è una questione personale, per lo più.
un'allergia degli ultimi tempi.
allo strumento della faccia-slogan.
nonchè alla vita-slogan, a dire la verità.
io lo capisco che spesso le storie siano alla fin fine un grumo di ricordi e sensazioni personali, di esperienze di vita, di background familiare, di proiezioni oniriche, di desideri repressi, il tutto infilato tra un personaggio e l'altro. perciò il narratore proprio eclissato, estraneo al contesto, non lo si potrebbe mai dire.
chiaro che il buon narratore ha il quasi totale controllo sulla materia (anche se non è detto che ce l'abbia sui possibili sviluppi successivi di storie collaterali, o in caso di finale aperto, per esempio) ed è dal suo incrociarsi di sinapsi aggiunto ad una lucida osservazione del mondo circostante che ha luogo l'intuizione, con a seguito la sua elaborazione in idea e solo dopo in sistema strutturato e ben oliato.
è anche comprensibile che nei personaggi, in alcuni più di altri, ci si butti a capofitto e si finisca per plasmare la materia in individui la cui esistenza virtuale ha motivo di esistere solo in relazione all'esistenza stessa del loro creatore. magari avranno nomi diversi, ma è il dna che conta.
un dna che è sempre lo stesso in duplice, triplice, quadruplice copia.
tutto per dire che si dà troppa importanza alla faccia.
si è troppo concentrati su se stessi per ascoltare/guardare il resto mentre accade.
per farselo entrare negli occhi e lasciare che buchi le pupille.
e il resto sarebbe un ingrediente irrinunciabile della ricetta.
voglio dire, va bene parlare di sè attraverso gli altri, ma anche parlare degli altri attraverso se stessi, attraverso le proprie mani, voglio dire, non sarebbe una cattiva idea.
certo, è più difficile.
puoi andare a raccontare facce indecifrabili, che con te non ci hanno niente a che fare.
ma sono altri. e gli altri fanno il mondo.
se non si raccontano gli altri, se a questi altri non si strappano gli occhi per appiccicarseli al posto dei propri, di tanto in tanto, si finirà a girare in tondo, prigionieri di orizzonti mentali che non riescono mai a superare se stessi.
fare autobiografia più o meno confessata pone troppi limiti in quanto a materia narrativa disponibile.
diamine, per un libro che passi pure, ma poi?
dopo bisogna rinunciare alla faccia, trovarne un'altra, e poi un'altra ancora e poi tre, quattro insieme perchè il racconto è spesso una corale di voci, un sovrapporsi di prospettive, non è mai solo in un paio d'occhi, è sempre una composizione di piani e di volumi che si compenetrano e si contaminano a vicenda nello stesso tempo.
la propria faccia deve rimanere una faccia.
non uno strumento di promozione.
la propria vita deve rimanere una vita.
non deve sempre venirne fuori un romanzo.
e poi, no, se di thomas pynchon ci abbiamo tre foto in croce e quarantamila pagine di romanzi, ci sarà pure un motivo.
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