martedì 30 novembre 2010

senza metterci la faccia.

è una questione personale, per lo più.
un'allergia degli ultimi tempi.
allo strumento della faccia-slogan.
nonchè alla vita-slogan, a dire la verità.
io lo capisco che spesso le storie siano alla fin fine un grumo di ricordi e sensazioni personali, di esperienze di vita, di background familiare, di proiezioni oniriche, di desideri repressi, il tutto infilato tra un personaggio e l'altro. perciò il narratore proprio eclissato, estraneo al contesto, non lo si potrebbe mai dire.
chiaro che il buon narratore ha il quasi totale controllo sulla materia (anche se non è detto che ce l'abbia sui possibili sviluppi successivi di storie collaterali, o in caso di finale aperto, per esempio) ed è dal suo incrociarsi di sinapsi aggiunto ad una lucida osservazione del mondo circostante che ha luogo l'intuizione, con a seguito la sua elaborazione in idea e solo dopo in sistema strutturato e ben oliato.
è anche comprensibile che nei personaggi, in alcuni più di altri, ci si butti a capofitto e si finisca per plasmare la materia in individui la cui esistenza virtuale ha motivo di esistere solo in relazione all'esistenza stessa del loro creatore. magari avranno nomi diversi, ma è il dna che conta.
un dna che è sempre lo stesso in duplice, triplice, quadruplice copia.

tutto per dire che si dà troppa importanza alla faccia.
si è troppo concentrati su se stessi per ascoltare/guardare il resto mentre accade.
per farselo entrare negli occhi e lasciare che buchi le pupille.
e il resto sarebbe un ingrediente irrinunciabile della ricetta.
voglio dire, va bene parlare di sè attraverso gli altri, ma anche parlare degli altri attraverso se stessi, attraverso le proprie mani, voglio dire, non sarebbe una cattiva idea.
certo, è più difficile.
puoi andare a raccontare facce indecifrabili, che con te non ci hanno niente a che fare.
ma sono altri. e gli altri fanno il mondo.
se non si raccontano gli altri, se  a questi altri non si strappano gli occhi per appiccicarseli al posto dei propri, di tanto in tanto, si finirà a girare in tondo, prigionieri di orizzonti mentali che non riescono mai a superare se stessi.
fare autobiografia più o meno confessata pone troppi limiti in quanto a materia narrativa disponibile.
diamine, per un libro che passi pure, ma poi?
dopo bisogna rinunciare alla faccia, trovarne un'altra, e poi un'altra ancora e poi tre, quattro insieme perchè il racconto è spesso una corale di voci, un sovrapporsi di prospettive, non è mai solo in un paio d'occhi, è sempre una composizione di piani e di volumi che si compenetrano e si contaminano a vicenda nello stesso tempo.
la propria faccia deve rimanere una faccia.
non uno strumento di promozione.
la propria vita deve rimanere una vita.
non deve sempre venirne fuori un romanzo.

e poi, no, se di thomas pynchon ci abbiamo tre foto in croce e quarantamila pagine di romanzi, ci sarà pure un motivo.

Alcune considerazioni sulla comicità di Kafka (DFW).

- Ahimè- disse il topo, - il mondo si rimpicciolisce ogni giorno di più. All'inizio era così grande da farmi paura, mi sono messo a correre e correre, e che gioia ho provato quando finalmente ho visto in lontananza le pareti a destra e sinistra! Ma queste lunghe pareti si restringono così alla svelta che ho già raggiunto l'ultima stanza, e lì nell'angolo c'è la trappola a cui sono destinato.
- Non devi far altro che cambiare direzione, - disse il gatto, e se lo mangiò.

(Una piccola favola, Kafka).

* Si potrebbero scrivere libri interi sulla John Hopkins U. Press sulla funzione lallativa dell'umorismo nell'odierna psicologia degli Stati Uniti. In parole povere, la nostra cultura attuale è, da un punto di vista sia evolutivo che storico, adolescente. E poichè l'adolescenza è riconosciuta come il periodo in assoluto più stressante e spaventoso dello sviluppo umano- la fase in cui la maturità che sosteniamo di agognare inizia a mostrarcisi come un sistema di responsabilità e limitazioni( le tasse, la morte) reale e opprimente, e in cui dentro di noi aneliamo a un ritorno a quell'oblio infantile che fingiamo di disdegnare- non è difficile capire perchè noi come cultura siamo così sensibili a quel tipo di arte e intrattenimento la cui funzione primaria sia la fuga, e cioè tutto ciò che tira in ballo il fantastico, l'adrenalina, lo spettacolare, l'amore romantico eccetera. Le barzellette sono una forma d'arte, e poichè ormai quasi tutti noi americani ci rivolgiamo all'arte essenzialmente per sfuggire a noi stessi- per fingere un pò che noi non siamo i topi e le pareti non sono parallele e che possiamo correre più veloce del gatto- è comprensibile che per la maggior parte di noi Una piccola favola non sarà per niente comica, o magari sarà persino uno spaventoso esempio proprio di quella realtà avvilente morte-tasse che il "vero" umorismo serve a rinviare.

venerdì 26 novembre 2010

Ma se io parlo, qualcuno mi sente? (Racconti dal formicaio).

