venerdì 2 aprile 2010

"Bisogna studiare Baudelaire".

Era una mattina d'aprile quando arrivarono.
Sentii i loro passi pesanti sul vialetto di ghiaia fuori casa.
Camminavano pestando i piedi sul selciato tutto scheggiato, ogni passo era un cratere di vuoto che s'apriva, un sorriso rapace come una macchia a fare ombra sulla terra. Camminavano e non avevano dubbi. Respiravano perchè così gli veniva richiesto. Un rantolo metallico che gracchiava nell'aria spenta e si mescolava alle risate che non avevano voglia di ridere. Ridevano perchè così gli veniva richiesto.
Perchè è così che uccide il male, ridendo, gli era stato detto.
Erano usciti dal grigio della stanza così come vi erano entrati un'ora prima.
Niente domande, nessuna risposta. Solo una serie di ordini in sequenza.
Due ricettori di comandi esperti come loro non erano certo tipi da porsi problemi di questa sorta. D'altronde non disponevano già da tempo dei mezzi per farlo. Niente del mondo in cui erano cresciuti avrebbe potuto permettere loro di agire in maniera diversa.
Programmati per decodificare un codice cifrato di informazioni essenziali, avevano ormai perso la capacità di elaborare prodotti che non rientrassero nei canali stabiliti dal Ministero dell'Aculturazione e della Distruzione dei beni culturali.
C'erano stati anni di lotte, ma quasi nessuno ormai ne aveva memoria.
Chi era sopravvissuto era ancora troppo piccolo all'epoca per poter ricordare.
E i morti, si sa, non hanno voce.
Molti di loro s'eran portati nella tomba i figli assieme a un mucchio sparuto di idee andate a male, lanciate come lacrimogeni contro le barricate degli aculturatori, mentre nei loro laboratori di scrittura creativa si continuavano a progettare armi intelligenti. Quelle sì che avrebbero fatto la differenza, avrebbero finalmente posto fine ad anni di silenzio.
Dopo mesi di resistenza, fu vietata la libera circolazione nelle strade per irreversibile stato di inagibilità.
Il sangue dei loro annacquava ogni via, s'era infiltrato negli scantinati, si riversava dai tetti rotti nelle case dei rifugiati- il sangue dei loro figli scavava piogge acide negli occhi vecchi dei padri, divorava i ventri disperati delle madri.
I genitori si trovarono costretti a vietare ai loro bambini di andare a giocare nei parchi, di frequentare le scuole, di leggere loro le favole, giudicate come tendenziosi prodotti della contocultura antigovernativa, ritenute responsabili di poter dare adito a ideologie di rivolta basate sulla rivendicazione del diritto alla libertà di pensiero e di parola.
Fu emesso un decreto-legge che imponeva ai bambini dai tre ai sei anni d'età una visione quotidiana della televisione di tre al giorno, dai sei ai dodici di dieci ore al giorno, dai tredici ai venti di quindici ore al giorno fino al limite massimo per i pensionati di ventiquattro ore al giorno.
E a quel punto capirono. Che nessuna arma avrebbe fatto la differenza, perchè se delle idee non sapevano più che farsene, figurarsi dei romanzi.
Una distesa di sepolcri bianchi inerpicata tra le reti fognarie sarebbe stata l'unica traccia della loro esistenza. Nessun nome, nessuna data, nessun luogo di nascita e di morte.
Gli ultimi strenui difensori delle parole scritte avrebbero lasciato questa terra senza un biglietto d'addio prima di tirare le cuoia.
Centinaia di corpi furono portati nelle poche campagne ancora non cementificate.
Fu uno spettacolo molto suggestivo.
Io lo so, perchè c'ero.
I miei occhi di bambina non hanno dimenticato niente.
E ancora adesso vedere il fuoco mi mette un freddo viola addosso.
Mio padre era ancora vivo quando fu ricoperto di carta dalla testa ai piedi.
Mia madre giaceva al suo fianco, riversa su un fianco, un vestito di lino bianco a cingerle la vita. La sua mano, ancora gelida di rabbia, stringeva quella di mio padre in una morsa convulsa, quel buco nero in faccia di chi sa d'aver lottato per anni controvento. Di chi sa che avrebbe perso fin dall'inizio, ma aveva sperato che non dovesse davvero finire così.
Mio padre non sarebbe mai morto. E così è stato.
Anche quando i fogli che gli strangolavano la gola iniziarono a prendere fuoco, lui era certo di non star morendo davvero.
