domenica 27 febbraio 2011

Miasma.

Quando mi hanno trovata stamattina, stavo ancora tutta rannicchiata sotto le macerie tue.
Mi ci sono fatta una coperta con i tuoi cocci, una coperta di spigoli e di angoli, che mi grattavano contro la pancia e mi facevano le spine nei fianchi.
Con le ginocchia in gola e la testa reclinata in basso, in mezzo alle gambe, ero un cerchio perfetto, di quelli senza curve in dentro tutti bozzosi e indecisi, ti ricordi, quelli che da piccola mi prendevi la mano e mi ci facevi riempire i fogli da disegno fin quando non c'erano più sbavature, schizzi maldestri, linee spezzate.
Scorrevamo così parallele, madre mia, che alla fine ci siamo sovrapposte.
Stamattina sono al centro di tutte le nostre spirali, di tutti i nostri cerchi da compasso, di tutte le nostre squadrature che meno quadrate di come lo siamo state noi non potevano essere.
Quando mi hanno trovata stamattina, c'era un'alba intirizzita che non voleva uscire e restava a riscaldarsi ancora un po' dietro i cipressi. Gli occhi mi si aprivano e mi si chiudevano come due fessure murate vive nella vernice fresca. Da ogni ciglia mi pendevi tu, in tante piccole briciole di marmo bianco e mi facevi la vista tutta a macchie, mi graffiavi l'iride e tiravi via il colore, mi conficcavi gli spilli nei buchi neri delle mie pupille senza fondo.
Com'erano fondi i tuoi occhi l'ultima volta che li ho visti.
Due biglie girate all'indietro, solo bianco, solo luce.
Mi è venuto da sorridere a vederti nella tomba così calma.
Mentre ti mettevo addosso il tuo vestito di lana, quello celeste che s'arricciava intorno alle caviglie, t' ho visto nuda e ho iniziato a scorrerti una mano contro il petto, quel petto che non c'era più, te l'avevano tagliato via tutto per toglierti il male da dentro.
Carne liscia, piatta, senza sbavature.
Pensavano di salvarti, credevano che il male fosse solo là e non ti avesse già preso la testa.
Ma il male ce l'hai sempre avuto annidato nel respiro, madre mia.
Te lo sei sempre voluto addosso come una maledizione.
Solo per avere qualcosa da combattere, che altrimenti non avresti avuto niente.
Quindici anni trascorsi a tenerti lontana, pure da morta, coi tuoi occhi bianchi senza più paura che mi si aggrappavano alle spalle e mi facevano inzuppare il lenzuolo di sudore ogni notte. Quegli occhi bianchi che diventavano una bocca larga, sempre più larga che rideva oscena, presa da spasmi incontrollati, come un paio di gambe aperte e mi sussurrava:
adesso tocca a te.
adesso tocca a te.
adesso tocca a te.
E adesso mi dicono che muoio, madre mia.
Mi dicono, signorina, pensi a mettere in ordine le sue cose.
Di nuovo senza sbavature, senza schizzi maldestri, senza linee spezzate.
In ordine.
Mi dicono che tra sei mesi muoio del male che t'ha levato il petto e t'ha chiuso gli occhi.
Dicono parole grosse, sui geni che s'ereditano e sul sangue di famiglia, contro cui non si può niente. Dicono che i fattori di rischio erano alti, altissimi. La probabilità che non m'ammalassi anche io, che non ci morissi pure io, erano minime.
E adesso io mi devo prendere addosso tutte le tue colpe, tutte le paure che ti hanno sempre fatto la carne fragile e gli occhi pieni di vuoto e devo morire come sei morta tu, senza il diritto a una morte che sia soltanto mia.
Mi hai contaminata, madre mia.
Mi hai dato il tuo cancro, perché lo sapevi che era l'unica cosa che di te mi potevi lasciare.
Ma adesso io t'ammazzo.
T'ammazzo già da morta.
E profano questa tua bella tomba bianca per farti tornare gli incubi d'essere ancora viva.
E io muoio prima di te, sì, ti rubo la morte e me la cucio addosso.
Come una coperta di angoli e di spigoli.
Poi m'addormento e non mi risveglio più.

sabato 26 febbraio 2011

Blu di prussia.

