuori dalla faccia)

« Anche se non lo vuole, questa città imparerà a conoscere i riti segreti di Bacco »



(vv. 39-40, Le baccanti, Euripide.)


Non credo che sia soltanto un problema di dissociazione mentale degli editori.
La follia è la scusa più comoda per giustificare un errore, si sa.
Né tantomeno di stupidità.
Anche se ci si riserva il privilegio del dubbio, a riguardo.
Né esclusivamente di strategie di marketing o di selvagge leggi di mercato.
Perchè va bene che sono i soldi che fanno girare il mondo, ma non basta.
Credo che il problema dell'editoria in Italia abbia motivazioni ben più profonde, radicate nel background storico-culturale del paese, che traggono linfa vitale da un sistema di valori e di capisaldi, strettamente connessi con l'etica cattolica. che hanno condotto in passato e continuano a condurre tutt'ora il cittadino italiano standard a nutrire piena fiducia in meccanismi quali: la redenzione dal peccato, l'espiazione della colpa, il pentimento e la conseguente assoluzione tramite concessione del perdono e la resurrezione, concretamente intesa come rinascita, ripresa, risalita dal basso verso l'alto.
Pertanto da una condizione non religiosamente accettabile a una condizione altra, di approdo alla salvezza tramite il ricongiungimento con la fede o dono della grazia.
Ecco, tutto questo può essere letto fuori da un'ottica religiosa.
Buttiamola in letteratura.
E' la realtà innegabile dei fatti che se domattina un david foster wallace provenienza italia andasse a imbucare il suo bel manoscritto, da ventiquatrenne imberbe, esordiente e completamente fuori quadro, ci sarebbe il 90 % di possibilità che il suo sistema della scopa venisse respinto con tanto di lettera di rifiuto che pare un sorriso a trentadue denti, ma che è in realtà soltanto un modo da signorine perbene per consigliarti di andarti a fare un giro da un bravo psichiatra.
La realtà dei fatti è che con tutta probabilità david foster wallace incontrerebbe una notevole difficoltà a farsi pubblicare in questo paese.
Questo non succederebbe mai (non è d'altronde successo) in america.
E in tutto questo la natura del background è la chiave per comprendere pienamente la differenza di realtà editoriali che si è venuta a determinare tra l'italia e l'estero.
Voglio dire, Wallace viene pubblicato in italia.
E' stato preso, tradotto, pubblicato prima da Einaudi. Poi ripreso, ritradotto, ripubblicato da Minimum Fax, casa editrice per cui continua a rappresentare un prodotto di punta, forse uno dei pochi a dircela tra noi, sul piano vendite.
Questo ci porta automaticamente a dedurre che c'è una parte di popolazione che legge Wallace.
Seppur elitaria, ma c'è.
C'è chi legge De Lillo, Pynchon, Barth e gli altri grandi padri americani.
Perlomeno, se la percentuale dei lettori è esigua rispetto al totale, resta il fatto che c'è un gruppo di editori a larga distribuzione che pubblica questi autori. Ma che, se tali autori fossero italiani, non li pubblicherebbe.
E il perché di questo fenomeno sta tutto nella nazionalità.
Sono americani che parlano di americani e di america.
Non di italiani e non di italia.
Rappresentano qualcosa di distante, raccontano crolli, cadute, psicosi, scenari di distruzione che avvengono fuori dai confini del paese e che unicamente per questo motivo non riescono a scalfire la campana di vetro in cui il lettore italiano, campanilista spesso dalla nascita, crede di poter restare a guardare il mondo frantumarglisi attorno, senza la necessità che il suo tempio di rassicuranti certezze venga bombardato.
Ed ecco la stupidità del lettore, sì.
Che non è solo stupidità.
E' anche voglia di rimandare l'incontro con l'inevitabile.
Gli italiani non lo accettano, l'inevitabile.
Pretendono che almeno entro i loro confini, nei confini delle loro pagine, la morte abbia una spiegazione, gli eventi prendano direzioni che alla fin fine trovano sempre una risoluzione positiva, i moventi di ogni azione siano giustificabili col ricorso al raziocinio in ogni circostanza, che gli accadimenti siano frutto di geometrie prestabilite e calcoli logaritmici.
Non accettano che come nella realtà anche nella letteratura i fatti sfuggano al controllo.
Gli americani, forse, hanno pretese diverse.
E' come se questo scontro con l'inevitabile ne uscisse esasperato.
E non c'è dio che tenga, nè assoluzione, nè pentimento.
Resta soltanto la necessità di entrare in contatto diretto con il lato oscuro per provare a conoscerlo.
E anche in quel caso senza la certezza di portare a segno il tentativo.
Sono scrittori, gli americani, che tratteggiano con disperata ironia, con divertente sarcasmo e con scritture spesso schizofreniche, personaggi e ambientazioni al limite del surreale, ma che proprio per la loro natura borderline finiscono per uscire fuori dalla pagina e mettersi a camminare per strada.
Finiscono per diventare vivi.
E allora sì che finire un romanzo vuol dire uccidere i propri personaggi.
Sono puntati all'esterno, gli americani.
Raccontano quello che c'è fuori per criticare ciò che c'è alle fondamenta.