E' tardi, cristo, è tardi.
Butto un'occhiata furtiva all'orologio, quasi di traverso, mentre ingoio un pò di saliva che mi scende dai nervi giù nella gola. Le lancette sgusciano via in quell'andirivieni tutto in tondo lungo le tacche del quadrante.
Otto e quaranta, mi dicono.
E' tardi, cristo, è tardi.
Il loro nevrotico tictac mi si gonfia contro il polso.
La verità è che non gliene frega niente, mi dico, a queste tre appuntite lamine di ferro che la vita qua fuori abbia smesso di scorrere da venti minuti buoni e centinaia di sconosciuti col culo al freddo sui sedili di plastica d'un regionale siano bloccati in mezzo alla campagna, quando dovrebbero stare già appesi come pappagalli ammaestrati con le zampe sul trespolo di una metropolitana. Che lì dentro almeno il fiato degli altri ti fa da inceneritore. Non gliene frega niente, a queste tre puttane, se il tempo muore di tanto in tanto qui dalle nostre parti. Loro sono progettate per andare solo in avanti, che il tempo per loro è soltanto futuro che accade, mai presente che si rompe o si arresta. Loro non lo sanno mica l'orrore quotidiano, quello che fa uscire i mostri, che fa sparare nei fast-food o in fila al semaforo, che ti fa strangolare i figli nel sonno, che ti prende per la gola e ti fa passare il collo in una corda. Che poi è solo stanchezza che si raggruma e ti fa marcire nelle ossa.
Mi gratto veloce la punta del naso, la mano si muove scattosa contro la pelle ruvida, tutta a chiazze rosse perchè è novembre e novembre lo sento intorno ai miei occhi, che nevicano tutte quelle lacrime d'un viola allergico e screpolato; e novembre lo lecco sulle mie labbra, arrossate dal grado zero dell'aria, con tutte le pellicine che pendono ai lati; sì, novembre lo sento dentro al naso che non fa altro che starnutire un polline morto.
Le otto e quarantacinque, mi dicono le facce che mi ritrovo davanti.
Raspose, rugose, bucate.
Anche a vent'anni.
Dormono tutti in piedi, cavalli in un carro merci.
Coi vestiti che puzzano ancora di letti singoli e di matrimoniali pieni per metà, di caffè e di biscotti incastrati tra i denti, di capelli arruffati, di naftalina sui maglioni, di barbe non rasate, di tramezzini di polistorolo sotto ghiaccio azzannati nei quindici minuti della pausa pranzo, di cellulari che squillano sempre troppo poco, di carta riciclata di romanzi d'amore a lieto fine, di parole acetate, edulcorate, sterilizzate, di sguardi che sono orizzonti morti, senza più niente da svelare. E io come loro, aspetto solo che il tempo, il tempo che ora sto condividendo con questa gente, torni a coincidere con lo schizofrenico futuro di questo mio orologio fuori sincrono.
Ed ecco la spinta, la sento vibrare leggera nelle mie gambe, ruote motrici di questo polifemo a scompartimenti chiusi, lo ascolto sbuffare carburante via dalle arterie di scappamento, mentre il sangue mi torna in circolo e mi si stiracchiano i pensieri, di nuovo assonnati, dopo quei pochi istanti di lucidità nella paralisi del buco temporale.
Dopo un quarto d'ora eccomi qui, alla stazione Ostiense. 'Fanculo la lezione, ormai è saltato tutto.
Ho un minuto scarso per rimettere il libro nello zaino e tirare fuori le cuffiette del lettore, prima di spararmi qualche sequenza di suoni a caso nelle orecchie.