Mentre li sento annegare, so che non posso fare niente per evitarlo.
So che una fine mi sta accadendo dentro, un'altra, l'ennesima.
E non sarà diversa da quelle che ho già ingoiato.
Anche questa storia la inghiottirò per abitudine.
Mi sento millenni sulle spalle e da troppi anni non mangio più per fame.
Non sono mai stato così vicino alla terra prima d'ora.
Questo agosto che si chiude e pare già settembre mi precipita addosso un odore di morte che tutto il mio sale, il sale che mi gorgoglia nella pancia, fa sanguinare e poi cicatrizza.
Provo a distendere le braccia, le gambe, tutto il mio corpo steso in una parete orizzontale.
Scosso da scariche di formicolii come cattivi presagi, resto calmo.
Piatto.
Oggi neanche una tempesta di vento riuscirebbe a spettinarmi.
A spingermi in una direzione diversa, a cambiarmi forma, a farmi secco, innocuo.
A farmi evitare l'inevitabile.
Oggi assecondo il corso degli eventi.
Oggi guardo la morte in faccia e decido che va bene così.
Decido che anche questo vuol dire essere umani.
E che mai come oggi io sono un uomo.


Clara non aveva mai avuto paura dell'acqua.
La prima volta che Giorgio la vide ero dappertutto sopra di lei.
Sgocciolavo appeso ai suoi capezzoli turgidi, scivolavo lungo i suoi fianchi succosi, mi intrufolavo tra le sue cosce sode, mi arrampicavo tra le trame sottili dei suoi capelli neri.
Neri come lo sono anche io adesso.
Neri come può esserlo il sangue, alle volte.
Clara era completamente nuda, il corpo adagiato contro una roccia lontana dalla riva, nascosta dietro il forte. La testa rovesciata all'indietro, la bocca deformata da un ghigno di piacere, mentre con la mano giocava a cercarsi tra le pieghe della sua fica. E io le entravo dentro, con tante piccole onde abbarbicate sul contorno della roccia che andavano e venivano da lei.
E quando il suo corpo tremava in preda agli ultimi spasmi convulsi, lasciavo che la mia spuma si sporcasse del suo sapore agrodolce, che mi stuzzicava il palato di limone e di miele.
Appena si accorse che Giorgio le si era seduto accanto, gli lanciò un sorriso divertito, lo tirò a sé e percorse con la lingua il contorno della sua bocca con una dedizione appassionata, che mai come in quel momento ho desiderato essere un uomo, altro da me, dal mio corpo immenso, sformato, senza voce. Dal mio essere mare destinato solo a scorrere senza potersi mai fermare in un punto, a non avere confini, a non aver diritto a una morte o a una donna da fare propria sopra un pezzo di terra.
Giorgio si innamorò perdutamente di Clara.
Avevano vent'anni e non sapevano il tempo che passa.
Nei loro movimenti l'uno verso l'altra erano sospinti da venti di fortuna, che per voglia del caso li facevano vicini, stretti a tal punto da farli credere indispensabili.
Io, che sempre sono stato uno, non conosco il due.
Ma spesso mi è sembrata soltanto una guasta proiezione dell'uno.
Un'asimmetria che si sdoppia e non si ricompone.
Ma gli umani lo imparano e lo dimenticano, così come imparano e dimenticano la morte.
Perché del due hanno bisogno, ma ne soffrono la gabbia.
Per Giorgio il mare era tutto, il blu era finito per diventare un modo di sentire, un filtro per riconoscere le cose. Nel blu aveva trovato il ritmo del suo respiro, senza scadenze, orari, obblighi. Clara era fatta di terra e di sabbia che s'attacca alla pelle e l'arroventa. Dell'acqua no, non aveva paura, ma il mare è come il deserto e non ha strade a senso unico, che per male che vada si possa tornare indietro. Il mare non ha edicole, palazzi, numeri civici.
Non rassicura e non consola, smarrisce il tempo e lo spazio e crepa tutti i punti cardinali.
E' quanto di più vicino all'inarrestabile accadere delle cose.
Da quando si sono sposati vedo Giorgio sempre più spesso solo.
Salta sulla barca e prende il largo.
A volte parla tra sé e sé. A me piace immaginare di essere chiamato ad ascoltare.
Dice che Clara negli ultimi anni è diventata un'estranea.
Non vuole mai avvicinarsi all'acqua, neanche per bagnarsi le caviglie.
Mi manca la pelle di Clara, dio se mi manca.
Quando è estate, Clara lascia che i bambini entrino in acqua con Giorgio.
Mai senza braccioli o ciambelle.
Lei resta sulla riva, in attesa, gli occhi dilatati dall'angoscia.
Clara è diventata tutta paura, ha dimenticato la vita, ma non accetta la morte.


