domenica 14 marzo 2010

Prima che diventi cenere.

"Il mio affetto è sempre stato solo un esercizio di stile, distribuito matematicamente quel tanto bastava a farmi sentire ancora capace di mantenere un contatto con gli altri. Un input vuoto che partiva da me e si riempiva nei cuori degli altri. Ma, una volta inviato, diventava il triste monologo per la cavia di turno, verso la quale mostrare anche la più fredda indifferenza era per me uno sforzo troppo umano".

giovedì 11 marzo 2010

E' tempo di bilanci, ma intanto fatti biondo. [Rileggendo "Imperfetto", A. Zannoni].


Quarant'anni, cazzo, quarant'anni e ti chiedi come c'è riuscita la tua vita a srotolarsi giù a quel modo, tra cicche spente e il rumore del tuo fiato sempre grigio, raschiato via dalla cenere, tossicchiato contro quel cielo livido che non la finisce mai di incazzarsi e ti piove il vuoto nei polmoni, quando vorresti sputtanarteli per conto tuo. Almeno quelli.
Merisi ha quarant'anni e forse è arrivato il tempo dei bilanci, anche per lui.
Che da queste tradizioni di rito, da questi giochi da uomini vecchi anche a vent'anni, è stato sempre fuori.
Bilanci sì, ma non poi troppi. Che solo a pensarci, d'esserci arrivato vivo a quarant'anni, un tipo come lui inizierebbe ad esasperarsi sul perchè non si sia fermato prima, sul fatto che ancora un corpo ce l'abbia addosso e nelle vene gli scorra quel sangue da sbandato al posto delle sue nuvole di fumo, come grumi di sogni gettati nel fango. Ma poco importa, è lì, si accende una sigaretta e si soffia dentro il petrolio nero che gli appanna gli occhi caldi, pieni di insoddisfazione liquida e di voglia di cambiare nome e connotati e lasciar fottere tutto quello che è stato fino a quel momento, un fallimento dietro l'altro, l'errore di chi sa che sta sbagliando e sbaglia con un sorriso storto al lato, quel sorriso che vuol ringhiare "Iniziate a correre. Non mi prenderete mai. Ditemi dove andate voi, che io vado al contrario".
Merisi crede che l'odio sia una terapia efficace contro il dolore.
Ci son stati momenti in cui avrebbe voluto essere un pezzo raro d'acciaio inossidabile.
Restare a respirarsi la tempesta e uscire senza graffi.
Che poi ci pensa meglio e capisce che non c'è gusto a uscirne perfetti da una storia del genere.
Una forma non la vuole e soprattutto non vorrà mai la stessa; che annusarla sotto pelle, l'aria, masticare il suo sapore ossidato di bronzo è l'unica scelta giusta per uno sbandato come lui.
Che imperfetto ci resta, sempre quel tanto per restare a musoverso, senza quella puzza di nuovo addosso, che azzera tutto il tempo passato a scarabocchiare sul futuro.
Che perdere troppo di sensibilità, a volte, ti fa invecchiare prima che le sigarette ti facciano fuori.
E il modo per scalciarsi via da qui, diolai, se lo vorrebbe scegliere lui, almeno quello.
