domenica 21 febbraio 2010

.Quando il chiacchiericcio delle zanzare nella pancia c'era ancora.


C'era una volta quando ancora c'era l'estate.
E d'estate non c'era mai il silenzio.
Il ronzio del chiacchiericcio delle zanzare mi mangiava la pancia, faceva il solletico al buco caldo tutt'intorno a me. Respiravo a morsi d'aria piccoli piccoli, però non volevo mai smettere di correre d'estate.
E quando c'è il sole, su in alto e hai sei anni o giù di lì non puoi che fermarti a masticare l'aria che ti si scioglie addosso in goccioline bollenti, come l'olio quando la nonna Clara lo fa friggere nella padella e fa pzz pzz e cikk cikk mentre il fuochino tutto viola sotto si gonfia sempre di più.
Oggi al parco cadono sorrisi.
Le nuvole sono aquiloni monotono che dispiegano le loro ali d'angelo.
Solo che non le riconosci subito, che sono ali d'angelo e non gli stracci di stoffa che usa la nonna Clara per asciugare i piatti, sul tavolo alto e scuroscuro della cucina.
Hanno tutti quei rami sfilacciati che crollano giù come in una pioggia di coriandoli e tu cerchi di capire se stiano solo cercando di rapirti o vogliano scendere giù un pò, qui dove ci sono i miei piedi, i tuoi piedi e anche quelli di nonna Clara e giocare a nascondino lì tra i limoni grandi che crescono in obliquo sulla montagna piccola- una collina, dice la nonna Clara. Forse neanche.
Forse è perchè io sono così piccola che la collina mi sembra una montagna.
Anche se nonna Clara non mi ha saputo spiegare bene che differenza c'è.
Mi ha solo detto che quando diventerò più grande tutto mi sembrerà lo stesso una montagna e non ci saranno più colline. E questa è una cosa che mi ha fatto stare in pensiero per le colline. Ho pensato che non fosse molto giusto che le colline scomparissero quando diventi grande.
Perchè scalare una collina non è come arrampicarsi su una montagna.
Ma sono due cose diverse e forse anche per me sarà diverso.
Almeno una collina, anche solo una, la voglio quando sarò grande.
Sulle montagne posso piantare i limoni? chiedo a nonna clara.
Ma lei mi dice che c'è troppa neve sulle montagne perchè ci cresca qualcosa.
E io allora- io che non l'ho vista mai, la neve- apro il mio zainetto tutto viola con i fiori un pò celesti ma anche un pò grigi e tiro fuori dei fogli biancolatte per disegnarci su la neve.
Perciò chiedo a nonna clara com'è la neve, lei che l'ha vista.
E lei non mi risponde.
Perciò io glielo richiedo più forte, perchè magari non mi ha sentito.
La tivvù è così alta e nonna clara sembra così piccola, sprofondata in quella poltrona verde verde dove fino a un anno fa ci si addormentava il nonno.
Ma lei si gira e basta. Verso di me, che stringo la matita in mano e la tengo tutta sghemba. Così mi ha detto la maestra, la devi tenere così la matita. E quando io le faccio vedere che la tengo come dice lei, mi accarezza i capelli e mi dice brava.
Ma quando lei si gira io rimetto la mano come prima.
Perchè ci scrivo meglio, così, tutta stesa a sinistra o a destra. Mai dritta.
Devo uscire sempre un pò fuori dal banco.
Perciò nonna Clara si gira e io vedo che c'è una lacrima blu sulla sua guancia trasparente. E che quei fili grigioverde che abbiamo sotto la pelle se la stanno mangiando. E allora capisco che la neve è come una lacrima e non la puoi dire nè disegnare. Sta lì a scorrere giù dal cielo, un mantello di bufera, e poi s'attacca giù ai miei piedi e mi ghiaccia la lingua e mi bagna i capelli.
E soprattutto capisco che poi si scioglie.
Che poi si scioglie e non è più estate per me.
Per tutti gli altri sì, perchè c'è il sole, quello vero.
Ma per me non è più la stessa cosa.
La collina del parco mi sembra già un pò più alta.
E mi si impiastriccia tutta la faccia di neve.

Tristan V. P./ Giulia "Mafalda" G.

venerdì 19 febbraio 2010

Perchè io ho la sensibilità del calcestruzzo e questa non è una recensione. [Rileggendo "Biondo 901"].