Perchè aveva lasciato me. La traccia più grande della sua vita sulla terra. E io mi sarei salvata.
Avevo vissuto poco e non sarei vissuta a lungo, questo lo sapevamo entrambi.
Ma se avessi avuto fortuna, sarei riuscita a masticare ossigeno ancora per un pò, tanto quanto sarebbe stato necessario.
Mio padre è stato sempre troppo idealista.
Per questo non ho mai sopportato l'ottimismo della gente intorno a me.
Mancavano di senso della realtà, le loro verità non avevano lo spessore giusto, erano prive di quella crudezza ruvida che solcava irriverente le mie labbra senza sonoro.
Guardando bruciare contro il suo petto nudo l'ultimo duello tra achille ed ettore, l'odore delle puttane di Bukowski, i capelli grigi del vecchio Holden, il rifiuto categorico di Bartebly, capì che niente di tutto quello sarebbe più esistito un giorno. Che la mia solitudine sarebbe stata immensa perchè il mondo stava andando in un'altra direzione e non ci sarebbe stato più spazio per le parole.
Non erano fonte di guadagno, non erano redditizi prodotti di scambio e richiedevano un costo di manodopera insostenibile con la crisi finanziaria di quei tempi.
Capii che tutto ciò che gli altri consideravano inutile e facoltativo, per me sarebbe stato necessario e imprescindibile. E in queste condizioni, le prospettive di un contatto umano andate a buon fine, già lo immaginavo, non sarebbero potute essere molte. Mi stavo condannando a una prigione di carta.
Ma scelsi la sola alternativa che mi era rimasta.
Mentre i versi di Sylvia Plath morivano nella bocca di mio padre, uno spaventapasseri mangiato dai corvi, decisi che sarei diventata una scrittrice, che avrei letto, letto fino allo sfinimento, all'esaurimento di ogni mia forza, perchè soltanto in questo modo avrei potuto morire incontaminata.
Non pensavo di cambiare le cose, sia chiaro.
Facevo già parte di quella generazione di niente vuoto e di cattiveria gratuita.
La generazione degli urlatori da mercato.
Non di quelli che imbracciavano il megafono per dar voce a un messaggio di cambiamento, che si portavano dentro la luce del terremoto, l'ordine nuovo dopo la scossa.
I miei coetanei- me ne accorsi ben presto- gridavano per sovrastare le loro comunicazioni con i fili del telefono staccati e i cavi dell'elettricità fulminati.
Le loro grida sparate attraverso schermi di vetro al plasma raccoglievano il niente che gli brontolava nella pancia, rompendo l'aria nell'esplosione di un disordine spigoloso povero di immagini, fatto di spazi bianchi, senza più inchiostro liquido da ingoiar giù.
Un giorno una delle mie più care amiche venne da me e mi disse
- Non riesco più a sognare. Non lo faccio da mesi.
Le risposi che avere fantasia non era una prerogativa richiesta nel nuovo ordinamento scolastico, dopo l'ultima riforma del ministero dell'istruzione.
Lei mi abbracciò appena, sorrise la sua gioia artificiale e tirò un sospiro di sollievo indotto.
Mio padre aveva predisposto tutto per me.
Avevamo una piccola casa in campagna in cui non andavamo quasi mai. Mia madre ripeteva spesso che a volte si perdeva ad immaginarci tutti insieme noi tre, lontani dalla vita in città, liberi da ogni frenesia, tra quelle pareti murate vive di libri che sapevano d'erba bagnata e scricchiolavano tra le mani come granelli sottili di sabbia.
Su una mappa aveva disegnato tutta la strada che avrei dovuto percorrere dalla campagna in cui fu ucciso alla nostra casa. Una volta arrivata lì, avrei trovato tutte le indicazioni che mi sarebbero servite negli anni a venire.
Mi aspettava una vita di finzioni.
Mi attendevano prove di simulazione di disinteresse e disprezzo.
Per tutto ciò per cui mio padre e mia madre avevano dato le loro vite.
Avrei dovuto misurare ogni parola che avessi utilizzato da quel momento in poi, non ci sarebbe stato nessuno a pormi un freno, soltanto io potevo controllarmi e giudicare fin dove mi sarei potuta spingere.
Scegli il silenzio, fin quando sarà necessario, mi aveva lasciato scritto mio padre.
Mischiati agli altri, mi aveva pianto addosso mia madre.
Non fare il nostro errore.
Non fare il nostro errore.
Non fare il nostro errore.
