c'è un vecchio racconto di buzzati che, non mi chiedete il titolo, non me lo saprei mai ricordare.
la prima volta che mi capitò tra le mani avrò avuto sette o otto anni.
lo trovai sfogliando una di quelle antologie di storie educative sul natale, quelle piene di scatoline con la neve sintetica che si rovesciano, di ghirlande d'oro smaltato attaccate alle porte, di tartine al salmone la sera di vigilia e di salotti allegri, con le risate dei grandi sempre accese e le gambe dei bambini che scorrazzano tra una stanza e l'altra, spazientite dalla curiosità. proprio quelle storie lì, coi mucchi di neve artificiale spalata fuori dal vialetto, le finestre appannate dal fumo delle cioccolate calde, le chiacchiere abbrustolite davanti al camino, gli alberi di natale che sfrigolano di colori e le stelle comete che, può accadere l'irreparabile, finiscono sempre per bucarti la finestra e precipitarti nel letto.
fortuna che qualcuno quella volta non riuscì a capire che non bastano un bue e un asino per intingere il pandoro nei buoni sentimenti e in sorrisi incoccardati che, a toccarli, esplodono come quei portaceneri di plastica comprati dai cinesi alle nove di sera in pieno inverno.
che tanto quelli stanno sempre aperti. pure a natale, se ti serve.
in questa storia c'erano un bue e un asino, sì.
proprio quelli della grotta, per giunta.
ma non pensate che gesù cristo ci debba per forza entrare qualcosa in tutto questo.
il bue e l'asino sono quattro occhi che osservano.
potrebbero essere i vostri come i miei.
sono sospesi proprio là, sopra alle nuvole e si rovesciano verso il basso.
verso un mondo che si srotola senza fiato come una bobina impazzita.
osservano e vengono trafitti da un dolore vero, vero finalmente.
qualcosa che non abbia la consistenza della neve inscatolata programmata per durare fino al sei gennaio per poi tornare acqua di fogna e agenti chimici.
sono addolorati dal rumore. tutto quel rumore che copre i pensieri, annebbia le menti, irrigidisce le idee, confonde i desideri elementari, registra sopra ai bisogni primari e ci riscrive su le offerte regalo più convenienti dell'anno, con tanto di buoni sconto da rispendere al natale successivo, perché sarai sempre qui, non credere, tornerai, anche se ti sei ripromesso che sarà l'ultimo anno questo, tornerai e avrai bisogno di nuovi regali usa-getta da tenerti sotto l'albero per gli ospiti inattesi a cui consegnerai con quella fierezza bavosa il tuo dono del tutto spersonalizzato.
sono addolorati dalla velocità. mani che stringono mani senza entrarsi negli occhi, piedi che pestano piedi perché perdono la sensibilità ogni cinque metri, inscatolati nel traffico da acquisto compulsivo, pacchetti che si impigliano in pacchetti, occhi cuciti all'interno ipnotizzati dal neon in loop delle vetrine piene di chincaglierie da cassonetto, commesse a congelarsi il culo fuori con vestiti da babbonatale inguinali per distribuire volantini.
e in tutto questo gesù cristo non c'entra niente, a me pareva.
quando mi spiegarono il significato di questa storia- perché non fanno altro che cercare il senso delle storie- mi dissero che era tutta una tirata contro il consumismo natalizio, contro la perdita dei valori religiosi, una denuncia in grande stile di una società che ha dimenticato cristo, ha rinunciato alla fede, ha imparato a non averne più rispetto, a ingozzarsi di zuccheri e comprare e accumulare e accatastare e smistare come in una catena di montaggio del bene materiale, non più memore del sacrificio della sua vita ( del cristo, si capisce) compiuto per il conclave dell'umanità tutta.
ora, al di là delle tirate bigotte da preti laici che ci pizzicano le dita quando infiliamo la manina nella calza della befana, a me non pareva fosse questo il punto.
c'erano un asino e un bue e non erano disperati per gesù cristo.
non credo che sia nominato neanche una volta nel corso del racconto.
l'asino e il bue sono disperati, sì, ma l'oggetto della loro disperazione sono gli uomini stessi.
e non perché abbiano perso la fede o abbiano dimenticato di avere un dio.
ma perché sono ineluttabilmente soli.
è quella giostra di solitudini camuffate da cene di natale che fa intristire l'asino e il bue.
possibile che nessuno lo vedesse?
che la religione non c'entrava, che non era di cristo che si sentiva la mancanza in quelle pagine, ma del contatto umano, di un calore profondo, che mandasse via l'amaro, che raccogliesse i pezzi persi per strada e li riattopasse alla buona in un abbraccio stretto, che fosse condivisione di intenti e di bisogni?
leggendo buzzati anni dopo avrei capito meglio.
cosa significasse natale.
dove fosse il vero problema.
non cristo, non il consumismo, non il buonismo da beneficenza.
non solo, almeno.
mi si aprirono gli occhi su uomini che erano isole in attesa di scontrarsi, seppure per caso, seppure brutalmente, con altre. vidi poli contrapposti anniluce, percepii distanze siderali tra gli esseri umani e sentii quanto vertiginosa fosse la voragine che cresceva nella pancia di quel vecchio bue e di quell'asino.
mi venne in mente la faccia di un vecchio.
il sorriso ingiallito, la bocca vuota, pochi denti ancorati alle gengive cariate dal tempo per dire che non è stato sempre così. che in passato c'è stato anche qualcos'altro, a parte questo.
la faccia di un vecchio che si incontra nello specchio, la mattina di natale.
e capisce che in realtà non non è mai stato diverso.
che non c'è mai stato qualcos'altro.
e che lui, lui non dovrebbe essere lì.
che non è più un natale per vecchi, questo qui.
C'è poca aria di stelle, si chiama.
RispondiEliminacredo.