E' mercoledì diciassette febbraio duemilaedieci e a mezzogiorno mi suonano alla porta.
Io starei anche in pigiama, in una mano un manuale di seicento pagine sulle vie extra-occidentali di liberazione dal dolore, nell'altra una tazza più alta di me piena di thè aromatizzato alla sambuca. O meglio di sambuca aromatizzata al thè. Ma questa è un'altra storia.
Mi avvio al portone, mentre le mie pantafole arancioni a fiori mi precedono per accogliere un postino disorientato che affonda sotto il peso di una gigantesca scatola di cartone firmata ibs.
Credo che la foga con cui mi sia avventata sul pacco lo abbia leggermente spaventato, ma sono dettagli sorvolabili del nostro racconto. Ad ogni modo, torno dentro la mia stanza e, a suon di forbici, con non troppa facilità, riesco ad aprire la scatola e a tirar fuori tra i vari acquisti la mia copia di "Biondo 901" di Alessandro Zannoni.
Quando inizio a sfogliarlo, mi viene in mente quel pezzo del vecchio Salinger in cui Holden dice "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare tutte le volte che ti gira. Non succede spesso, però". Ecco, il fatto strano ora è che Zannoni è stato un pò la variabile di questi ultimi giorni. Inizio a pensare che se il suo romanzo mi spacca ben benino, ipse dixit, posso scriverci un pò su e farglielo sapere, insomma. Comunicargli che non ha proprio del tutto sbagliato strada, che il suo messaggio è arrivato chiaro e tondo, domandargli quale fosse il messaggio, chiedergli se avesse un messaggio da lanciare con ricevuta di ritorno. Cose del tipo, insomma. E penso che tutto questo sia bello, in qualche modo, che crei quella rete di contatti necessaria per farti capire se il tuo figlio di carta s'è fatto grande abbastanza da esser libero di andare in giro anche senza di te.
Per questo seguo il consiglio di Zannoni, mi metto comoda e schiaccio il tasto play.
La prima cosa che capisco è che quest'uomo avrebbe dovuto far cinema.
Ero seduta sul mio divano a fissare le parole che si rincorrevano nel bianco e adesso sono sospesa nel vuoto e guardo giù. Due uomini che ne inseguono un altro, nel cono di luce di due fari che violentano la notte. Giordano corre a perdifiato, costeggia la spiaggia, non ha la forza di guardarsi indietro. Non può perdere tempo. A parlare a te, a te che stai leggendo, è la sua voce roca che gli riempie il vuoto d'aria nei polmoni. Sbocca conati acidi di terrore, scrive Zannoni.
Okei, ora metti in pausa e riavvolgi il nastro, che la cassetta si rovina.
Clicca su rewind e ballaci dentro per un pò.
Giordano impari a conoscerlo, è un parrucchiere, vede la vita a colori numerati, la realtà la ripartisce tra i suoi tubetti di tinta ordinati in scala cromatica. E' un tipo inquadrato, ma non troppo. Gli piacciono le donne, ma non è un amante dei legami. Vive secondo uno schema di regole ben preciso e cerca di non sgarrare mai, perchè sa che una volta rotti gli argini, è difficile smettere di annegare.
Giordano tutto questo lo sa, ma l'hai lasciato lì ad annaspare sul ciglio del marciapiede, che il destino gli girava abbastanza contro. Perciò qualcosa deve essere andato storto.
E' matematico che la matematica non sia infallibile.
L'errore dell'equazione, che è la vita di Giordano, si riflette nello specchio del suo negozio. Un caschetto biondo, due occhi che sono pezzi d'oceano e una storia di principesse kazake e di terre in miseria.
Giordano sa bene che da lì in poi sarà tutto un precipitare a testa in giù. Ma sbaglia per necessità, perchè sente di poterselo permettere, dopo una vita passata a lavorare per avere un pò di tempo soltanto per sè. E Letvania, beh, gli pare un gran bel modo di sbagliare. Preciso, direbbe Zannoni.
Il suo amico Fabio B. l'aveva avvertito. Mai innamorarsi di una puttana, diolai. Che poi, a dircela onesta, Giordano non ne era certo che Letvania fosse proprio una puttana. Poteva esserlo, non era da escludere, ma non c'era comunque da porsi il problema. Non sapeva più di tanto della sua vita, la sentiva complice della sua libertà provvisoria e questo era tutto quello di cui aveva bisogno al momento.
Un giorno Letvania scompare e Giordano capisce di aver perso un bel pezzo di sè.
Da qui parte l'incubo tutto in corsa verso quella spiaggia.
Col sangue che pulsa feroce dappertutto, Zannoni smonta le scene di questo valzer d'amore noir, perchè di base deve essere un romantico coi controcazzi. Uno che per una donna farebbe di tutto e per la letteratura il minimo indispensabile, ipse dixit. Perciò un pò d'amore, anche se scuro, rubato, nascosto, doveva parlarne per forza. Per dare un colore diverso a questo primo piano che è la faccia di Giordano, sul selciato del marciapiede, in attesa dell'ineluttabile. Quel colore che non stava in nessun tubetto di tintura, se non nel biondo 901 di Letvania.
Romanzo corale a quattro voci, pochi tratti essenziali e necessari, centoventi pagine di inchiostro cinico in cui Zannoni scioglie le immagini della sua terra, come un odore lontano sullo sfondo. Tra i diolai di quel buon diavolo di Fabio B., i ricordi rigati e gli occhi spezzati di Letvania e l'amarezza d'odio triste di Doppiopetto, Giordano corre spaventato, incapace di tornare al nido sicuro e senza scosse che era la sua vita prima. Senza neanche troppa voglia di farci ritorno, in fin dei conti.
Sotto il peso della sua disperazione, sente che annegarci in quell'errore è la sua unica alternativa.
E tutto perchè a non dargli ascolto a quel pazzo di fabio b. ci si perderà sempre e comunque.