Mai e poi mai sarei dovuta uscire allo scoperto fin quando non fosse arrivato il momento opportuno, l'occasione giusta per dar luogo alla loro vendetta.
Per anni fui un numero.
Una tessera matricolata in mezzo a elenchi interminabili di codici identificativi.
Mi aggrappavo al ricordo del mio nome e al viso di mio padre per non dimenticare tutto quel che c'era stato prima di me, per non strozzarmi la voce tra i gridolini delle ragazze che erano cornacchie arrapate e le offese infondate dei ragazzi, lanciate come lame a fendere l'aria.
Per anni scelsi l'anonimato, decisi di scomparire dietro un velo di apparente bontà, di ammirevole benevolenza, di prodigato altruismo, niente di quello che stavo costruendo a poco a poco sarebbe dovuto trasparire dalla mia testa china su programmi d'algebra applicata ai principi della discriminazione e su equazioni esponenziali d'odio.
La polvere si mangiò gli anni tra i quaderni scarabocchiati delle mie fragilità, chiusi nello scrigno del mio dolore fantasma, che nessuno conosceva e che mi vorticava dentro tra vertigini ballerine.
Dimenticai di saper scrivere.
Troppe erano le mani che cercavano di rendermi cieca, fuori.
Vedevo i miei capelli rossi tra le mani di mio padre, raggi di un sole sfilacciato.
Mi scrivevano sopra trame d'incanto e arabeschi di fiabe che sapevano di latte e menta nelle sere d'estate. Mai più sarebbero tornare a pigiarmi parole sulla pelle.
- Sei la mia macchina da scrivere, bambina- mi sorrideva controluce.
Ogni tanto, durante la notte, mi raggomitolavo forte sulle ginocchia e sfioravo piano i contorni delle mie gambe, riscrivevo le cicatrici delle lettere che mi aveva lasciato marchiate a fuoco.
I miei segni particolari di riconoscimento: le parole.
Non ci sarebbe mai stato niente o nessuno al mondo a cui sarei stata capace di dedicare tutto il mio amore, un cielo immenso di luci pirotecniche.
Mi portavo dentro tutta l'umanità.
Questo aveva fatto di me mio padre: ero diventata la depositaria di ogni realtà umana, della diversificazione del sentimento, della moltitudine dei chiaroscuri e dei bianconeri.
Perchè il mondo fuori non ha colori.
E lui mi aveva colorata del suo stupore.
E io l'avevo tenuto dentro fino a quel momento, in segreto.
Fino a quella sera, quando lei mi invitò assieme ai suoi amici a vedere uno di quei programmi che davano in prima serata da più di dieci anni ormai.
Concorrenti chiusi dentro una casa, cavie da laboratorio con gli elettroencefalogrammi impiccati alle pareti programmati per registrare ogni variazione della personalità, per fotografare ecografie tutte uguali delle loro battute oscene, dei loro atti scandalosi, delle loro uscite volgari da bar.
Automi capace di ridere, piangere e rialzarsi a tempo debito.
Non ricordo con esattezza cosa dissi.
Ricordo soltanto il commento della mia amica accanto a me.
Mi prese alla gola il ricordo di mia madre, così bianca su quel campo bruciato.
- Però io penso che lei sia davvero una brava ragazza, non credo che facciano bene a darle della troia.
Ricordo i mugugnii d'assenso dei suoi amici attorno a noi.
Le mani di mio padre tra i miei capelli.
Il vetro degli occhi di mia madre.
Le mie mani sulla carta.
Il mio sangue sottoterra.
- Ma che cazzo dite, è una troia e basta, ragazzi, datevi una svegliata. Non lo vedete che è una coatta che passa il tempo ad aprire le gambe e a farselo mettere in culo, santiddio.
Sbuffai anni di insoddisfazioni in un sospiro di rabbia rancida e sfiduciata.
Non mi ero resa conto davvero di quello che sarebbe successo di lì a poco.

Passarono tre giorni.
Ero scappata nella nostra casa di campagna.
Nel mio castello di carta.
Non volevo nessun altro posto per morire.
Entrarono dalla porta del retro, la sfondarono con i loro stivali di piombo.
Mi afferrarono per le spalle.
Non feci un fiato.
Non mi ricoprirono di carta, non mi gettarono in un fuoco di parole.
Una scarica di pallottole mi fece vibrare le gambe di piccoli rapidi sussulti.
Le ultime parole che avevano letto i miei occhi erano state quelle del mio vecchio amico, Holden.

"Non raccontate mai niente a nessuno, Finisce che sentite la mancanza di tutti".