E poi badabùm, davanti, dietro, attorno a me una mandria di insetti con due braccia e due gambe mi superano, mi circondano, mi si stringono contro, non posso fare altro che farmi trascinare nel mucchio, sono gli altri a camminare per me, ognuno cammina per sospingere l'altro in un moto inerziale, di trascinamento di carcasse, di resti solitari con un nome, forse, e un lavoro a ore, di uomini in cravatta chiusi nelle loro valigette di pelle nera, di troppa gente con gli occhiali da sole, che cristo, sarebbe anche novembre, il mio naso ve lo può assicurare. E non posso fare altro, sul serio, che incastrarmi nel rancido del loro fiato d'alcool e di cipolla, nelle conversazioni degli africani che vorrei saperlo che cazzo di tariffa c'hanno, la wind mica le fa tutte queste offerte, nella pelle degli indiani che sa di curry e di spezie che mi fanno sempre starnutire e cristo, toglietevelo dalla faccia quel sorriso da giapponesi che vi ritrovate, stronzi! e i bermuda avana dei turisti tedeschi trascinati da un posto all'altro in gite in pullman a due piani, senza mai mettere piede su un sanpietrino, smettetela di ingozzarvi di grassi estrogenati! e no, io non ve le dò le indicazioni in francese, figli di puttana, imparatevele due parole in croce di inglese, checazzo! E voi, spagnoli della movida della minchia, che mi venite a ballare la macarena sul treno, sul mio cazzo di treno, mentre vi sbracciate in applausi a qualche zingaro di turno con la fisarmonica, dovrebbero chiudervele le frontiere, figli di puttana!
Ma poi capita che lo vedo.
Pasticca. Il vecchio Pasticca.
Dicevano che fosse morto e invece eccolo qua, da tutt'altra parte della città, ma è lui. Ed è vivo.
Molto di più di noi.
Pasticca, il barbone di Centocelle.
Da quando ha iniziato a farsi vedere in giro non s'è mai visto con qualcosa di diverso addosso.
Tutto raggomitolato in quel pastrano piombo da monaco medievale, col giubbotto catarifrangente per far vedere che lui c'è, che è lì, che non lo prendessero sotto, se si mette al centro dell'incrocio mentre sventola la sua storica cannuccia rosa e gialla, che pare una luminaria per quanto è fosforescente, e quel bicchiere di carta sudicio che si tiene stretto tra le mani grigie. Pasticca canta e parla pure qualche volta. Certe parole gliele hanno sentire dire in italiano, certe altre in quello che alcuni hanno creduto essere serbo.
Non è che chieda l'elemosina. E' lì fermo, al centro della strada, e ora di questo sottopassaggio metropolitano, e strizza i suoi occhi da pesce marcio all'ingiù. Mi danno l'impressione di un paio di corvi incatramati. Due pezzi di diamante nero, rubati a chissà quale terra, e giusto loro potrebbero snodare quel tappetino di capelli che gli hanno ricamato in testa gli anni. Anche se lo rasassero a zero, ricrescerebbero annodati. E mi viene da sorridere, perchè è buffo ed è trististissimo rivederlo qui.
Dove la vita scorre troppo veloce anche per i treni ad alta velocità.
Che poi oggi ha un sacco da parlare, Pasticca, ma sono lontana, non capisco quello che sta dicendo.
Perciò mi faccio più vicina, metto in pausa il lettore e ascolto.
Non so se sia soltanto l'ossessione che mi rattrappisce la testa, ma quello che sento io è un punto di domanda, tutto balbettato nella sua voce da giradischi con la puntina rotta; non una preghiera, nè uno scongiuro, una semplice domanda. E io non so rispondere. Io non posso farlo.
"Ma se io parlo, qualcuno mi sente?"
Butto giù il groppo nella gola.
Due, tre colpi di tosse.
E' solo allergia, mi dico.
E' solo questa fottuta allergia.