E mi è venuto in mente questo flash di me tra i banchi del liceo.
Quando si leggeva Euripide, per essere più precisi, la Medea.
L'unica grande tragedia greca senza catarsi finale.
E mi ricordo bene di un fatto che ai tempi mi aveva colpito e che ora torna utile per spiegarvi che la questione è cosa vecchia e che per svecchiare, si sa, bisogna metterci una pietra sopra senza tornare indietro.
Proprio come fa Medea, che regala a Glauce, futura sposa del marito Giasone, una veste stregata che la farà morire nelle fiamme; e uccide i figli, prodotto primordiale del suo amore per Giasone, che rimane solo sulla scena, in ginocchio, con la testa fra le mani, mentre Medea fugge sul carro del sole e non si volta.
Beh, mi è tornato in mente che le donne d'Atene accettassero che sulla scena venisse raccontata la storia di Medea perchè Medea era una barbara.
E una donna d'Atene non sarebbe mai stata una strega.

venerdì 24 dicembre 2010

(non è un natale per vecchi).

c'è un vecchio racconto di buzzati che, non mi chiedete il titolo, non me lo saprei mai ricordare.
la prima volta che mi capitò tra le mani avrò avuto sette o otto anni.
lo trovai sfogliando una di quelle antologie di storie educative sul natale, quelle piene di scatoline con la neve sintetica che si rovesciano, di ghirlande d'oro smaltato attaccate alle porte, di tartine al salmone la sera di vigilia e di salotti allegri, con le risate dei grandi sempre accese e le gambe dei bambini che scorrazzano tra una stanza e l'altra, spazientite dalla curiosità. proprio quelle storie lì, coi mucchi di neve artificiale spalata fuori dal vialetto, le finestre appannate dal fumo delle cioccolate calde, le chiacchiere abbrustolite davanti al camino, gli alberi di natale che sfrigolano di colori e le stelle comete che, può accadere l'irreparabile, finiscono sempre per bucarti la finestra e precipitarti nel letto.
fortuna che qualcuno quella volta non riuscì a capire che non bastano un bue e un asino per intingere il pandoro nei buoni sentimenti e in sorrisi incoccardati che, a toccarli, esplodono come quei portaceneri di plastica comprati dai cinesi alle nove di sera in pieno inverno.
che tanto quelli stanno sempre aperti. pure a natale, se ti serve.
in questa storia c'erano un bue e un asino, sì.
proprio quelli della grotta, per giunta.
ma non pensate che gesù cristo ci debba per forza entrare qualcosa in tutto questo.
il bue e l'asino sono quattro occhi che osservano.
potrebbero essere i vostri come i miei.
sono sospesi proprio là, sopra alle nuvole e si rovesciano verso il basso.
verso un mondo che si srotola senza fiato come una bobina impazzita.
osservano e vengono trafitti da un dolore vero, vero finalmente.
qualcosa che non abbia la consistenza della neve inscatolata programmata per durare fino al sei gennaio per poi tornare acqua di fogna e agenti chimici.
sono addolorati dal rumore. tutto quel rumore che copre i pensieri, annebbia le menti, irrigidisce le idee, confonde i desideri elementari, registra sopra ai bisogni primari e ci riscrive su le offerte regalo più convenienti dell'anno, con tanto di buoni sconto da rispendere al natale successivo, perché sarai sempre qui, non credere, tornerai, anche se ti sei ripromesso che sarà l'ultimo anno questo, tornerai e avrai bisogno di nuovi regali usa-getta da tenerti sotto l'albero per gli ospiti inattesi a cui consegnerai con quella fierezza bavosa il tuo dono del tutto spersonalizzato.
sono addolorati dalla velocità. mani che stringono mani senza entrarsi negli occhi, piedi che pestano piedi perché perdono la sensibilità ogni cinque metri, inscatolati nel traffico da acquisto compulsivo, pacchetti che si impigliano in pacchetti, occhi cuciti all'interno ipnotizzati dal neon in loop delle vetrine piene di chincaglierie da cassonetto, commesse a congelarsi il culo fuori con vestiti da babbonatale inguinali per distribuire volantini.
