domenica 31 gennaio 2010

Incipit.


Quando ero un bambino facevo un gioco, il gioco che si fa col verbo amare.

Io amo le stelle.


Tu ami il mare.


Lui ama le bambole.


Lei ama la neve.


Noi amiamo le parole.


Voi amate il bianco.


Essi amano il buio.


Poi un giorno, quando già i capelli mi sbiancavano di giovinezza eterna e di vecchiaia preannunciata tra i miei vagiti sottotono, arrivasti tu.
Io stavo ancora cercando di prender coscienza d'esser io.
Non ero pronto ad essere il tuo soggetto.
Agente delle tue azioni, mandante emotivo dei tuoi riflessi sinaptici in ritardo.
Avevo ancora il fiato troppo corto per pronunciarti come avrei dovuto.
Metterti nel sintagma giusto.
Determinare ogni tuo costituente.
Capire se farti mio nome o accompagnarti a me come apposizione.
Lasciare che tu fossi il mio modificatore. Che aggiungessi una qualità alla mia forma basica.
[Sono l'opposizione sorda alla tua sonorità].
Sfilacciarti l'identità tra pronomi personali che ti facevi ricadere addosso, come sorrisi insanguinati, senza denti.
Avrei dovuto dividere con te le mie cartilagini sintattiche, fonologizzare il mio morboso attaccamento alle nostre asimmetrie di nulla, che volevamo far sfuggire a qualsiasi definizione.
Mi avevi rivelato, nel segreto di una notte- lo so, ne sono certo, eravamo nel subbuglio rannuvolato della pioggia di gennaio- che avresti sperimentato con me ogni tipo di ricerca, scritto testi senza genere, recitato canzoni senza versi.
Mi avevi chiesto, pregando in ginocchio le mie intermittenze, di reinventare il lessico, quando ti parlavo.
Continuavi a scavarmi le menzogne, senza arrivare mai al silenzio.
Mi dicevi parlami parole diverse.
Voglio essere l'opera più futuristica che scolpiranno le tue mani.
Marmo bianco caldo che mi cola in bocca.
Voglio essere così dadà da non potermi rigirare a testa insù.
Una sedia sospesa nel vuoto con le gambe tagliate.
Voglio essere per te gli occhi biancocieco delle puttane di Modì.
Un pozzo di nebulose supernove ferme lì, pronte da anniluce all'esplosione.
Ti ho mentito.
Ti dissi, sorridendo appena un pò di lato, che non aspettavo altro che questo.
Reinventare la mia lingua.
Raschiarla via dalla mia metacognizione, sentirla lingua d'altri, leggerla in bocca ad altri, chiuderla a chiave tra le tue labbra screpolate, porte di un manicomio criminale.
Il mio.
Ma tutto questo ancora te lo devo dire.
Te l'ho mentito fino ad ora.
Ti ho detto tenterò.
Ti sei incurvato in un sorriso strappato tra tristi scricchiolii.
Le ho sentite io, le contrazioni delle ulcere che ti bucavano lo stomaco a puntocroce.
T'ho sentito vibrare di una tristezza da bambini.
Una tristezza così vera da non essere mai patetica, come solo i bambini sanno non piangere.
Ti ho sentito crollare in un momento, sgretolato tra memorie di zucchero e pareti riverniciate d'intonaco a muffa.
Ti ho visto abbassare gli occhi, lanciandomi il tuo odio per obliquo.
Ci rende così dannatamente tristi la mia cura a base di nonsperanza e di divieti d'affetto.
Solo noi sappiamo essere cinici e romantici allo stesso tempo, ti ricordi?
Ti scrutavo dentro i buchi della pelle, mentre me lo chiedi.
Cercavo di catturare il vento che urlava tra i peli elettrici della tua barba.
E tradisce la tua rabbia. E tradisce l'assenza di me.
Avresto voluto solo che ti abbracciassi.
Un abbraccio, nel nostro noi indefinito in cui siam sempre stati solo io e te.
Ci bevevamo l'un l'altro con la voglia di dimenticarci.
E pagavano i nostri soppalchi abusivi di emotività comprata al mercato nero.
Non erano abbastanza forti. Ci avrebbero scoperti, prima o poi.
Ma io ho fatto finta di niente. Ho buttato giù la testa tra le spalle, infossato di disperazione, e mi sono detto che non sarei mai riuscito a parlarti in maniera originale.
Ma tu lasci scivolare il dorso della tua mano contro la mia faccia da cazzo.
E mi dici ma non dire stronzate.
Lo sai che sei bello. Lo sai, vero?
E sorridi ancora.
Sorridi in quel modo, come se fossi il mio complemento oggetto.
Io amo te.
Io amo una persona.
Mi è sempre sembrato che ci fosse qualcosa di strano in una frase così.
Qualcosa di profondamente innaturale.
Mi è sempre suonato male.

Tristan V.P./Giulia G.