domenica 21 novembre 2010

Perchè scrivere fa scrat.

La premessa è che è domenica, manca poco più di un mese a natale, le commesse dei supermercati hanno già messo su la faccia da cartelloni pubblicitari ambulanti, quella che mi fa crescere i sassi nello stomaco, che tra lacrime di cioccolata al peperoncino e bolle da abuso di pandoro mi vuole dire:
"Sono l'ultimo torroncino al latte di soia con i cinque cereali infilzati dentro come chiodi che se mai ti venisse voglia di addentarmi ci ho il numero del dentista convenzionato sul retro della confezione, ma cazzo ti costa, potresti mettermi al posto del centrotavola, sedarmi, farmi a pezzi e sdraiarmi su un piattino come uno di quegli antipasti che ritiri fuori a ogni natale, senza neanche toglierci la polvere, tanto quelle bocche da cane affamato dei tuoi nipoti ingoierebbero pure le colate d'asfalto e gli sembrerebbe di mangiare le patatine fritte, che, a proposito, sono sullo scaffale a destra, reparto quattro".
Ecco, questo è il motivo per cui evito di andare al supermercato da novembre in poi.
Ed è anche la ragione per cui di questi ultimi tempi a me, e all'equipe tutta, prudono le mani come non mai e ci viene spesso voglia di buttarla in rissa. Per questo vi chiediamo già da ora di essere clementi fin quando non vedremo quell'11 dopo il 20, che a noi sa di apocalittico e ci fa tranquillizzare un pò.
Ma oggi l'equipe tutta vorrebbe sottoporvi uno dei suoi studi di natura etimologica, che la lingua è importante, soprattutto quella in cui uno decide di scrivere.
Scrivere.
Ripetetelo ad alta voce per tre volte al dritto, poi al rovescio, poi anagrammatelo.
No, d'accordo, non abbiamo di tali pretese, ditelo a voce alta solo una volta.
Ora, il qui presente membro dell'equipe vi racconta un aneddoto epifanico della sua perplessa infanzia.
E' una sorta di ricordo audiovisivo, a dirla proprio tutta.
Che la mia testa ha sempre funzionato così, ricorda per accoppiata di suoni/immagini, quando non ci ha proprio i buchi neri. E' il ricordo della mano destra della sottoscritta, dimensione sei centimetri per sei, che impugna per la prima volta una penna tutta storta e già imbronciata, sputando sul foglio quel gran monumento di scarabocchio, che non era un disegno, nè una parola, nè segno d'alfabeto ancora decifrato.
E in quell'istante infinitesimale di contatto tra la penna e il foglio, quel suono da paralisi.
Scrat.
O qualcosa di molto simile a scrat. Tipo Sgrat. O Scrag. O Scrab.
Ve l'ho detto che ho una pessima memoria.
Ma il crampo nella pancia era quello, no?
Il bianco che si strappa e lascia il posto a qualcos'altro.
Lascia spazio al segno in un oblungo filamento neroblu.
E la carta è terremotata da uno smottamento improvviso, con tutta la terra, il fango e le rocce che precipitano dall'alto ed è un alluvione di melma e di schifezze che scende giù da qualche incrocio neurale autostradale e prende le strade più sterrate che si ritrova davanti e rotola e intralcia e si catapulta e s'aggrappa alle righe e imbratta tutti i margini di traverso e ti viene da arricciare il naso e da tenerti un pò la pancia perchè non sai com'è, ma su quel foglio ti ci senti spiaccicato tu, proprio a quattro zampe, tu, che ancora non ti reggi in piedi da solo e senti distintamente che ti ci sei avvinghiato su peggio di una stella marina e che puoi averci tutte le zattere che ti pare, a mollo capita che ci finisci lo stesso e magari il maremoto ti si ingoia tutto e ti trascina giù, come una di quelle barche da inizio novecento, col legno marcio e tutto quell'oro dentro perso per sempre.
Ma così doveva andare. E da bambino lo sai, lo intuisci, per lo più e non ti prendi paura perchè hai una corazza invulnerabile che non c'è morte che tenga, la morte già la sai, tu.
Poi però cresci e ti insegnano a scrivere dentro le righe e a mettere le parole in sequenza, a costruire il senso in paragrafi, a rispondere a domande aperte in tre righe su un argomento che richiederebbe cinquanta pagine di foglio protocollo. Ecco.
E ti dimentichi che scrivere sta tutto in quella sequenza consonantica trilettera all'inizio.
Cazzo se non ti dice tutto quello che c'è da sapere.
Almeno per iniziare bene, intendo.
Che scrivere voglia dire incidere, intagliare, scolpire, scalpellare, scalfire, grattare, raschiare, raspare.
Scavare una buca di cui non vedi il fondo e avere il coraggio di infilarci la mano.
Senza tirarla via prima che il mostro dentro t'abbia morso.
Che il mostro c'è, a ognuno il suo, non pensare di farla franca.

Ecco perchè scrivere fa scrat.
E non t'aiuta mai a trovare una risposta che sia una.
E va bene così.

Scrivere: etimologia.

sabato 20 novembre 2010

Imbottiglia il buco nero e stappa lo champagne.

Nella sezione scienze de "Il Corriere della sera" di ieri, 19 novembre 2010, fa capolino, un pò timido, un pò circospetto e per lo più incredulo, un articolo relativo all'ultima scoperta del Cern di Ginevra. La creazione dell'antimateria.
Per essere più precisi, trattasi di 38 atomi di anti-idrogeno, attualmente immobilizzati, che si configurano con massa identica, ma carica opposta a quelli di idrogeno della materia ordinaria.
Ora, nonostante Dan Brown con fantamaghi a seguito ce l'avesse già menata anni fa con il furto della prima, e in quel caso anche unica, particella di antimateria (fortunatamente a Ginevra si sono rivelati più previdenti di quanto pensi l'amico Dan e di atomi ne hanno già creati 38, perchè oramai avevano fatto 31, perciò perchè non 38? e probabilmente per il terrore di ritrovarsi invischiati in uno di quei film in cui tom hanks vestito male che neanche il tenente colombo si mette lì con la faccia rossa e tutta smeningiata a decifrare simboli runici, elfici e vecchie iscrizioni in tagalog per poi dover intraprendere duelli all'ultima particella neanche con il papa, che già si sentivano l'orticaria, ma con un pontefice impostore, ecco no, sarebbe stato preferibile ricreare da capo l'antimateria, la materia ordinaria e tutto il pianeta terra) la notizia esercita comunque un certo effetto, almeno su di me.
Non che io sia una fanatica di questo tipo di cose.
Al di là dei miei piani di distruggere il mondo tramite tecniche non sempre ortodosse, piani per cui la creazione di questi 38 atomi iniziali di antimateria potrebbero senza dubbio tornare utili per qualche gigantesca esplosione ben mirata (ma tranquilli, non ho intenzione di scriverci libri su: sarebbe anche ora di passare ai fatti senza troppi fronzoli), la notizia in sè fornisce spunti di riflessioni interessanti.
Leggiamo insieme.