Oggi, appena aperti gli occhi, ho ingoiato in un colpo di tosse lo stupore.
Ho sentito un brivido di freddo verso riva.
Giorgio si stava avvicinando piano, a bordo della barca a remi.
Ma non era solo.
Accanto a lui i suoi bambini, bagnati da un sole scandalosamente bianco.
E' arrivato fino all'altezza del forte, proprio a fianco alla roccia dove dieci anni prima aveva conosciuto Clara, quando in lei gli era capitato di perdersi.
Subito dopo ha messo addosso ai bambini due cappotti di lana pesanti.
Le tasche erano piene di sassi.
Se li è stretti forte al petto, carezzando i loro capelli neri, poi li ha immersi nell'acqua.
Io, di quel momento, ricordo solo lo sguardo di Giorgio.
Che sapeva che quella morte non sarebbe bastata.
Ma io sono nient'altro che il mare.
E il mare è acqua nei polmoni.
E oggi mi sento mille anni addosso.
Così non mi muovo e inghiotto.

mercoledì 23 febbraio 2011

Rimini.

C'è Marta a casa mia.
I gomiti poggiati sul tavolo di truciolato della cucina.
Le gambe abbandonate distrattamente contro una mattonella sbeccata del pavimento.
Marta ha sempre avuto gambe così.
Due cavi bitorzoluti, tutti nodi e buchi, senza elettricità.
Gambe che, a toccargliele, non parevano sue.
Come una cosa dimenticata in un angolo e invecchiata lì.
Qualcosa che del mondo ha visto soltanto le pareti di una scatola di cartone.
- Com'è successo?- mi chiede.
Resto ancora qualche istante a fissare i suoi piedi nudi giocherellare con il triangolo scheggiato della mattonella. I piedi di Marta sono due api femmine che sgocciolano nel sole. Da qualche minuto vibrano leggeri, accarezzando in senso orario e antiorario la punta storta e rincagnata della mattonella rovente. Descrivono cerchi concentrici come gocce di paura, e spirali sempre più strette, in cui mi si strozzano gli occhi e vedo tutto come da lontano, col fuoco in mezzo, con le righe nere tirate sopra a cancellare le parole sbagliate.
Penso alle mie labbra che fino al mese scorso leccavano la figa di Marta in cerchi concentrici in senso orario e antiorario.
Uno sbuffo di fumo dalla sua bocca fa l'aria grigia all'improvviso.
- Fa caldo- sbotto.
Marta si alza dalla sedia e va verso la finestra. Si sporge sul davanzale, dondola avanti e indietro mentre si accende un'altra sigaretta.
Dal tavolo vedo piccole lacrime di sudore in controluce scivolare dalla sua fronte, giù lungo il naso e finire impigliate tra i denti, dove ci stanno tutte le parole che io non ho il fiato per dire e che Marta sa già e non capisce.
E' luglio, un luglio così strano, che ci fa i polmoni umidi e la faccia sudata, troppo caldo, davvero troppo caldo per continuare a starsene buoni senza perdere la testa.
- Giovanni-.
Quando suda, la pelle di Marta inizia a puzzare di fumo.
Le narici dilatate, ferine, da bestia notturna.
Le ascelle di Marta, invece, hanno l'odore della tromba delle scale dei vecchi palazzi, quelli coi soffitti alti e le pareti forti. Sugo fatto in casa e basilico. Pepe, qualche volta.
- Giovanni, che è successo?-
Si gira di scatto, con tutte le domande impiccate tra le rughe della fronte.
E una bocca amara, che mi chiede perché, e perché è la parola sbagliata, quella guasta, perciò io ci tiro un rigo nero sopra, come a uno scarabocchio.
- Sono precipitati dopo la curva. Lungo la scarpata. Lì è pieno di rovi di sterpaglie-.
Sono calmo.
Immagino cerchi concentrici sulle scapole di Marta e mi ci sciolgo dentro.
Aspetto che si giri di nuovo, ma rimane inchiodata al davanzale.
Un brivido percorre i contorni sbilenchi delle sue spalle.
- L'incendio è venuto subito dopo-.
Guardo il petto di Marta alzarsi e abbassarsi a un ritmo che mi fa da ninnananna e quasi m'addormenta.
- La polizia ha trovato i freni manomessi.
Tuo padre non ha perso il controllo, Giovanni. -
Sento che fa caldo, fa davvero troppo caldo e quando fa così caldo scoppiano gli incendi, è una cosa naturale, il naturale corso delle cose. Sento che voglio appiccare un incendio, voglio bruciare Marta, voglio bruciare la mia casa, ma resto zitto e non mi muovo.
- E' stata la valigia- dico ad alta voce.
Il silenzio tra di noi è una crepa bollente.
- Cosa? Quale valigia?- mi chiede Marta.
Si è girata, la maglietta le si è appiccicata al seno e alla pancia.
Disegno cerchi concentrici intorno ai suoi capezzoli.
- La valigia con cui volevano andare a Rimini. I miei non partono mai, Marta. E' già tanto se riescono a fare la spesa. -
Marta non parla, mi scruta curiosa nella penombra.
Mi si riempe il naso delle sue sigarette.
- E mio padre torna a casa il mese scorso e gli ridono gli occhi, Marta.
Non avevo mai visto ridere mio padre.
Dice che ha messo da parte un po' di soldi, abbastanza per portare la mamma a Rimini una settimana in vacanza quest'estate-.
Marta respira sempre più forte. L'odore di catrame mi dà alla testa.
- E mia madre si è messa a saltare come una bambina.
E poi ha tirato fuori quella valigia blu.
Da una scatola di cartone tutta sigillata con lo scotch.
Era così triste, Marta.
Non potevo fare altro.
Mi capisci?-