e in tutto questo gesù cristo non c'entra niente, a me pareva.
quando mi spiegarono il significato di questa storia- perché non fanno altro che cercare il senso delle storie- mi dissero che era tutta una tirata contro il consumismo natalizio, contro la perdita dei valori religiosi, una denuncia in grande stile di una società che ha dimenticato cristo, ha rinunciato alla fede, ha imparato a non averne più rispetto, a ingozzarsi di zuccheri e comprare e accumulare e accatastare e smistare come in una catena di montaggio del bene materiale, non più memore del sacrificio della sua vita ( del cristo, si capisce) compiuto per il conclave dell'umanità tutta.
ora, al di là delle tirate bigotte da preti laici che ci pizzicano le dita quando infiliamo la manina nella calza della befana, a me non pareva fosse questo il punto.
c'erano un asino e un bue e non erano disperati per gesù cristo.
non credo che sia nominato neanche una volta nel corso del racconto.
l'asino e il bue sono disperati, sì, ma l'oggetto della loro disperazione sono gli uomini stessi.
e non perché abbiano perso la fede o abbiano dimenticato di avere un dio.
ma perché sono ineluttabilmente soli.
è quella giostra di solitudini camuffate da cene di natale che fa intristire l'asino e il bue.
possibile che nessuno lo vedesse?
che la religione non c'entrava, che non era di cristo che si sentiva la mancanza in quelle pagine, ma del contatto umano, di un calore profondo, che mandasse via l'amaro, che raccogliesse i pezzi persi per strada e li riattopasse alla buona in un abbraccio stretto, che fosse condivisione di intenti e di bisogni?
leggendo buzzati anni dopo avrei capito meglio.
cosa significasse natale.
dove fosse il vero problema.
non cristo, non il consumismo, non il buonismo da beneficenza.
non solo, almeno.
mi si aprirono gli occhi su uomini che erano isole in attesa di scontrarsi, seppure per caso, seppure brutalmente, con altre. vidi poli contrapposti anniluce, percepii distanze siderali tra gli esseri umani e sentii quanto vertiginosa fosse la voragine che cresceva nella pancia di quel vecchio bue e di quell'asino.
mi venne in mente la faccia di un vecchio.
il sorriso ingiallito, la bocca vuota, pochi denti ancorati alle gengive cariate dal tempo per dire che non è stato sempre così. che in passato c'è stato anche qualcos'altro, a parte questo.
la faccia di un vecchio che si incontra nello specchio, la mattina di natale.
e capisce che in realtà non non è mai stato diverso.
che non c'è mai stato qualcos'altro.
e che lui, lui non dovrebbe essere lì.
che non è più un natale per vecchi, questo qui.

martedì 30 novembre 2010

senza metterci la faccia.

è una questione personale, per lo più.
un'allergia degli ultimi tempi.
allo strumento della faccia-slogan.
nonchè alla vita-slogan, a dire la verità.
io lo capisco che spesso le storie siano alla fin fine un grumo di ricordi e sensazioni personali, di esperienze di vita, di background familiare, di proiezioni oniriche, di desideri repressi, il tutto infilato tra un personaggio e l'altro. perciò il narratore proprio eclissato, estraneo al contesto, non lo si potrebbe mai dire.
chiaro che il buon narratore ha il quasi totale controllo sulla materia (anche se non è detto che ce l'abbia sui possibili sviluppi successivi di storie collaterali, o in caso di finale aperto, per esempio) ed è dal suo incrociarsi di sinapsi aggiunto ad una lucida osservazione del mondo circostante che ha luogo l'intuizione, con a seguito la sua elaborazione in idea e solo dopo in sistema strutturato e ben oliato.
è anche comprensibile che nei personaggi, in alcuni più di altri, ci si butti a capofitto e si finisca per plasmare la materia in individui la cui esistenza virtuale ha motivo di esistere solo in relazione all'esistenza stessa del loro creatore. magari avranno nomi diversi, ma è il dna che conta.
un dna che è sempre lo stesso in duplice, triplice, quadruplice copia.