È però impensabile portare l'antimateria a spasso in una bottiglia, come accade nel romanzo», osserva il fisico Andrea Vacchi, dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). E' infatti sufficiente che un atomo di anti-idrogeno venga a contatto con la materia ordinaria, ad esempio con un gas o con le stesse pareti del contenitore, perchè avvenga una gigantesca esplosione. Entrando a contatto, infatti, materia e antimateria si annullano (o annichilano) a vicenda.

Annichilimento reciproco. Roba che già a pronunciarla a voce alta ti viene voglia di rubare un atomino e portarlo a spasso per la tangenziale all'ora di punta, per dirne una.
In quanto di carica opposta, materia e antimateria, che sono l'una lo specchio simmetrico dell'altra, tendono naturalmente ad annullarsi. Lo ripeto?
Tendono naturalmente ad annullarsi.
Quel naturalmente non sta lì mica a caso.
Voglio dire che in questa precisa circostanza non possiamo sostituirlo, semanticamente allegri e noncuranti, con ovviamente, chiaramente, evidentemente e altri avverbi con suffissi psichici a seguito. Quel naturalmente lì ha solo un significato: secondo natura.
Di conseguenza la stessa frase può essere riscritta nel seguente modo:
Materia e antimateria secondo natura tendono ad annullarsi.
Che è una cosa che sapevamo tutti (fin da prima che ce la spiegasse Dan Brown, che è spiegazionista convinto, oltre che spacciatore di pessimo nonsense) ma che a volte finiamo per dimenticare come tutto quello che diamo per acquisito e accatastiamo nella memoria a lungo termine( detta anche memoria con tendenza frequente all'irreversibile distruzione dell'hard disk).
Qua stiamo constatando che natura vuole che materia e antimateria siano così follemente attratte l'una dall'altra da gettarsi nel precipizio insieme con una bomba a orologeria legata al collo, prendersi per mano e lasciarsi la cenere alle spalle. Qua stiamo insinuando che l'incontro degli opposti può essere in realtà solo uno scontro, seppur al massimo grado di intensità. Qua stiamo dunque sottintendendo che il massimo grado di intensità si possa ottenere solo dalla collisione degli opposti con l'unica effettiva conseguenza  di una distruzione totale, senza riserve nè salvati. Ora, mettendo un uomo nella bottiglia di Dan Brown con i 38 atomi di anti-idrogeno, analizziamo come l'individuo sia singolo che in branco si ostini ad agire da snaturato, come tutto il suo fare e il suo dire appaiano, a conti fatti, dettati dalla folle paura del crollo, della crisi, dello spacco che non si richiude.
Il suo frenetico aggrapparsi alle molecole di materia ordinata, facendo di tutto per evitare che l'antimateria tocchi le pareti del contenitore o che qualche infiltrazione di gas penetri dal mondo esterno, ci appiccica sulla bocca un punto di domanda.
Quello che noi non ci spieghiamo, e che il Cern era impossibilitato a spiegarsi per penuria di antimateria coi tempi infami che corrono, è:

uno dei più grandi rompicapo della fisica contemporanea, ossia perchè al momento del Big Bang la natura ha «preferito» la materia ordinaria all'antimateria. Entrambe sono state infatti prodotte nella stessa quantità (in modo simmetrico) e di conseguenza avrebbero dovuto cancellarsi a vicenda; tuttavia questo non è successo perchè una certa quantità di materia (calcolata in una particella ogni 10 miliardi di particelle di antimateria) è riuscita a sfuggire e grazie a questa rottura della simmetria si è formato il mondo in cui viviamo.
Perchè una certa quantità di materia è riuscita a sfuggire e grazie a questa rottura della simmetria si è formato il mondo in cui viviamo.
Cosa che implica che:
1) Siamo qui per un gran culo o per una gran sfiga.
2) Che non siamo qui perchè qualcosa è stato creato, ma perchè al contrario ha rotto gli argini della simmetria ed è sgusciato fuori, ha lacerato la materia, ha tracciato una fessura, ha delineato un punto di fuga.
E sbadabùm.
Eccovi qua.