domenica 20 febbraio 2011

L'elenco.

L'elenco l'ho iniziato nel 1969.
Che io avevo venticinque anni e Mario forse trenta.
Eravamo stati ragazzini insieme, amici di quartiere.
Di quelli che anche a ottant'anni ti si portano in mezzo alle rughe, tra le macchie della pelle, in mezzo ai denti gialli per le troppe sigarette.
Mario era uno di quei tipi che, a battere un pugno contro le pareti di casa, ci usciva la voce sua. Stava lì, dentro le mattonelle del pavimento, quelle tutte quadrettate, anni '50, dei nostri vecchi. Poggiavi un orecchio per terra e lo sentivi correre come uno scalmanato. Stava tra le mensole di camera mia, nell'odore dei fumetti nuovi, che a prenderli in mano adesso mi sembrano malati, ingobbiti, tutti ristretti. E stava pure nel cortile della chiesa di San Patrizio, tra le crosticine di quel sasso dove facevamo a nascondino da bambini.
Ogni volta che tornavo a casa da Roma, scendevo dal tram proprio sotto casa di Mario, e già me lo vedevo alla finestra con quelle braccia lunghe lunghe che non sapeva mai dove infilare, e allora stava sempre a sbracciarsi con quel sorriso che gli sgarrava la faccia, gliela sgarrava proprio in due, che uno che non lo conosceva pensava di sicuro che cazzo c'avrà tanto da ridersi questo. E ogni volta che mi vedeva pareva che avevo fatto la guerra e mi avevano già morto e sepolto da quanto gli si facevano bianchi gli occhi. Mi urlava alla finestra che la Pina aveva fatto le frittelle e per un caffè mi potevo pure fermare, che la Laura a Roma mi faceva proprio sciupare, me lo vedeva in quella faccia smunta smunta che avevo messo su.
E a me quel sorriso m'aveva sempre fatto male, perciò salivo, cinque piani e novantacinque scalini, ma poi a Mario gli dicevo che novantacinque era proprio un numero del cazzo, già che uno ci doveva lasciare tutto il sudore, potevano pure farne cinque in più. E lui si prendeva la sua pancia tutta costole tra le braccia e mi diceva che della vita non ci avevo capito ancora niente, che te ne fai di cento, mi chiedeva, che poi arrivi su e non c'hai niente da ridire?
La Pina era la nostra donna, la ragazzina che a quindici anni c'aveva fatto perdere la testa a tutti e due e da tutti e due s'era fatta toccare, la Pina, che mica me le scordo le sue cosce, che sono le prime che ho visto, le prime che ho baciato. Ma poi se l'era presa Mario, lui il lavoro ce l'aveva già, io facevo solo lo studente, andavo in giro a dire che volevo fare l'avvocato e non era vero niente. E Pina lo sapeva, che tutti quei quaderni erano pieni di poesie sconclusionate, che lei era una donna coi fianchi buoni per fare i figli e io no, non ce l'avevo proprio la faccia da marito.