tutto per dire che si dà troppa importanza alla faccia.
si è troppo concentrati su se stessi per ascoltare/guardare il resto mentre accade.
per farselo entrare negli occhi e lasciare che buchi le pupille.
e il resto sarebbe un ingrediente irrinunciabile della ricetta.
voglio dire, va bene parlare di sè attraverso gli altri, ma anche parlare degli altri attraverso se stessi, attraverso le proprie mani, voglio dire, non sarebbe una cattiva idea.
certo, è più difficile.
puoi andare a raccontare facce indecifrabili, che con te non ci hanno niente a che fare.
ma sono altri. e gli altri fanno il mondo.
se non si raccontano gli altri, se  a questi altri non si strappano gli occhi per appiccicarseli al posto dei propri, di tanto in tanto, si finirà a girare in tondo, prigionieri di orizzonti mentali che non riescono mai a superare se stessi.
fare autobiografia più o meno confessata pone troppi limiti in quanto a materia narrativa disponibile.
diamine, per un libro che passi pure, ma poi?
dopo bisogna rinunciare alla faccia, trovarne un'altra, e poi un'altra ancora e poi tre, quattro insieme perchè il racconto è spesso una corale di voci, un sovrapporsi di prospettive, non è mai solo in un paio d'occhi, è sempre una composizione di piani e di volumi che si compenetrano e si contaminano a vicenda nello stesso tempo.
la propria faccia deve rimanere una faccia.
non uno strumento di promozione.
la propria vita deve rimanere una vita.
non deve sempre venirne fuori un romanzo.

e poi, no, se di thomas pynchon ci abbiamo tre foto in croce e quarantamila pagine di romanzi, ci sarà pure un motivo.

Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka (DFW).

- Ahimè- disse il topo, - il mondo si rimpicciolisce ogni giorno di più. All'inizio era così grande da farmi paura, mi sono messo a correre e correre, e che gioia ho provato quando finalmente ho visto in lontananza le pareti a destra e sinistra! Ma queste lunghe pareti si restringono così alla svelta che ho già raggiunto l'ultima stanza, e lì nell'angolo c'è la trappola a cui sono destinato.
- Non devi far altro che cambiare direzione, - disse il gatto, e se lo mangiò.

(Una piccola favola, Kafka).

* Si potrebbero scrivere libri interi sulla John Hopkins U. Press sulla funzione lallativa dell'umorismo nell'odierna psicologia degli Stati Uniti. In parole povere, la nostra cultura attuale è, da un punto di vista sia evolutivo che storico, adolescente. E poichè l'adolescenza è riconosciuta come il periodo in assoluto più stressante e spaventoso dello sviluppo umano- la fase in cui la maturità che sosteniamo di agognare inizia a mostrarcisi come un sistema di responsabilità e limitazioni( le tasse, la morte) reale e opprimente, e in cui dentro di noi aneliamo a un ritorno a quell'oblio infantile che fingiamo di disdegnare- non è difficile capire perchè noi come cultura siamo così sensibili a quel tipo di arte e intrattenimento la cui funzione primaria sia la fuga, e cioè tutto ciò che tira in ballo il fantastico, l'adrenalina, lo spettacolare, l'amore romantico eccetera. Le barzellette sono una forma d'arte, e poichè ormai quasi tutti noi americani ci rivolgiamo all'arte essenzialmente per sfuggire a noi stessi- per fingere un pò che noi non siamo i topi e le pareti non sono parallele e che possiamo correre più veloce del gatto- è comprensibile che per la maggior parte di noi Una piccola favola non sarà per niente comica, o magari sarà persino uno spaventoso esempio proprio di quella realtà avvilente morte-tasse che il "vero" umorismo serve a rinviare.

venerdì 26 novembre 2010

Ma se io parlo, qualcuno mi sente? (Racconti dal formicaio).