Merisi e il matrimonio in crisi con Marta. Merisi e i sensi di colpa che lo prendono alla gola, quando meno lo vorrebbe. Quando sta fumando, per dirne una, che gli si guasta tutto lo scricchiolio in bocca e le orecchie iniziano a riempirglisi di rimorso, mentre gli occhi gli sgocciolano di disamore e di un desiderio diverso. Quel senso d'appartenere a qualche dove, nell'abbraccio barbaro di Giulia, per dirne un'altra, che semplicemente gli sta accanto, un pensiero rapace, una voglia d'adolescenza feroce, un colore rimpianto così a lungo, da mettergli in subbuglio quella testa matta e solitaria che ha sempre avuto.
Quasi quasi al punto da fargli chiudere con le puttane, che sono una gran valvola di sfogo e s'assorbono il peso d'ogni lacrima, ma non bastano per smettere d'esser soli.
Merisi e un caso da risolvere, perchè è un detective lui, coi controcoglioni, tra l'altro.
Un personaggio nero, scomodo, troppo intuito per poter stare nel giro con tutti i crismi.
Circostanze di un conflitto passato ancora tutte da chiarire con il vecchio comandante Palma, che lo vorrebbe solo far fuori e gli affida un caso senza uscita, in cui faccia da parafulmine a delle indagini di carta, che non vedranno mai saltar fuori un colpevole, una serie telegrafica di testemonianze morte nel bianco rasposo di un fascicolo.
Ventiquattro anni, Amedeo Moretti, omosessuale, figlio di un pezzo grosso della zona. Trovato morto, completamente nudo, ai margini di un bosco, legato al tronco di un albero, trafitto da cinque stilettate inflitte in diverse parti del corpo. Una rabbia incontenibile dentro quel sangue, al di là di ogni vendetta ipotizzabile. L'autopsia di un odio disumano, che sogghigna cattivo giù in fondo alla pancia.
Merisi è un maledetto, lo è già nel nome che si ritrova sulla testa.
Non la può accettare, questa faccenda del parafulmine.
Correre contro il buio, dentro tutte le sue fughe interrotte.
Questa, la scelta giusta. Questo, lo sbaglio necessario.
Non può vedersi le gambe tagliate in questo modo. Li vuole vivi, quei pezzi di carta, vuole dar loro una voce, quella di Amedeo, rubata da occhi troppo pigri per scavarci a fondo in questa storia che un pò gli fa paura, perchè non segue direzioni nè logiche apparenti, un pò gli morde lo stomaco di adrenalina che scorre di magia e di sangue nero.
Ma arriva anche un momento nella vita di un uomo in cui è tempo di mettere da parte i bilanci.
Ed è necessario smarrirsi, liberarsi di quella pioggia a perdere che ti bagna le cicche sulla bocca.
E con coraggio, risollevarti da quella curva perfetta e immobile in cui ti eri lasciato cadere.
Per riprenderti ogni imperfezione indietro, ad ogni costo, disintegrando tutti i confini intorno. Lasciando che il resto sia solo il tuo riflesso immobile di quandi avevi vent'anni e avevi giurato che a quaranta di bilanci non ne avresti fatti.
D'altra parte metti caso che a seguirla, quella strada senza indicazioni, si sta sul treno giusto.

