giovedì 11 marzo 2010

E' tempo di bilanci, ma intanto fatti biondo. [Rileggendo "Imperfetto", A. Zannoni].


Quarant'anni, cazzo, quarant'anni e ti chiedi come c'è riuscita la tua vita a srotolarsi giù a quel modo, tra cicche spente e il rumore del tuo fiato sempre grigio, raschiato via dalla cenere, tossicchiato contro quel cielo livido che non la finisce mai di incazzarsi e ti piove il vuoto nei polmoni, quando vorresti sputtanarteli per conto tuo. Almeno quelli.
Merisi ha quarant'anni e forse è arrivato il tempo dei bilanci, anche per lui.
Che da queste tradizioni di rito, da questi giochi da uomini vecchi anche a vent'anni, è stato sempre fuori.
Bilanci sì, ma non poi troppi. Che solo a pensarci, d'esserci arrivato vivo a quarant'anni, un tipo come lui inizierebbe ad esasperarsi sul perchè non si sia fermato prima, sul fatto che ancora un corpo ce l'abbia addosso e nelle vene gli scorra quel sangue da sbandato al posto delle sue nuvole di fumo, come grumi di sogni gettati nel fango. Ma poco importa, è lì, si accende una sigaretta e si soffia dentro il petrolio nero che gli appanna gli occhi caldi, pieni di insoddisfazione liquida e di voglia di cambiare nome e connotati e lasciar fottere tutto quello che è stato fino a quel momento, un fallimento dietro l'altro, l'errore di chi sa che sta sbagliando e sbaglia con un sorriso storto al lato, quel sorriso che vuol ringhiare "Iniziate a correre. Non mi prenderete mai. Ditemi dove andate voi, che io vado al contrario".
Merisi crede che l'odio sia una terapia efficace contro il dolore.
Ci son stati momenti in cui avrebbe voluto essere un pezzo raro d'acciaio inossidabile.
Restare a respirarsi la tempesta e uscire senza graffi.
Che poi ci pensa meglio e capisce che non c'è gusto a uscirne perfetti da una storia del genere.
Una forma non la vuole e soprattutto non vorrà mai la stessa; che annusarla sotto pelle, l'aria, masticare il suo sapore ossidato di bronzo è l'unica scelta giusta per uno sbandato come lui.
Che imperfetto ci resta, sempre quel tanto per restare a musoverso, senza quella puzza di nuovo addosso, che azzera tutto il tempo passato a scarabocchiare sul futuro.
Che perdere troppo di sensibilità, a volte, ti fa invecchiare prima che le sigarette ti facciano fuori.
E il modo per scalciarsi via da qui, diolai, se lo vorrebbe scegliere lui, almeno quello.
Merisi e il matrimonio in crisi con Marta. Merisi e i sensi di colpa che lo prendono alla gola, quando meno lo vorrebbe. Quando sta fumando, per dirne una, che gli si guasta tutto lo scricchiolio in bocca e le orecchie iniziano a riempirglisi di rimorso, mentre gli occhi gli sgocciolano di disamore e di un desiderio diverso. Quel senso d'appartenere a qualche dove, nell'abbraccio barbaro di Giulia, per dirne un'altra, che semplicemente gli sta accanto, un pensiero rapace, una voglia d'adolescenza feroce, un colore rimpianto così a lungo, da mettergli in subbuglio quella testa matta e solitaria che ha sempre avuto.
Quasi quasi al punto da fargli chiudere con le puttane, che sono una gran valvola di sfogo e s'assorbono il peso d'ogni lacrima, ma non bastano per smettere d'esser soli.
Merisi e un caso da risolvere, perchè è un detective lui, coi controcoglioni, tra l'altro.
Un personaggio nero, scomodo, troppo intuito per poter stare nel giro con tutti i crismi.
Circostanze di un conflitto passato ancora tutte da chiarire con il vecchio comandante Palma, che lo vorrebbe solo far fuori e gli affida un caso senza uscita, in cui faccia da parafulmine a delle indagini di carta, che non vedranno mai saltar fuori un colpevole, una serie telegrafica di testemonianze morte nel bianco rasposo di un fascicolo.
Ventiquattro anni, Amedeo Moretti, omosessuale, figlio di un pezzo grosso della zona. Trovato morto, completamente nudo, ai margini di un bosco, legato al tronco di un albero, trafitto da cinque stilettate inflitte in diverse parti del corpo. Una rabbia incontenibile dentro quel sangue, al di là di ogni vendetta ipotizzabile. L'autopsia di un odio disumano, che sogghigna cattivo giù in fondo alla pancia.
Merisi è un maledetto, lo è già nel nome che si ritrova sulla testa.
Non la può accettare, questa faccenda del parafulmine.
Correre contro il buio, dentro tutte le sue fughe interrotte.
Questa, la scelta giusta. Questo, lo sbaglio necessario.
Non può vedersi le gambe tagliate in questo modo. Li vuole vivi, quei pezzi di carta, vuole dar loro una voce, quella di Amedeo, rubata da occhi troppo pigri per scavarci a fondo in questa storia che un pò gli fa paura, perchè non segue direzioni nè logiche apparenti, un pò gli morde lo stomaco di adrenalina che scorre di magia e di sangue nero.
Ma arriva anche un momento nella vita di un uomo in cui è tempo di mettere da parte i bilanci.
Ed è necessario smarrirsi, liberarsi di quella pioggia a perdere che ti bagna le cicche sulla bocca.
E con coraggio, risollevarti da quella curva perfetta e immobile in cui ti eri lasciato cadere.
Per riprenderti ogni imperfezione indietro, ad ogni costo, disintegrando tutti i confini intorno. Lasciando che il resto sia solo il tuo riflesso immobile di quandi avevi vent'anni e avevi giurato che a quaranta di bilanci non ne avresti fatti.
D'altra parte metti caso che a seguirla, quella strada senza indicazioni, si sta sul treno giusto.

Un abbraccio a 'sto scrittore da strapazzo. Che va, avrei dedotto che è un geniaccio del male.
E che è ossessionato alquanto e non poco dal biondo, che si sappia.

Giulia Mafalda Gì/ Tristan Van Persie.

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