Creata l'antimateria al Cern di Ginevra.

giovedì 18 novembre 2010

Sullo spiegazionismo e d'altre malattie.

c'è un dato di fondo.
e stiamo qui per dirlo senza sentenziare troppo.
gran parte della letteratura contemporanea, di quella scritta da uomini e donne che nella data di nascita ci hanno numeri che vanno dal 1950 in poi, risulta troppo spesso affetta da una grave forma di patologia cronica con elevatissime percentuali di recidività, patologia a cui noialtri ci riferiremo d'ora in poi in gergo altamente tecnico con la definizione di spiegazionismo.
lo spiegazionismo non è sindrome da prendere sotto gamba, signori.
tutt'altro, più leggo e più mi rendo conto di quanto possa essere nociva al fine di rendere un romanzo potenzialmente molto buono una cagata pazzesca (sempre parlando in gergo altamente tecnico).
noi dell'equipe d'analisi critica, con questa faccia crucciata da scorbutici che ci ritroviamo, inviamo questa nostra sentita missiva con l'augurio che questa umile riflessione di carattere antro-filo-miso-sociologico venga accolta con un sorriso e non da troppe bocche storte.
mesi fa, in un'intervista online che feci ad antonio paolacci sul suo romanzo d'esordio, "Flemma", chiesi a questo gran bravo ragazzo quale fosse il messaggio di fondo che voleva lanciare nel romanzo.
e la sua risposta, quella che speravo sinceramente di leggere, fu più o meno questa:
"Nessun messaggio: volessi lanciare messaggi scriverei sui muri, invece che pagine e pagine di narrativa".
affermazione da cui noi dell'equipe intendiamo partire come dichiarazione manifesto dell'anti-spiegazionismo.
lo scrittore non deve fare politica, punto primo.
non deve cercare di persuadere o dissuadere elettori in un comizio di propaganda, strillare propositi programmatici per attirarsi il favore delle folle, lanciare proposte come bombecarta allo stadio. No, niente di tutto questo. Spesso si tende a dimenticare che l'attività principale di uno scrittore dovrebbe essere raccontare storie. Non spiegare il messaggio che sta alla base della storia.
perchè il messaggio (o i messaggi) c'è, questo non è che ve lo dobbiam spiegare noi.
ma non dovrebbe spiegarvelo neanche l'autore.
dovreste capirlo da soli, voi che leggete, noi che leggiamo.
non fa mica il descrittivista, lo scrittore.
lui la racconta la storia, non la descrive, non la spiega, non la sviscera.
non è suo compito imbrattare di colorati murales i muri delle vostre città interiori, più o meno desertificate, infiocchettando le pagine di messaggi che di subliminale c'hanno ben poco per urlarvi addosso a lettere cubitali che sì, è proprio questo quello che volevo farvi intendere, guardate quel personaggio, agisce così perchè non è nient'altro che la perfetta stereotipata e nientedimeno prototipica incarnazione del giovane trentenne in crisi alla ricerca di un centro di gravità permanente che magari il centro finisce pure per trovarlo (ma qua si inizierebbe a parlare di cattiva letteratura ed è un discorso troppo lungo, l'equipe si riserva di chiudere la parentesi per affrontare la questione in sede più idonea con una disposizione di tempo illimitata).
lo scrittore è diventato spiegazionista, ecco il problema.
spiega quello che vuole intendere, invece di suggerirlo tramite un gioco di continui rimandi e associazioni mentali di immagini/voci/colori/odori che dovrebbero scatenarsi nel lettore in tutta la forza del loro potere evocativo.
questo si sta perdendo in una buona parte della narrativa contemporanea: la componente poetica.
la capacità della parola di farsi correlativo-oggettivo di qualcosa che è altro, non è tangibile, non è rintracciabile tra le pagine del romanzo, ma è già dentro di te, tu che stai leggendo, proprio te, la capacità di ancorarsi a ricordi, frammenti, flash della tua memoria e storia personali di uomo e di donna che legge e assorbe, legge e introietta, legge e elabora la parola in un complesso processo di introspezione solo attraverso il quale il libro può diventare tuo.
invece in molti romanzi tutto questo manca, è già spiegato.
viene negato il piacere di cogliere il suggerimento, di mordere la parola e masticarla ben bene, sfibrandola tutta, nervo dopo nervo, fino a rifletterla in un gioco prismatico di luci e ombre a cui è chiamato a partecipare ed entrare in azione tutto il nostro potenziale immaginativo.
e lo capisco, non è solo colpa degli scrittori, che a vedere come son distratti certi lettori si sentono in diritto di svelarci il trucco.
è anche la lettura a mancare d'attenzione, ad essere privata di quella capacità di concentrarsi sulla parola e sul contesto e poi sulla parola decontestualizzata e di per sè considerata, che richiede interesse, pazienza e una lentezza necessaria all'elaborazione della sua pluralità di significati.
Tutta roba che, per come scorre la vita adesso, è un animale in via d'estinzione, in dirittura d'arrivo al macello (sarà una punturina del tutto indolore, ve lo promettiamo, una di quelle iniezioni che un minuto prima sei vivo e poi ti ritrovi in una bara, non temere, non ti accorgerai di niente).
Ma l'equipe a volte si sveglia che le gira bene e ci prova.
Che ci volete fare.