Un abbraccio a 'sto scrittore da strapazzo. Che va, avrei dedotto che è un geniaccio del male.
E che è ossessionato alquanto e non poco dal biondo, che si sappia.

Giulia Mafalda Gì/ Tristan Van Persie.

Fantasie orfane in cerca di storie. (Perchè di bambini è difficile trovarne). [Rileggendo "Fascia protetta", AA.VV.]


Qualche giorno fa mi è capitato di tornare a casa a tarda notte, quasi le quattro del mattino.
Ho sbattuto le palpebre un paio di volte per abituarmi a quel buio immenso che mi rapiva la voce, paralizzava il respiro, scribacchiava bianconeri sui colori fuori, da discoteca anno 3085, fluorescenze installate a forza sulle risate vuote della gente al pub, sui miei sorrisi senza sonoro, sulle mie parole che non escono quasi mai bene e muiono lì, tra i denti e le labbra, finiscono giù nel dimenticatoio delle fantasie anestetizzate e delle storie orfane. Quelle che da bambino ti venivano in mente all'improvviso, ti ricordi, quegli attacchi di genio che morivi dalla voglia di raccontare a qualcuno, non solo al primo che capitava. Voglio dire, anche al primo che capitava, perchè in fin dei conti sei sempre stato il solito e non è che potevi tirarla troppo a lungo questa storia dei segreti segretissimi tra una campanella e l'altra.
Ma c'erano delle volte in cui avevi proprio bisogno del complice giusto per realizzare i tuoi piani.
Quella spalla che fosse il tuo coltello, la carta su cui scrivere, l'attore del tuo copione.
Il mondo doveva saperlo, cazzo, che saresti tu ad avere l'idea giusta per cambiare il mondo, a rivoltare ogni cosa di quest'universo che ti sembrava proprio facesse un rumore storto. Serviva una realtà parallela, ecco, in cui il disordine fosse libero, in cui ci fosse anarchia di pensiero, che facesse male, che fosse crudele e dove non si facesse più la guerra per la democrazia o per il libero pensiero.
Che si facesse la guerra per fare la guerra.
Saresti stato tu il fondatore del nuovo esercito degli ultimi strenui difensori di un romantico cinismo demodè.
Il fatto strano è che quando eri piccolo un'alternativa non la vedevi.
Tutto era giustamente bianco e nero, così come deve essere, così come non c'è altro modo che sia.
Un mondo a fumetti, a carta, inchiostro e china.
I colori sono arrivati dopo e hanno sparato indelebili sbavature fosforescenti per incorniciarti le impronte digitali.
Da bambino inizi a capirlo presto che nessuno di quelli che ti gira intorno, dei tizi con cui ti ritrovi a vivere assieme, sia disposto ad ascoltarli veramente, i tuoi attacchi di genio. Perchè lo sono, questo è innegabile. Ma il fatto più atroce è che dopo qualche tempo, arrivi anche al passaggio successivo. Capire che una comunicazione vera coi tuoi coinquilini di casa e a volte anche di realtà parallela non ci potrà mai stare.
Capire che la gente intorno a te pensa seriamente di capirti e non capisce una sega di quello che dici, che magari è anche una roba originale, è l'ultimo attacco di genio che ti viene.
Poi smetti di essere un bambino e inizi a ingoiare caramelle ripiene delle parole e dei disegni di cui vorresti riempire i vuoti a perdere in cui ti sei cacciato di proposito, perchè le urla fuori sono colorate troppo forte e tu sei sempre stato solo una proiezione b&w a due dimensioni sullo sfondo.
Eri un bambino, la profondità non ti serviva. Eri già tu, la profondità.
Ecco, qualche giorno fa mentre cercavo a tastoni il muro di casa e mi abituavo al chiaroscuro di quella luna così bella da spogliare, ho ripensato a quanto mi piacesse da matti addormentarmi al buio, persa soltanto nel mio abbraccio, a quanto non ne fossi spaventata.
Non ero mai veramente sola.
Pensavo a quanto fossi capace di vederli là, ammucchiati uno sopra l'altro tutti i miei mostri e miei amici immaginari.
E non ero certa che non mi potessero far del male, voglio dire. Non ero certa che non esistessero davvero. Ma giocare a vivere era un dovere, un richiamo che veniva da lontano, era il tuo canto delle sirene e non potevi fare a meno di stare al gioco. Perchè ancora non li avevi visti, i colori.
Non potevi saperlo che di lì a poco tutto quello che eri stato fino a quel momento sarebbe stato murato vivo sotto una superficie spugnata color pesca. Che è il colore leggero con cui i grandi si scrollano via i mostri da sotto il letto.
Poi mi è capitato di parlare con il signor Lorenzo Palloni che all'anagrafe risulta studente di "Beni culturali" e al secolo passerà di sicuro come fumettista perchè ho il vago sentore che gli riesca parecchio meglio come cosa. Classe 1987, Palloni mi dice che ha all'attivo una pubblicazione con la Double shot per una raccolta di storie a fumetti, intitolata "Fascia protetta". Tematica: " Storie sull'infanzia".
Ma non su quel mieloso andante che, dopo averle lette, finisci per idealizzare tuo figlio alla donna angelo degli stilnovisti. Son storie feroci, signori. Di chi ha avuto il coraggio di buttare giù l'intonaco e uscire dal muro.
Dal volo nell'immenso inferno dei bambini perduti ne "L'altalena" di Brunilde Galeotti alla poesia che germoglia nella terra e dalla morte genera vita nuova di Ravazzani ne "I fiori di alice", passando per "Guasto", lavoro a sei mani di Palloni, Farinon e Marzano sulla condizione del disagio familiare nell'infanzia e sulla faccia nera dei bambini, quella che può uccidere e ritrarre la mano, mentre sugli occhi s'asciugano controvento lacrime di cristallo, le sole cicatrici che stanno lì a testimoniare che quei piccoli artefici del male sono bambini venuti su nella violenza, nella disinformazione e tra incomunicabili incomprensioni, mandati a morire in un vulcano di colori.

Se non lo compri, non sei più un bambino.
E adesso trovami un'offesa peggiore di questa.

Giulia Mafalda Gì/ Tristan Van Persie.

domenica 7 marzo 2010

Prima che diventi cenere.