E' tardi, cristo, è tardi.
Butto un'occhiata furtiva all'orologio, quasi di traverso, mentre ingoio un pò di saliva che mi scende dai nervi giù nella gola. Le lancette sgusciano via in quell'andirivieni tutto in tondo lungo le tacche del quadrante.
Otto e quaranta, mi dicono.
E' tardi, cristo, è tardi.
Il loro nevrotico tictac mi si gonfia contro il polso.
La verità è che non gliene frega niente, mi dico, a queste tre appuntite lamine di ferro che la vita qua fuori abbia smesso di scorrere da venti minuti buoni e centinaia di sconosciuti col culo al freddo sui sedili di plastica d'un regionale siano bloccati in mezzo alla campagna, quando dovrebbero stare già appesi come pappagalli ammaestrati con le zampe sul trespolo di una metropolitana. Che lì dentro almeno il fiato degli altri ti fa da inceneritore. Non gliene frega niente, a queste tre puttane, se il tempo muore di tanto in tanto qui dalle nostre parti. Loro sono progettate per andare solo in avanti, che il tempo per loro è soltanto futuro che accade, mai presente che si rompe o si arresta. Loro non lo sanno mica l'orrore quotidiano, quello che fa uscire i mostri, che fa sparare nei fast-food o in fila al semaforo, che ti fa strangolare i figli nel sonno, che ti prende per la gola e ti fa passare il collo in una corda. Che poi è solo stanchezza che si raggruma e ti fa marcire nelle ossa.
Mi gratto veloce la punta del naso, la mano si muove scattosa contro la pelle ruvida, tutta a chiazze rosse perchè è novembre e novembre lo sento intorno ai miei occhi, che nevicano tutte quelle lacrime d'un viola allergico e screpolato; e novembre lo lecco sulle mie labbra, arrossate dal grado zero dell'aria, con tutte le pellicine che pendono ai lati; sì, novembre lo sento dentro al naso che non fa altro che starnutire un polline morto.
Le otto e quarantacinque, mi dicono le facce che mi ritrovo davanti.
Raspose, rugose, bucate.
Anche a vent'anni.
Dormono tutti in piedi, cavalli in un carro merci.
Coi vestiti che puzzano ancora di letti singoli e di matrimoniali pieni per metà, di caffè e di biscotti incastrati tra i denti, di capelli arruffati, di naftalina sui maglioni, di barbe non rasate, di tramezzini di polistorolo sotto ghiaccio azzannati nei quindici minuti della pausa pranzo, di cellulari che squillano sempre troppo poco, di carta riciclata di romanzi d'amore a lieto fine, di parole acetate, edulcorate, sterilizzate, di sguardi che sono orizzonti morti, senza più niente da svelare. E io come loro, aspetto solo che il tempo, il tempo che ora sto condividendo con questa gente, torni a coincidere con lo schizofrenico futuro di questo mio orologio fuori sincrono.
Ed ecco la spinta, la sento vibrare leggera nelle mie gambe, ruote motrici di questo polifemo a scompartimenti chiusi, lo ascolto sbuffare carburante via dalle arterie di scappamento, mentre il sangue mi torna in circolo e mi si stiracchiano i pensieri, di nuovo assonnati, dopo quei pochi istanti di lucidità nella paralisi del buco temporale.
Dopo un quarto d'ora eccomi qui, alla stazione Ostiense. 'Fanculo la lezione, ormai è saltato tutto.
Ho un minuto scarso per rimettere il libro nello zaino e tirare fuori le cuffiette del lettore, prima di spararmi qualche sequenza di suoni a caso nelle orecchie.