sabato 6 novembre 2010

perchè i simboli non sono mica malattie ereditarie, eh.

qualche mese fa mi è capitato di imbattermi nelle pagine di un blog di un ragazzo di vent'anni o giù di lì.
in uno dei post campeggiava nero su bianco a lettere cubitali una domanda.
"Ma dopo il novecento voi pensate davvero di poter creare qualcosa di nuovo?"
Ora ammetterete che il quesito è a dir poco spiazzante.
Voglio dire, per gente come me che al novecento gli ha visto fare l'occhiolino in curva, mentre era già con il culo al caldo su un aereo in prima classe, direzione Timbuctu, la risposta non è così scontata.
Quelli che si trovano ad avere vent'anni adesso hanno aperto gli occhi giusto alla fine dello show, coi coriandoli che cadevano sulle risate preregistrate e sui palloncini sgonfi, mentre la nike aveva già iniziato a fare pubblicità di scarpe di quelle che arrivavi alla fine senza capire se ti volessero vendere un profumo o una bottiglia di champagne. Ecco, mentre alcuni tra noi imparavano a ingoiare omogeneizzati, a sillabare tutti i nomi del parentado, a stringere amicizie a tempo indeterminato con misconosciuti bambini al parco e a diventarci amici per la pelle giusto quel numero d'ore al giorno richiesto da contratto, a contare fino a cento per poi scoprire che i numeri andavano avanti all'infinito, a scrivere senza andare fuori dalle righe e a colorare senza sbavare fuori dai contorni, roba che a me che la penna l'ho sempre impugnata a culoverso non m'è mai riuscita- ecco che il mondo fuori si stava avviando alla conclusione di qualcosa di grosso, qualcosa che nell'arco di poco meno di cinquant'anni aveva radicalmente cambiato le sorti del nostro più o meno improbabile presente.
Il novecento.
Cento anni in corsa verso la rottura.
Cento anni come il primo verso libero che si spezza senza punto e a capo.
E in tutto questo noi non c'eravamo.
Inutile insistere, ragazzi, noi non c'eravamo.
Non stavamo a Woodstock a raccontare di come Jimi Hendrix sapesse violentarlarsela a forza di baci, quella chitarra. E anche se ci fossimo stati, probabilmente non saremo qui per raccontarlo. Non c'eravamo mica quando rapirono Aldo Moro.  Non c'eravamo quando Ziggy Stardust è caduto dal cielo nella sua coperta di lustrini. Non ci siamo mai montati in macchina insieme a quelli squinternati di Kerouac e Cassidy e San Francisco l'abbiamo vista solo in cartolina. Non ci siamo mai andati ad ubriacare nei peggiori bar d'America insieme alle puttane di Bukowski e ci possono essere tutte le notizie che vuoi dal fronte occidentale, ma noi la guerra, quella che ti entra dentro casa, non l'abbiamo mai vissuta. Non c'eravamo quando Truffaut ha girato Jules e Jim. Non c'eravamo quando è saltata in aria la stazione di Bologna. Non stavamo a passeggiare a Venice beach quando Ray Mazarek ha detto a Jim Morrison che magari qualche cosa di buono da loro poteva pure uscire. Ne abbiamo aspettate tante di primavere, ma non insieme ad Arturo Bandini e alla sua bella messicana. Non li abbiamo visti arrivare i primi computer, quelli che ancora non ti preparavano la pasta al forno. Non lo abbiamo visto crescere quel ragazzino tutte ossa e capelli, nascosto dietro un paio di Ray Ban neri, che gracchiava profezie su signori tamburino e sui tempi che stanno per cambiare. Noi Robert Wyatt non ce lo ricordiamo in piedi. E di Pasolini leggiamo qualche frase sopra agli striscioni dei collettivi universitari, ma non è la stessa cosa. Per noi la guerra fredda è un mondo diviso a metà da due giganti troppo ingordi.
Perchè tutto questo, come è naturale che sia, ci appartiene solo di riflesso.
E' parte di noi, della nostra storia, di quella dei nostri padri.
Ma non sarà mai un vero e proprio tassello del nostro tessuto mitico, di quell'intreccio narrativo su cui abbiamo iniziato a camminare a quattro zampe e a costruire pareti di ricordi, frammenti pulsanti di tempo in scorrimento rapido.
Possiamo leggere quanto vogliamo, guardare film, ascoltare dischi, ma c'è qualcosa che si perde nel passaggio temporale del salto generazionale. E non si deve far finta di niente.
Questo non è più il novecento. Un novecento che voi, anzi noi, non abbiamo mai toccato veramente con mano. Non ne siamo stati i protagonisti, semmai ne siamo i figli, la diretta conseguenza di.
E poi ci siam visti catapultati tra anni che sono stati codici cifrati a troppi zeri.
E abbiamo dato la colpa a chi c'è stato prima di noi, perchè le colpe sono spesso dei padri.
L'accusa era di averci fatto nascere troppo tardi, quando il più bello era già finito.
Loro si son presi tutto il divertimento e noi la crisi ecologica del pianeta.
Perciò quello che ci è venuto in mente di fare è di smettere di pensare.
E così facendo smettere di creare.
Perchè il creabile, o tutto ciò che meritava di essere creato, se l'era rubato il novecento e a noi non rimaneva che distruggere o imitare.
E la pigrizia ha vinto su tutto, quello che ne è uscito fuori è una copia decontestualizzata.
Abbiamo ereditato, come malattie genetiche, i simboli degli anni '60, '70, '80 e ce li siamo infilati nei cappucci delle felpe, tra i lacci delle converse, nelle borse di cuoio. Siamo tornati a ballare sulla Rettore, mentre nei locali più in le ragazze si strappavano i capelli per "Help me". Ci siamo fatti crescere i capelli fino al culo, poi ce li siamo cotonati e spettinati tanto quanto basta per darci una parvenza di pensatori attenti e intenti.
I pensieri, li portiamo come si portano gli occhiali da sole d'inverno nel pieno di una bufera di neve.
Siamo diventati noi stessi, pelle e tutto quanto, simboli di una generazione che non è la nostra e che non rimanda a niente che ci riguardi da vicino. Siamo finiti per essere correlativi-oggettivi di qualcosa che non evoca, non suggerisce, non pone domande, ma propone solo simboli svuotati dei loro rispettivi significati.
Espone la situazione così com'è.
Un rifiuto.
Con la voglia di tornare a quell'età dell'oro tanto vagheggiata quanto mai conosciuta.