Le sue scarpe da gigante erano due pomodori rossi rossi.
Di quelli che trovo sempre in terrazzo dalla nonna Clara, quando arriva giugno e il sole è alto alto e ti brucia i disegni sintonizzati male sugli occhi.
Perchè se lo guardi troppo fisso, finisce che vedi solo tanto bianco e più nessun disegno.
E il bianco mi fa paura.
Non ci puoi vedere niente dentro e ti devi inventare tutto tu e non è mica così semplice.
Così nonna Clara, quando arriva giugno, mi chiama dal suo wakkitokki magico che lo puoi spostare dappertutto e funziona lo stesso. Il mio wakkitokki, invece, non è magico perchè sta fermo su un mobile nella stanza dei divani e della tivvù e se lo sposti non funziona, perchè ci sono i fili, mi ha detto mamma e lì ci passa l'elettricità. Che non ho capito bene cos'è, perchè non l'ho mai vista ancora e quando ho provato a staccare il filo tutto tondo dal muro, è venuto via anche un pò di bianco intorno alla spina. Ma l'elettricità non l'ho vista lo stesso. Perciò forse non esiste, non lo so.
Nonna Clara il wakkitokki lo mette dentro una tasca del suo grembiule largo largo a quadratini arancioni e bianchi. Ce lo ha sempre addosso, non se lo toglie mai.
Quando le chiedo perchè la mia pelle è solo rosa e lei ha i quadratini cuciti sopra, scoppia a ridere, ma anche un pò a piangere e mi dice che sono una bambina birichina. E se sei birichino non stai mai fermo come il wakkitokki della nonna e vuoi sempre fare i dispetti a tutti. Però non lo capisco perchè piange. Piange sempre, nonna Clara e quando parla si fa tutta piccola nel suo maglione nero cieco, chiude gli occhie e fa sìsì con la testa, che sembra quasi che non ci voglia parlare con noi, anche se siamo là per lei. Dice che è troppo vecchia per invecchiare ancora.
Però ha un sacco di capelli neri in testa. Perciò non è così vecchia come pensa, magari.
E io glielo dico sempre che non deve preoccuparsi, che la sua pelle può tornare rosa come la mia e che mica si diventa vecchi così all'improvviso.
E poi non è mai troppo tardi per smettere di essere vecchi, se non ti va più, dico sempre a nonna. Ma lei questo non lo capisce, perciò dice che non è vero.
Quando arriva a giugno e nonna mi chiama, io mi precipito dentro il portone e salgo in fretta in fretta le scale perchè c'è un odore che non mi piace dentro ai muri.
Torta al formaggio e zuppa di cavolo. Che sono le due cose da mangiare più brutte che mi vengono in mente, ma non le ho mangiate mai. Solo che papà dice sempre alla mamma di non cucinarla, sta roba, che non la mangia nessuno, tranne lei, che è una gallina che mangia il mais.
Conto tutti i gradini ogni volta, per vedere se ogni tanto ne aggiungono o ne tolgono qualcuno. Ma da quando conosco nonna, sono sempre ottantacinque. E sono tanti davvero, tanti anche per me, non solo per nonna che non ha più il tempo di invecchiare. Se uno non ha tempo di invecchiare, figurati quello di fare ottantacinque scalini, mi dico io. E' per questo che nonna non esce quasi mai da casa, perchè poi dovrebbe risalire fin lassù e perderebbe un sacco di tempo.
A giugno, nonna sale venti scalini in più perchè va quasi tutte le mattine in terrazza. A pranzo resta lì, perchè il vento d'estate porta aria sudata, dice. E o suda lei o suda l'aria.
Alle sette e mezza spesso sono già lì e lei mi dice sottovoce di andarmi a sedere sulla sedia bianca di lino.
Io non ci voglio mai andare, perchè è bianca e ho paura che sotto ci sia un buco enorme che mi risucchia in chissà quale mondo. E io nonna non la voglio lasciare sola, ha bisogno di me che sono la sua primavera, mi dice. Quella che non muore mai. Anche se a questo non ci credo, che io non muoio mai, voglio dire. Nonna dice che sono un'eccezione, però io non penso. Sto diventando grande come tutti gli altri bambini, non sono un'eccezione. Glielo dico a nonna, vedi sono vecchia anche io. Prima stavo piccola piccola in una mano, adesso sto in un letto lungo quanto me. Nonna ride quel sorriso sordo che non lo riesci mai a sentire e mi dice che c'è differenza tra crescere e invecchiare, ma io non penso. Però a nonna non glielo dico, che per me è la stessa cosa, che vai sempre avanti, mica torni indietro.