E poi badabùm, davanti, dietro, attorno a me una mandria di insetti con due braccia e due gambe mi superano, mi circondano, mi si stringono contro, non posso fare altro che farmi trascinare nel mucchio, sono gli altri a camminare per me, ognuno cammina per sospingere l'altro in un moto inerziale, di trascinamento di carcasse, di resti solitari con un nome, forse, e un lavoro a ore, di uomini in cravatta chiusi nelle loro valigette di pelle nera, di troppa gente con gli occhiali da sole, che cristo, sarebbe anche novembre, il mio naso ve lo può assicurare. E non posso fare altro, sul serio, che incastrarmi nel rancido del loro fiato d'alcool e di cipolla, nelle conversazioni degli africani che vorrei saperlo che cazzo di tariffa c'hanno, la wind mica le fa tutte queste offerte, nella pelle degli indiani che sa di curry e di spezie che mi fanno sempre starnutire e cristo, toglietevelo dalla faccia quel sorriso da giapponesi che vi ritrovate, stronzi! e i bermuda avana dei turisti tedeschi trascinati da un posto all'altro in gite in pullman a due piani, senza mai mettere piede su un sanpietrino, smettetela di ingozzarvi di grassi estrogenati! e no, io non ve le dò le indicazioni in francese, figli di puttana, imparatevele due parole in croce di inglese, checazzo! E voi, spagnoli della movida della minchia, che mi venite a ballare la macarena sul treno, sul mio cazzo di treno, mentre vi sbracciate in applausi a qualche zingaro di turno con la fisarmonica, dovrebbero chiudervele le frontiere, figli di puttana!
Ma poi capita che lo vedo.
Pasticca. Il vecchio Pasticca.
Dicevano che fosse morto e invece eccolo qua, da tutt'altra parte della città, ma è lui. Ed è vivo.
Molto di più di noi.
Pasticca, il barbone di Centocelle.
Da quando ha iniziato a farsi vedere in giro non s'è mai visto con qualcosa di diverso addosso.
Tutto raggomitolato in quel pastrano piombo da monaco medievale, col giubbotto catarifrangente per far vedere che lui c'è, che è lì, che non lo prendessero sotto, se si mette al centro dell'incrocio mentre sventola la sua storica cannuccia rosa e gialla, che pare una luminaria per quanto è fosforescente, e quel bicchiere di carta sudicio che si tiene stretto tra le mani grigie. Pasticca canta e parla pure qualche volta. Certe parole gliele hanno sentire dire in italiano, certe altre in quello che alcuni hanno creduto essere serbo.
Non è che chieda l'elemosina. E' lì fermo, al centro della strada, e ora di questo sottopassaggio metropolitano, e strizza i suoi occhi da pesce marcio all'ingiù. Mi danno l'impressione di un paio di corvi incatramati. Due pezzi di diamante nero, rubati a chissà quale terra, e giusto loro potrebbero snodare quel tappetino di capelli che gli hanno ricamato in testa gli anni. Anche se lo rasassero a zero, ricrescerebbero annodati. E mi viene da sorridere, perchè è buffo ed è trististissimo rivederlo qui.
Dove la vita scorre troppo veloce anche per i treni ad alta velocità.
Che poi oggi ha un sacco da parlare, Pasticca, ma sono lontana, non capisco quello che sta dicendo.
Perciò mi faccio più vicina, metto in pausa il lettore e ascolto.
Non so se sia soltanto l'ossessione che mi rattrappisce la testa, ma quello che sento io è un punto di domanda, tutto balbettato nella sua voce da giradischi con la puntina rotta; non una preghiera, nè uno scongiuro, una semplice domanda. E io non so rispondere. Io non posso farlo.
"Ma se io parlo, qualcuno mi sente?"
Butto giù il groppo nella gola.
Due, tre colpi di tosse.
E' solo allergia, mi dico.
E' solo questa fottuta allergia.