A questo punto, posso dirlo. Che Zannoni sa scrivere, che non ha sbagliato strada. E che, ora come ora, avrei propria voglia di alzare la cornetta e dirgli che diolai, se ha un bel talento.
E anche che scrive come mangia, che è una gran cosa.
Qualcosa che ti fa distinguere in tutto quel farsi di retorica e melodramma, che ti fa venir voglia di lasciarle lì da sole, quelle povere parole, messe così talmente a incastro che a tirarne fuori una, cade giù il castello.
Ma questo non vorrebbe sentirselo dire, perchè non se la vede bene addosso la parola "scrittore".
E forse è proprio questa la variabile buona. La sua, perlomeno.

Tristan V.P./ Giulia G.

martedì 16 febbraio 2010


Le unghie di Gioia graffiano la parete della mia stanza in controluce. Sono capocchie di spillo, piccole teste di insetti filiformi, affilati da un coltello maldestro. Picchiettano feroci le loro zampe senza tregua negli spazi d'aria lasciati vuoti dai suoi respiri.
Le sue mani malate di bianco accarezzano il mio collo nervoso, sciolgono i nodi, liberano i buchi di memoria delle mie sequenze intermittenti.
Mi rimescolo con Gioia, questa sera.
La mia camera diventa gli occhi da cui osserva il mondo, murata in un carcere di storie che non vuole riportare alla memoria. Storie di sangue, di una madre distratta, di un padre insoddisfatto, di un fratello che è metà d'anima.
Dimentico la mia identità e la seguo, mentre lei si volta, leggera nel suo sorriso tutto di seta, il sapore color panna di una fine interrotta la colora in negativo.
Posso ascoltare lo scricchiolio della sedia a rotelle contro il legno marcio, quella sedia che un tempo erano le sue gambe. Spezzata, Gioia. Si è spezzata, una persona a metà, cammina in due direzioni diverse e non sa più ricordare come vivere a tempo. Gioia è fuori da ogni spazio. Gioia è fuori da ogni definizione. Si è rifugiata in quell'utero di madre dove poter consumare la sua invisibilità, le sue mancanze, le sue assenze, il suo essere diversa da. Gioia è una creatura del limine, non cammina mai al centro delle cose.
Mi parla da lontano.
Coniugata dagli altri come una fragilità virile, lei si declina in una furia al femminile.
Accorda il suo soggetto, come una pluralità di ricordi, aggrappati alla vita di qualcun altro.
Ed entra inl circolo l'inchiostro nelle sue vene. Si gonfiano di blu alcolico e di riflessi giallo limone, mentre le parole crollano tra i campi minati di una Napoli rosicchiata dal sole e di storie milanesi di periferia.
Corre sui bordi, Gioia. Sorride d'amore, non ne può fare a meno.
Innamorata, ecco.
Se dovessi scegliere un solo aggettivo per ricreare i suoi contorni, è questo che sceglierei.
Vorrei chiederle come è riuscita a attraversare questi anniluce, senza trascriversi addosso il silenzio di piombo, là fuori. Vorrei poter toccare la sua pelle, leggervi codici nascosti di conversazioni mai avvenute, far girare ancora una volta quel brivido roco che annacqua i suoi polmoni d'acquarelli grigioneri.
Vorrei poterle domandare come sia sopravvissuta.
Annusare l'odore di nicotina tra i suoi capelli e lasciare che siano loro a raccontarmi il vento rapace che l'ha portata via dai giochi antichi. Che le ha strappato il senso di essere e donare gioia incodizionatamente.
Vorrei poterla risvegliare dai suoi battiti spenti di coscienza, essere quel paio di labbra per ridarle colore, ridisegnarla di rosso tra i suoi frammenti anestetizzati, farmi carta su cui sputarsi via, essere per lei terapeutica parola.
Gioia è androginia di donna che danza nel corpo di una sirena martoriata.
Passo dopo passo, ai margini di ogni genere.
E' una notte selvatica, è serpente che cambia la pelle, è luna al primo quarto, quando tutto ancora può accadere, è pioggia metereotica che sotterra l'odio che traspira dalla terra.
Gioia è la metaformosi di chi non ha un posto proprio in cui stare e forse non ce l'ha mai avuto.
Niente più a questo mondo mi appartiene, mi sussurra.
Canticchia, Gioia, spostandosi leggera avanti e indietro, in una meccanica allucinazione.
Una canzone d'amore in disuso, per tempi migliori.
Gioia è amore.
Gioia ama e non ha più paura di farlo.
E nient'altro ha importanza ora.

E tutto questo è Pozzoromolo.
Transessualità dell'anima.
La moltitudine che ci vive dentro prende voce e rompe ogni schema identitario.
E ci fa rispolverare un pò di quel deserto che s'affanna a farci prigionieri.
Gioia ci insegna a curarci dal sangue e dalla morte.
Perchè il suo nome è luce e non può che riflettere altro che una dissolvenza al buio.
Che vive, vive, vive e torna a farci scorrere.

Tristan V. P./ Giulia G.