giovedì 10 marzo 2011

(Senza coloranti aggiunti)

Succedono cose davvero terribili. L'esistenza e la vita spezzano continuamente le persone in tutti i cazzo di modi possibili e immaginabili.
[Brevi interviste con uomini schifosi, DFW]


C'è un romanzo che vorrei leggere.
E' quello senza coloranti aggiunti.
Un romanzo che non sia roba da celiaci.
Che non mi propini farina di farro spacciandomela per glutine.
Che non vada ad epurare, a sterilizzare, a spelucchiare i germi.
I germi servono, i germi ci vivono dentro l'intestino, ci zampettano sulle dita delle mani, ci scivolano giù per la gola ogni volta che buttiamo dentro l'aria.
Fare finta di vivere in una camera iperbarica non aiuta a vivere meglio.
Credere che ci sarà abbastanza ossigeno per tutti fino alla fine del mondo è da sciocchi.
Essere convinti che tamponare, rattoppare, ricucire sul sangue che scorre e non s'asciuga serva a guadagnare tempo, in realtà non fa altro che rallentare il naturale processo di degenerazione delle cose.
Pensare di essere in dovere di bloccare il decorso di questo processo è una follia.
Peraltro incontestabilmente dannosa.
La vita finisce con la morte.
E la morte è vita che finisce, è ossigeno che si esaurisce, è pelle che si raffredda, è una voce che avresti bisogno di sentire e non puoi più.
Vorrei un romanzo che mi raccontasse di qualcuno che muore senza la doverosa urgenza di compensare il tutto raccontandomi di qualcuno che nasce.
Vorrei che non mi si parlasse di equilibri, di giustizia divina e terrena, di provvidenziali piani.
Perché io mi guardo intorno e non vedo traccia di meccanismi di compensazione.
Di bilance che soppesino la vita e la morte, il giusto e l'ingiusto, il bene e il male.
Io vedo tre Erinni cieche che tagliano i fili alla rinfusa.
Questo vedo, questo esiste.
Non posso e non devo inventare altro.
Non posso e non devo convincermi che ci possano essere vie di fuga.
Che almeno nella letteratura ci siano gambe per correre liberi.
Non voglio che qualcuno mi venga a raccontare il buio, senza finire nel precipizio.
Pretendo che mi si racconti il dirupo col coraggio di spingerci dentro i propri personaggi.
Che almeno le parole ci siano di aiuto, di supporto, di salvezza.
Queste sono convinzioni che mi mettono tanta stanchezza sulle spalle.
Le parole non aiutano.
Le parole non sono migliori dei fatti.
Sono buchi nella terra, squarci nella carne, facce divorate dall'angoscia.
Sono il terrore folle e la rabbia incontrollata.
Le parole mi devono raccontare i fatti senza spiegarmeli.
Non sono psicofarmaci o sedativi.
Non devono darmi giustificazioni, alibi, coscienze immacolate.
Catarsi.
No, non devono purificarmi coi loro giochini sulla morale comune.
Colpa, pentimento, perdono.
Queste sovrastrutture vanno abbattute a colpi d'ascia.
Si possono fare e ricevere cose terribili.
Ci si può pentire o no.
Si può sopravvivere o meno.
Devono dirmi che non c'è un senso nell'accadere delle cose.
Che le cose accadono in un modo e non potrebbe essere altrimenti.
Che uno stupro è uno stupro e non una carezza.
E se qualcuno si prende la briga di raccontarmelo, me lo deve trattare per quello che è.
Mi deve descrivere il piacere della profanazione, del possesso, della potenza.
Deve spogliarsi di tutte le convenzioni sul benpensare.
Deve ricordarsi di essere una bestia e come bestia comportarsi, come bestia scrivere.
Deve pensare che esseri umani non vuol dire vivere in una logica astratta da usare come scudo contro l'esplodere del primitivo, del non civilizzato, dell'ignoto e incontrollabile divenire degli eventi.
Deve ricordare che esiste la carne, e la carne non sa le parole.
La carne deve macchiarsi di fango, di sangue, di merda.
La carne non è una chiacchiera da aperitivo.
Non è così che funziona.
Non è con la raccolta differenziata che eviteremo gli inceneritori.
Non è che firmando petizioni per Greenpeace riusciremo a fermare i massacri delle foche.
Non è che attaccandoci post-it sulla faccia, riusciremo a comunicare una protesta.
Non è coi coloranti aggiunti che vi costruirete delle buone alternative.
Semplicemente perché le alternative non ci sono.
Esistono dimensioni in cui si può guadagnare una certa, seppur precaria stabilità, dimensioni in cui ognuno agisce secondo regole proprie, rispondendo solo a se stesso, a una personale accezione di libertà e di disciplina. E voi siete tagliati fuori, gli uni dagli altri.
Non mi venite a parlare di speranza.
Di rompere il meccanismo, un meccanismo che non siete voi a controllare.
Di infilarvi tra gli ingranaggi di un destino, o chissà cosa, per sabotare il sistema, per ingannarlo, perfino.
Non funzionerà mai.
E tutto apparirà come un'allucinazione sbiadita.
Con una schiera di sorrisi di fondo e applausi in platea.
Perché avete risolto il puzzle.
Il puzzle che voi stessi avete creato e ricostruito pezzo dopo pezzo.
Ma i pezzi non sono fatti per rimettersi insieme.
Per scontrarsi lungo le loro traiettorie, sì.
Per quello sono fatti e per nient'altro.

Ecco, vorrei leggere un romanzo così.
Che mi intossichi per bene.
E che non mi costringa a rivomitare tutto con una tisana alle valeriana.
A me, gli infusi, sono sempre andati di traverso.