domenica 21 novembre 2010

Perchè scrivere fa scrat.

La premessa è che è domenica, manca poco più di un mese a natale, le commesse dei supermercati hanno già messo su la faccia da cartelloni pubblicitari ambulanti, quella che mi fa crescere i sassi nello stomaco, che tra lacrime di cioccolata al peperoncino e bolle da abuso di pandoro mi vuole dire:
"Sono l'ultimo torroncino al latte di soia con i cinque cereali infilzati dentro come chiodi che se mai ti venisse voglia di addentarmi ci ho il numero del dentista convenzionato sul retro della confezione, ma cazzo ti costa, potresti mettermi al posto del centrotavola, sedarmi, farmi a pezzi e sdraiarmi su un piattino come uno di quegli antipasti che ritiri fuori a ogni natale, senza neanche toglierci la polvere, tanto quelle bocche da cane affamato dei tuoi nipoti ingoierebbero pure le colate d'asfalto e gli sembrerebbe di mangiare le patatine fritte, che, a proposito, sono sullo scaffale a destra, reparto quattro".
Ecco, questo è il motivo per cui evito di andare al supermercato da novembre in poi.
Ed è anche la ragione per cui di questi ultimi tempi a me, e all'equipe tutta, prudono le mani come non mai e ci viene spesso voglia di buttarla in rissa. Per questo vi chiediamo già da ora di essere clementi fin quando non vedremo quell'11 dopo il 20, che a noi sa di apocalittico e ci fa tranquillizzare un pò.
Ma oggi l'equipe tutta vorrebbe sottoporvi uno dei suoi studi di natura etimologica, che la lingua è importante, soprattutto quella in cui uno decide di scrivere.
Scrivere.
Ripetetelo ad alta voce per tre volte al dritto, poi al rovescio, poi anagrammatelo.
No, d'accordo, non abbiamo di tali pretese, ditelo a voce alta solo una volta.
Ora, il qui presente membro dell'equipe vi racconta un aneddoto epifanico della sua perplessa infanzia.
E' una sorta di ricordo audiovisivo, a dirla proprio tutta.
Che la mia testa ha sempre funzionato così, ricorda per accoppiata di suoni/immagini, quando non ci ha proprio i buchi neri. E' il ricordo della mano destra della sottoscritta, dimensione sei centimetri per sei, che impugna per la prima volta una penna tutta storta e già imbronciata, sputando sul foglio quel gran monumento di scarabocchio, che non era un disegno, nè una parola, nè segno d'alfabeto ancora decifrato.
E in quell'istante infinitesimale di contatto tra la penna e il foglio, quel suono da paralisi.
Scrat.
O qualcosa di molto simile a scrat. Tipo Sgrat. O Scrag. O Scrab.
Ve l'ho detto che ho una pessima memoria.
Ma il crampo nella pancia era quello, no?
Il bianco che si strappa e lascia il posto a qualcos'altro.
Lascia spazio al segno in un oblungo filamento neroblu.
E la carta è terremotata da uno smottamento improvviso, con tutta la terra, il fango e le rocce che precipitano dall'alto ed è un alluvione di melma e di schifezze che scende giù da qualche incrocio neurale autostradale e prende le strade più sterrate che si ritrova davanti e rotola e intralcia e si catapulta e s'aggrappa alle righe e imbratta tutti i margini di traverso e ti viene da arricciare il naso e da tenerti un pò la pancia perchè non sai com'è, ma su quel foglio ti ci senti spiaccicato tu, proprio a quattro zampe, tu, che ancora non ti reggi in piedi da solo e senti distintamente che ti ci sei avvinghiato su peggio di una stella marina e che puoi averci tutte le zattere che ti pare, a mollo capita che ci finisci lo stesso e magari il maremoto ti si ingoia tutto e ti trascina giù, come una di quelle barche da inizio novecento, col legno marcio e tutto quell'oro dentro perso per sempre.
Ma così doveva andare. E da bambino lo sai, lo intuisci, per lo più e non ti prendi paura perchè hai una corazza invulnerabile che non c'è morte che tenga, la morte già la sai, tu.
Poi però cresci e ti insegnano a scrivere dentro le righe e a mettere le parole in sequenza, a costruire il senso in paragrafi, a rispondere a domande aperte in tre righe su un argomento che richiederebbe cinquanta pagine di foglio protocollo. Ecco.
E ti dimentichi che scrivere sta tutto in quella sequenza consonantica trilettera all'inizio.
Cazzo se non ti dice tutto quello che c'è da sapere.
Almeno per iniziare bene, intendo.
Che scrivere voglia dire incidere, intagliare, scolpire, scalpellare, scalfire, grattare, raschiare, raspare.
Scavare una buca di cui non vedi il fondo e avere il coraggio di infilarci la mano.
Senza tirarla via prima che il mostro dentro t'abbia morso.
Che il mostro c'è, a ognuno il suo, non pensare di farla franca.

Ecco perchè scrivere fa scrat.
E non t'aiuta mai a trovare una risposta che sia una.
E va bene così.

Scrivere: etimologia.

sabato 20 novembre 2010

Imbottiglia il buco nero e stappa lo champagne.

Nella sezione scienze de "Il Corriere della sera" di ieri, 19 novembre 2010, fa capolino, un pò timido, un pò circospetto e per lo più incredulo, un articolo relativo all'ultima scoperta del Cern di Ginevra. La creazione dell'antimateria.
Per essere più precisi, trattasi di 38 atomi di anti-idrogeno, attualmente immobilizzati, che si configurano con massa identica, ma carica opposta a quelli di idrogeno della materia ordinaria.
Ora, nonostante Dan Brown con fantamaghi a seguito ce l'avesse già menata anni fa con il furto della prima, e in quel caso anche unica, particella di antimateria (fortunatamente a Ginevra si sono rivelati più previdenti di quanto pensi l'amico Dan e di atomi ne hanno già creati 38, perchè oramai avevano fatto 31, perciò perchè non 38? e probabilmente per il terrore di ritrovarsi invischiati in uno di quei film in cui tom hanks vestito male che neanche il tenente colombo si mette lì con la faccia rossa e tutta smeningiata a decifrare simboli runici, elfici e vecchie iscrizioni in tagalog per poi dover intraprendere duelli all'ultima particella neanche con il papa, che già si sentivano l'orticaria, ma con un pontefice impostore, ecco no, sarebbe stato preferibile ricreare da capo l'antimateria, la materia ordinaria e tutto il pianeta terra) la notizia esercita comunque un certo effetto, almeno su di me.
Non che io sia una fanatica di questo tipo di cose.
Al di là dei miei piani di distruggere il mondo tramite tecniche non sempre ortodosse, piani per cui la creazione di questi 38 atomi iniziali di antimateria potrebbero senza dubbio tornare utili per qualche gigantesca esplosione ben mirata (ma tranquilli, non ho intenzione di scriverci libri su: sarebbe anche ora di passare ai fatti senza troppi fronzoli), la notizia in sè fornisce spunti di riflessioni interessanti.
Leggiamo insieme.