E perciò quando mi è capitata davanti agli occhi questa domanda, mi è venuta subito la bocca storta.
Cazzo se si può creare qualcosa di nuovo dopo il novecento.
Basta uscirne, dopo aver preso la consapevolezza di non esserci mai veramente entrati, per inciso.
Dovete crearli voi, i vostri nuovi simboli.
Imparare il novecento e poi dimenticarlo.

Si può creare qualcosa di estremamente distruttivo.
Che abbia la potenza di un detonatore, il sapore dell'esplosione finale.
E poi ci potremo togliere gli occhiali.
E finalmente tuffarci in questo nostro sole viola artificiale.

mercoledì 3 novembre 2010

Sacha, sacha, sacha!

Giovedì 18 novembre · 18.00 - 19.30


Panama Café

Via della Polveriera (c/o Staz. Serv. ERG)


Civitavecchia, Italy

Sacha Naspini, una delle penne più interessanti sul panorama letterario italiano, presenta "I Cariolanti" (Elliot Edizioni) e "Noir Désir" (PerdisaPop).

Letture e musiche live di Massimiliano Ercolani (contrabbasso) e Valerio Saladini (chitarra).
Introduce Fabrizio Gabrielli.
Dialogherà con l'autore Giulia Guida.

I Cariolanti è un romanzo di deformazione, selvatico e rabbioso, dove il vero protagonista è la bestialità, non la bestialità malvagia e gratuita, ma quella istintiva e viscerale di chi uccide per sopravvivere. Una favola nera in tredici istantanee dove si respirano atmosfere che vanno da Truffaut a Stephen King, alle Fiabe italiane di Calvino.

[dal sito di Elliot Edizioni]

Questo libro, in realtà, è un romanzo doppio. Due romanzi di formazione che corrono parallelamente in tempi e luoghi diversi e giocano a rincorrersi, a entrare in collisione, a scambiarsi i personaggi e a precipitarsi nel destino, senza che si possa fare niente per cambiare le cose.

[Giulia Guida su Disasterland]

Info su Sacha Naspini: www.sachanaspini.eu
Info su Giulia Guida: http://tristanvanpersie.blogspot.com/
Info su Fabrizio Gabrielli: www.fabriziogabrielli.info

A seguire, aperitivo e dj set.