Ed era il 1969, quando tornavo da Roma e non vedevo l'ora di precipitarmi a casa di Mario, strappare un bacio alla Pina, per dire che ci avevo messo tre anni, è vero, e avevo preso un diciotto con le suppliche, ma diritto penale l'avevo passato e toccava festeggiare.
Appena sceso dal tram, Mario non l'ho visto alla finestra.
C'era solo un codazzo di gente davanti al portone e si facevano il segno della croce, con le bocche all'ingiù e gli occhi storti e dicevano che era una disgrazia, una disgrazia davvero, povera la Pina, che adesso era pure incinta, adesso come se lo mantiene questo figlio.
E io che non capivo e chiedevo alle facce della gente ditemi che è successo.
Ma era tutto così nero, così storto e nessuno aveva il coraggio di aprire la bocca per dirmi che Mario era morto, caduto giù come una pera da un'impalcatura al cantiere, perché aveva perso l'equilibrio.
Magari, magari si stava sgarrando dalle risate, ho pensato io.
E allora ho iniziato a scrivere l'elenco.
Nome, cognome, data di nascita e di morte.
Di tutti quelli che hanno vissuto con me e se ne sono andati senza farsi offrire da bere.
Che poi alla fine avvocato ci sono pure diventato.
C'è solo un pensiero che mi angustia un po'.
Che quando toccherà a me, il mio sarà l'unico nome a mancare nell'elenco.

Pavese e Ferretti: la terra, la madre, una questione di sangue.

"Un'occasione così doverla perdere, e una ragazza che si sta rivoltando non poterla portare in un prato. Perché il bello della campagna è che tutto ha il suo odore, e quello del fieno mi dava la testa: un profumo che le donne, solo che abbiano un sangue un po' sveglio, dovrebbero stendersi. Guardo in su i pipistrelli che volano e mi vedo davanti, bella rosa, la collina del treno, col suo capezzolo sulla punta, e dei lumi sul fianco. Siamo in mezzo a due mammelle, dico; qui nessuno ci pensa, ma siamo in mezzo a due mammelle".

(Paesi tuoi, C. Pavese)


E' il 1939.
Pavese è alle prese con la stesura di "Paesi tuoi", la sua prima grande prova narrativa che vedrà la luce nel 1941.
Ne "Il mestiere" del 19 novembre '39 si legge: "Compreso, leggendo Landolfi, che il tuo motivo del caprone era il mot. del nesso tra l'uomo e il naturale ferino. Di qua il tuo gusto della preistoria:
il tempo in cui si intravede una promiscuità dell'uomo con la natura-belva. Di qui la tua ricerca dell'origine dell'immagine in quei tempi: la promiscuità di un primo termine (solitam. umano) con un secondo (solitam. naturale) che sarebbe qualcosa di più di un semplice fantastico: una testimonianza di un nesso vivo".

E' il 1994.
Giovanni Lindo Ferretti e i suoi C.S.I. hanno appena prodotto il loro nuovo album, "In quiete", che in chiusura vede la traccia "Del mondo".
Che fa più o meno così.
"E' stato un tempo il mondo giovane e forte/odorante di sangue fertile/rigoglioso di lotte, moltitudini/Dimora della carne, riserva di calore/sapore familiare e odore[...]"