È però impensabile portare l'antimateria a spasso in una bottiglia, come accade nel romanzo», osserva il fisico Andrea Vacchi, dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). E' infatti sufficiente che un atomo di anti-idrogeno venga a contatto con la materia ordinaria, ad esempio con un gas o con le stesse pareti del contenitore, perchè avvenga una gigantesca esplosione. Entrando a contatto, infatti, materia e antimateria si annullano (o annichilano) a vicenda.

Annichilimento reciproco. Roba che già a pronunciarla a voce alta ti viene voglia di rubare un atomino e portarlo a spasso per la tangenziale all'ora di punta, per dirne una.
In quanto di carica opposta, materia e antimateria, che sono l'una lo specchio simmetrico dell'altra, tendono naturalmente ad annullarsi. Lo ripeto?
Tendono naturalmente ad annullarsi.
Quel naturalmente non sta lì mica a caso.
Voglio dire che in questa precisa circostanza non possiamo sostituirlo, semanticamente allegri e noncuranti, con ovviamente, chiaramente, evidentemente e altri avverbi con suffissi psichici a seguito. Quel naturalmente lì ha solo un significato: secondo natura.
Di conseguenza la stessa frase può essere riscritta nel seguente modo:
Materia e antimateria secondo natura tendono ad annullarsi.
Che è una cosa che sapevamo tutti (fin da prima che ce la spiegasse Dan Brown, che è spiegazionista convinto, oltre che spacciatore di pessimo nonsense) ma che a volte finiamo per dimenticare come tutto quello che diamo per acquisito e accatastiamo nella memoria a lungo termine( detta anche memoria con tendenza frequente all'irreversibile distruzione dell'hard disk).
Qua stiamo constatando che natura vuole che materia e antimateria siano così follemente attratte l'una dall'altra da gettarsi nel precipizio insieme con una bomba a orologeria legata al collo, prendersi per mano e lasciarsi la cenere alle spalle. Qua stiamo insinuando che l'incontro degli opposti può essere in realtà solo uno scontro, seppur al massimo grado di intensità. Qua stiamo dunque sottintendendo che il massimo grado di intensità si possa ottenere solo dalla collisione degli opposti con l'unica effettiva conseguenza  di una distruzione totale, senza riserve nè salvati. Ora, mettendo un uomo nella bottiglia di Dan Brown con i 38 atomi di anti-idrogeno, analizziamo come l'individuo sia singolo che in branco si ostini ad agire da snaturato, come tutto il suo fare e il suo dire appaiano, a conti fatti, dettati dalla folle paura del crollo, della crisi, dello spacco che non si richiude.
Il suo frenetico aggrapparsi alle molecole di materia ordinata, facendo di tutto per evitare che l'antimateria tocchi le pareti del contenitore o che qualche infiltrazione di gas penetri dal mondo esterno, ci appiccica sulla bocca un punto di domanda.
Quello che noi non ci spieghiamo, e che il Cern era impossibilitato a spiegarsi per penuria di antimateria coi tempi infami che corrono, è:

uno dei più grandi rompicapo della fisica contemporanea, ossia perchè al momento del Big Bang la natura ha «preferito» la materia ordinaria all'antimateria. Entrambe sono state infatti prodotte nella stessa quantità (in modo simmetrico) e di conseguenza avrebbero dovuto cancellarsi a vicenda; tuttavia questo non è successo perchè una certa quantità di materia (calcolata in una particella ogni 10 miliardi di particelle di antimateria) è riuscita a sfuggire e grazie a questa rottura della simmetria si è formato il mondo in cui viviamo.
Perchè una certa quantità di materia è riuscita a sfuggire e grazie a questa rottura della simmetria si è formato il mondo in cui viviamo.
Cosa che implica che:
1) Siamo qui per un gran culo o per una gran sfiga.
2) Che non siamo qui perchè qualcosa è stato creato, ma perchè al contrario ha rotto gli argini della simmetria ed è sgusciato fuori, ha lacerato la materia, ha tracciato una fessura, ha delineato un punto di fuga.
E sbadabùm.
Eccovi qua.

Creata l'antimateria al Cern di Ginevra.