Mentre prepara quella salsa rossa rossa nella sua pentola da strega, vado vicino alla tivvù e spingo il pulsante che fa accendere una lucina blu e spingo spingo spingo finchè non vedo la faccia della signora flecccher, che nonna chiama signora in giallo, perchè il giallo è un tipo di libro e lei è una scrittrice di gialli oltre a fare l'investigatrice. Nonna dice che forse porta un pò male, perchè dove sta lei, qualcuno viene ucciso.
Io le chiedo perchè deve sempre morire qualcuno nel suo film giallo e lei mi risponde che è per il suo lavoro.
Allora ho iniziato a pensare che è sempre lei l'assassina, ma nessuno la scopre mai, perchè è troppo gialla e perchè tutti sono troppo impegnati a girare il film e del tipo che è morto non gli frega niente a nessuno.
Nonna dice che nonglienefreganiente non lo posso dire, perchè è un pò una brutta parola, anche se è fatta da più parole.
Comunque la signora in giallo uccide un tipo in ogni puntata, se no perde il lavoro e non la pagano più e non può regalare i giocattoli alle sue primavere.
Mentre nonna ed io mettiamo la salsa dentro tante bottiglie di vetro, mi chiedo se anche lei non ammazzi qualcuno per comprarmi i giocattoli, ma non credo, perchè la mamma mi ha detto che uccidere è sbagliato, anche se c'è un sacco di gente che lo fa e non gli succede niente lo stesso. Forse ci sono tante signore gialle nel mondo che sono troppo distratte a bersi quella cosa verdolina con le bollicine che fanno prizzz e poi ti fa girare la testa e ad andare a quelle cene in cui le donne sono vestite tutte eleganti e gli uomini sempre uguali. O forse mamma si sbaglia e uccidere non è così sbagliato qualche volta, quando proprio bisogna farlo.
Ma questo lo tengo per me.
Ogni volta che nonna schiaccia il telecomando, c'è un'immagine diversa dentro al vetro. Con lei i documentari non li guardiamo mai, invece a casa mia, quella vera, la tivvù è sempre accesa sui denti di uno squalo o sulla foto di strani animaletti pelosi che vivono molto lontani da qui. Ormai ho capito che negli altri posti del mondo sono accumulati gli animali e gli oggetti più strani e pericolosi, mentre qui è un posto sicuro, dove nessuna zanzara-altroanimale ti può pungere e poi muori. Perciò noi abbiamo la signora in giallo che porta male, ma gli altri non possono mai dormire per colpa delle zanzare-altrianimali.
Nonna dice "A ognuno la sua croce".
Quando ero un pò più piccola e sapevo dire solo poche parole, tipo mamma nonna papà asciugamano letto a castello pane pomodoro, a pranzo saliva ad aiutarci anche il nonno, che la mattina la passava a leggere dei libri gialli gialli, ma non gialli come la signora fleccher. Erano ingialliti dal tempo, mi ripeteva nonno. Io mi guardavo la pelle, con la paura di vedermi gialla da un momento all'altro, ma non succedeva quasi mai. Perciò chiedevo quanto tempo ci volesse per ingiallirsi e lì nonno mi rispondeva che dipendeva da quello che eri. Una foglia, un libro, una persona. E io gli dicevo che ero una persona, ma mi sentivo leggera come una foglia. Cioè, non glielo dicevo, perchè non conoscevo abbastanza parole, ma lo pensavo forte forte per farglielo capire.
I libri gialli di nonno non parlavano di morti e investigatori. Ce ne era uno, il più grande di tutti, che era nero lucidissimo più delle sue scarpe quando nonna gliele puliva con una pezzetta e una cosa più puzzolente della torta al formaggio che si spruzzava. Nonno mi diceva che sulla copertina c'era scritto "Gestapo" e iniziava a raccontarmi di quando c'era la guerra e lui e il suo papà in Umbria erano stati presi in una rappresaglia, che è una cosa che fai quando metti insieme un sacco di persone che non hanno niente a che fare l'una con l'altra e gli dai davvero poco tempo per conoscersi, perchè poi dei tipi con tanti fucili gli dicono di stare zitti, perciò quelli non possono più parlare tra di loro. E dopo un pò non possono proprio più parlare. Nonno sa un sacco di cose che nonna non sa sulla guerra e su quando loro erano piccoli e dovevano scappare da un posto all'altro per evitare le bombe. Dovevano essere molto più veloci i bambini prima per riuscire a sfuggire alle bombe così bene. Non credo che adesso sarei capace di sfuggire a una bomba che piove giù, ci sono così tante cose che mi distraggono qui per terra, come faccio a guardare anche su in cielo.