Pavese e Ferretti sono due uomini agli antipodi.
Il primo, un animale da riserva, sempre al margine della cose, una voce narrante in esterni,
una faccia in penombra, una bocca che sorride disperata, di nascosto da tutti. Vorrebbe partecipare alla guerra, ma sa che non è la prima linea il suo posto. Lui è un soldato da retrovia, di quelli che la guerra la vedono solo da lontano, che non imbracciano fucili, ma se li puntano contro. Perché c'hanno il sangue guasto, un sangue marcio, che non feconda la terra e fa i figli malati. E' un sangue da scappati di casa, da chi in esilio ci muore e non ritorna alla terra che gli ha dato le ossa.
Il secondo, un partigiano della parola, sempre controvento, un salmodiante da trincea, un estremista del linguaggio, uno che ha scelto la voce per dire la guerra. Perché in lui la guerra s'è fatta sangue e parola e così hanno fatto la vita e la morte. E' un sangue che viaggia per il mondo, quello di Ferretti, ma sa tornare a casa, perché riconosce ancora gli alberi, i visi dei vecchi, l'ansimare dei cavalli. Non è un sangue da orfani, ma da chi una terra ce l'ha e non ha perso la voglia di cantarla.
Eppure questi uomini così diversi travalicano lo spazio, il tempo e la storia per finire uno addosso all'altro, nella preistoria dove l'uomo si accoppia alla bestia, seppellendo il razionale nell'anelito animale e nella liberazione degli istinti.
Le loro voci si incontrano dove il mito si trasfigura, dove il simbolo si fa verso e romanzo, dove il destino accade perché deve accadere e non si può rompere.
Canta Ferretti, "Ciò che deve accadere accade/ Per quello che ho visto/ Per quello che ho sentito/ Per sconcertante necessità".
Ananke, che è fato, destino e necessità inalterabile contro cui gli dei non possono niente.
Ananke è dovunque in Pavese.
Nella sua ossessione per il nostos (il ritorno a casa, che impossibile si rivelerà anche nel mito) nel rituale iniziatico, nei cicli stagionali governati dalla luna, nella metafora ricorrente della terra-madre che dà la vita e la toglie ed è sorella, donna, amante in cui si consuma l'incesto finale, che abbatte il tabù ultimo per decostruire le strutture sociali e le loro gerarchie. Così fa redivivo lo spirito tribale, che non è disordine né anarchia, ma è dominato da leggi diverse, da leggi di natura, che con quelle degli uomini non hanno niente a che fare.
Le colline delle Langhe, che in Pavese sempre sembrano mammelle, capezzoli di donna che allattano, sfamano e fanno sangue, tanto assomigliano a quegli scorci dell'Appennino che in Ferretti diventano sostanza altra, assumendo la forma del disumano, del selvaggio, dell'indomita energia della natura che crea e distrugge.
Canta Ferretti in proposito: " E' cavità di donna che crea il mondo, veglia sul tempo, lo protegge. Contiene membro d'uomo, che s'alza e spinge, insoddisfatto poi distrugge".
E' l'atto sessuale, nella prospettiva del rituale d'accoppiamento animale, decivilizzato, scarnificato dei significati sovrastrutturali, che è la genesi del tutto ed è a quel punto che è necessario tornare: in quel luogo entropico di conciliazione degli opposti tra ordine e disordine, luce e buio, caos e cosmos, apollineo e dionisiaco in cui si distrugge e si costruisce allo stesso tempo.
Dove il raziocinio viene meno ed è la follia, in quanto forma di invasamento, esaltazione religiosa, estatico trasporto che muove l'individuo al compimento del gesto.
Si legge ne "Il mestiere" il 10 luglio '47: " Dov'è l'interesse per il selvaggio, che pure t'incute? Quel che accade al selvaggio è di venir ridotto a luogo noto e civile. Il selvaggio come tale non ha in fondo realtà. E' ciò che le cose erano, in quanto inumane. Ma le cose in quanto interessano sono umane. Notato che Paesi tuoi e Dialoghi con Leucò nascono dal vagheggiamento del selvaggio- la campagna e il titanismo".

Pavese e Ferretti sono due voci da tragedia greca.
E la tragedia è mito che abbandona il dio e si incarna nell'uomo.
E' l'incombere umorale degli affetti del sangue, canta Ferretti in "Irata".
Dove non c'è catarsi, se non attraverso lo spargimento del sangue e tramite il fuoco, che lava la terra e la fa fertile di nuovo.
Così Gisella di "Paesi tuoi" viene presa alla gola dal tridente di Vinverra e il suo sangue, sangue di femmina, mestruo, rosso come rossa può essere la morte che dà nuova vita, finisce sulla terra a bagnare i covoni del grano. E fertile è il fuoco del Valino che incendia la sua cascina ne "La luna" o il falò fatto col corpo di Santa, bruciato dai partigiani alla fine della guerra.
Fertile come quella "dote primordiale, distanza siderale, matrilineare" di cui canta Ferretti.
Che è nel ciclo lunare, sul ritmo animale battente, sul battente pulsare.
Lì dove la morte segue naturalmente la vita.
Perché le cose così vanno, così devono andare.

venerdì 18 febbraio 2011

Per un chicco d'uva.

Era la bocca.
C'era anche il resto prima.
Poi, all'improvviso, ha smesso di esistere.
Per nessun motivo in particolare, è scomparso.
Mi si sono fatti gli occhi bianchi tutt'un tratto.
Ogni rumore s'è fatto zitto, zitto con le labbra cucite a fil di ferro.
Anche le grida della signora Anna, la vecchia del piano di sotto.
Che, da quando siamo venuti ad abitare qui, grida solo che vuole la luce.
Non chiede mica tanto.
Che la lasciassero pure morire, ma non in quella stanza, no.
Che dalla sua finestra non si vedono neanche più le nuvole.
Solo blocchi di mattoni rossi, sbranati dalla fuliggine.
E che senso ha, grida, senza la luce che senso ha.
Lei che era abituata a uscire a piedi scalzi dalla porta di casa e ritrovarsi col mare che le faceva il solletico alle caviglie.
E adesso quel disgraziato del figlio se l'è portata a casa sua, in quel palazzo che è una colata di cemento sparata a terra da una gru imbizzarrita.
Dice che da sola non ci può più stare.
Le ha preparato una tomba di cuscini e di piumoni.
E la signora Anna è rannicchiata lì, a sbuffare ossigeno artificiale.
Proprio come il sole che non riesce più a vedere.
Che senso ha, se neanche più i lampioni riescono a far luce adesso.
E a un certo più niente.
Anche lei ha smesso di esistere.
Tanto che mi sono convinta che fosse morta.
Ho sentito una crepa aprirsi in mezzo agli occhi.
Anche lei è diventata una bocca chiusa.
Se l'è mangiata lo spazio bianco.
Di bocca aperta, di bocca viva, c'era solo la sua.
La ventosa gigantesca di un pesce rosso troppo grasso.
E tossiva, sputacchiava, gorgogliava incartapecorita.
Passavano i minuti e occupava sempre più spazio.
Era una bocca da otaria.
Da mostro marino in calore.
Una bocca che era tutto un grugnito, uno starnuto, un colpo di gola.
Una bocca che faceva fatica a respirare.
E si allargava sempre di più e si mangiava tutto il bianco.
E tritava, raschiava, rottava.
Era una bocca tutte balze, grinze, pieghe.
Unta, scivolosa, da insetto carnivoro.
Una bocca da iena.
Puzzava di cadavere e di carcasse spolpate.
Coi denti che erano zampette di ragno.
Operose, sventravano i chicchi d'uva.
Si muovevano su e giù come filamenti gialli, disossati, senza smalto.
E la lingua, dio, la lingua.
Un polpo flaccido, con qualche macchia livida di sangue al centro.
E s'arrotolava sulla pelle dell'uva, come quella d'un camaleonte.
Un corpo morto a penzoloni.
Mi ballonzolava davanti agli occhi, enorme.
Enorme.
Sciacquava i denti di saliva e la sputava nel piatto con gli acini masticati.

C'era solo la sua bocca.
E il resto, no, il resto non sono riuscita più a vederlo.


"Papà?"
ho domandato.
"Papà, stai bene?"
ho ripetuto.


Mentre sfilavo il coltello del pane dalla sua bocca, si è levato un grido dal piano di sotto.
La signora Anna era ancora viva.
Mi tastai la fronte in mezzo agli occhi.
Nessuna crepa.
Tirai un sospiro di sollievo.