Però la voce con cui nonno mi raccontava tutte queste storie da lontano era davvero bella.
Una voce tutta sdentata, che sgusciava via e mi soffiava nelle orecchie il vento della Polonia e mi faceva sentire i piedi dentro un paio di stivali pieni di neve.
Quando nonno veniva su a pranzo, si siedeva sulla sedia biancopanna e io sulle sue ginocchia a imbottigliare il checiap, come lo chiamavano i signori vestiti a stelle e strisce che avevano fatto salire nonno sul carroarmato e gli avevano insegnato a guidare, che è una cosa come camminare però dentro un grande pezzo di ferro che a volte può andare per conto suo.
Quando versavamo tutto nelle bottiglie, io cercavo di non sporcarmi mai le mani, perchè mi sembrava che mi si arrampicassero sopra tante formiche e restasserò lì a ballare tra un dito e l'altro, come tanti granelli rossi.
Rosso pomodoro appunto.
Come le sue scarpe da pagliaccio.
Era un'ombra gigantesca sopra di me.
E sorrideva storto e acquoso.
Io stavo in piedi, in un angolo della stanza dei divani e delle tivvù di Giada, che faceva sei anni e sua mamma le aveva preparato una torta col liquore dentro e tutti i bambini avevano vomitato sul pavimento, tranne me e giada, che non vomitavamo mai, neanche prima di andare a scuola, mentre tutti gli altri si lasciavano mangiare dalle formiche nello stomaco, perchè non ce la facevano a tenersi tutti quei colori dentro, perciò dovevano risputarli tutti mischiati.
Come la nonna non aveva la pelle rosa, ma tutta a rombi soffici color arcobaleno.
La sua faccia impiastricciata di bianco sporco e macchiette grigie qua e là e quella bocca rossa, così rossa e lunga lunga fino su alle guance.
Mi ha guardata e mi è sembrato che stesse lì lì per annaffiare l'orto, come mi rimproverava nonna, quando piango piango piango che le lacrime mi si rubano gli occhi e non me li ridanno più. Poi è sceso giù, si è seduto accanto a me e si è messo a frugare piano nella sua borsa di plastica bianca, di quel bianco che ci puoi vedere attraverso. Ha tirato fuori un palloncino sgonfio lillà e poi ha tirato fuori anche la voce, che io non avrei creduto mica ci sarebbe riuscito. Con tutta l'acqua che gli spegneva gli occhi, come faceva ad avere anche una voce che funzionasse come si deve. Infatti non funzionava bene per niente, era tutto uno scricchiolio, un ronzio che veniva su su da dove si vomitano i colori, come quando nonna metteva i puuuh nel giradischi e c'era quel bzzz che rompeva le bollicine d'aria tutt'intorno.
- Come lo vuoi il palloncino?
Era la prima volta che parlavo con un pagliaccio e non sapevo bene cosa si doveva rispondere. Perciò per un pò sono rimasta a guardare i suoi occhi spenti e non ho detto niente. Lo guardavo e pensavo che non dovesse riuscirgli molto bene fare il pagliaccio, perchè da quanto avevo capito dovevi essere davvero molto più simpatico della media della simpatia per essere un bravo pagliaccio.
E i pagliacci tristi non fanno ridere nessuno e sono utili quanto il morto della signora gialla.
Che sa tutta la verità, anche chi lo ha ammazzato, ma non può più dirla. E non è per niente giusta come cosa.
- Va bene un cagnolino? Ti piacciono i cagnolini?
Era anche la prima volta che vedevo un palloncino che si trasformava in un cane, perciò un pò le zampine delle formiche mi stavano solleticando forte. Ma solo un pò.
Così ho fatto sìsì con la testa, ma non ho sorriso.
Ho aspettato di vederlo nascere tra le sue mani grandi, il mio cagnolino lillà: prima la testa con le orecchie a punta a punta, il corpo, le zampe larghe e poi la coda tutta frizzante.
Era perfetto. Quasi vivo.
Mi sono avvicinata al signor pagliaccio e gli ho chiesto
- Hai una penna, signor pagliacciodagliocchidighiaccio?
Lui mi ha guardata, strizzando gli occhi, senza capire, però mi ha dato subito una penna violachiaro quasi come il mio nuovo cagnolino.
Io gli ho detto grazie, signor pagliaccio e poi ho bucato il palloncino con la penna.
Lui non ha detto niente.
Ha solo continuato a guardarmi e a scolarsi le risate chissàdove.
- Prima che si sgonfi da solo, lo devo sgonfiare io. Gli voglio già troppo bene- ho detto.