venerdì 26 novembre 2010

Ma se io parlo, qualcuno mi sente? (Racconti dal formicaio).

E' tardi, cristo, è tardi.
Butto un'occhiata furtiva all'orologio, quasi di traverso, mentre ingoio un pò di saliva che mi scende dai nervi giù nella gola. Le lancette sgusciano via in quell'andirivieni tutto in tondo lungo le tacche del quadrante.
Otto e quaranta, mi dicono.
E' tardi, cristo, è tardi.
Il loro nevrotico tictac mi si gonfia contro il polso.
La verità è che non gliene frega niente, mi dico, a queste tre appuntite lamine di ferro che la vita qua fuori abbia smesso di scorrere da venti minuti buoni e centinaia di sconosciuti col culo al freddo sui sedili di plastica d'un regionale siano bloccati in mezzo alla campagna, quando dovrebbero stare già appesi come pappagalli ammaestrati con le zampe sul trespolo di una metropolitana. Che lì dentro almeno il fiato degli altri ti fa da inceneritore. Non gliene frega niente, a queste tre puttane, se il tempo muore di tanto in tanto qui dalle nostre parti. Loro sono progettate per andare solo in avanti, che il tempo per loro è soltanto futuro che accade, mai presente che si rompe o si arresta. Loro non lo sanno mica l'orrore quotidiano, quello che fa uscire i mostri, che fa sparare nei fast-food o in fila al semaforo, che ti fa strangolare i figli nel sonno, che ti prende per la gola e ti fa passare il collo in una corda. Che poi è solo stanchezza che si raggruma e ti fa marcire nelle ossa.
Mi gratto veloce la punta del naso, la mano si muove scattosa contro la pelle ruvida, tutta a chiazze rosse perchè è novembre e novembre lo sento intorno ai miei occhi, che nevicano tutte quelle lacrime d'un viola allergico e screpolato; e novembre lo lecco sulle mie labbra, arrossate dal grado zero dell'aria, con tutte le pellicine che pendono ai lati; sì, novembre lo sento dentro al naso che non fa altro che starnutire un polline morto.
Le otto e quarantacinque, mi dicono le facce che mi ritrovo davanti.
Raspose, rugose, bucate.
Anche a vent'anni.
Dormono tutti in piedi, cavalli in un carro merci.
Coi vestiti che puzzano ancora di letti singoli e di matrimoniali pieni per metà, di caffè e di biscotti incastrati tra i denti, di capelli arruffati, di naftalina sui maglioni, di barbe non rasate, di tramezzini di polistorolo sotto ghiaccio azzannati nei quindici minuti della pausa pranzo, di cellulari che squillano sempre troppo poco, di carta riciclata di romanzi d'amore a lieto fine, di parole acetate, edulcorate, sterilizzate, di sguardi che sono orizzonti morti, senza più niente da svelare. E io come loro, aspetto solo che il tempo, il tempo che ora sto condividendo con questa gente, torni a coincidere con lo schizofrenico futuro di questo mio orologio fuori sincrono.
Ed ecco la spinta, la sento vibrare leggera nelle mie gambe, ruote motrici di questo polifemo a scompartimenti chiusi, lo ascolto sbuffare carburante via dalle arterie di scappamento, mentre il sangue mi torna in circolo e mi si stiracchiano i pensieri, di nuovo assonnati, dopo quei pochi istanti di lucidità nella paralisi del buco temporale.
Dopo un quarto d'ora eccomi qui, alla stazione Ostiense. 'Fanculo la lezione, ormai è saltato tutto.
Ho un minuto scarso per rimettere il libro nello zaino e tirare fuori le cuffiette del lettore, prima di spararmi qualche sequenza di suoni a caso nelle orecchie.
E poi badabùm, davanti, dietro, attorno a me una mandria di insetti con due braccia e due gambe mi superano, mi circondano, mi si stringono contro, non posso fare altro che farmi trascinare nel mucchio, sono gli altri a camminare per me, ognuno cammina per sospingere l'altro in un moto inerziale, di trascinamento di carcasse, di resti solitari con un nome, forse, e un lavoro a ore, di uomini in cravatta chiusi nelle loro valigette di pelle nera, di troppa gente con gli occhiali da sole, che cristo, sarebbe anche novembre, il mio naso ve lo può assicurare. E non posso fare altro, sul serio, che incastrarmi nel rancido del loro fiato d'alcool e di cipolla, nelle conversazioni degli africani che vorrei saperlo che cazzo di tariffa c'hanno, la wind mica le fa tutte queste offerte, nella pelle degli indiani che sa di curry e di spezie che mi fanno sempre starnutire e cristo, toglietevelo dalla faccia quel sorriso da giapponesi che vi ritrovate, stronzi! e i bermuda avana dei turisti tedeschi trascinati da un posto all'altro in gite in pullman a due piani, senza mai mettere piede su un sanpietrino, smettetela di ingozzarvi di grassi estrogenati! e no, io non ve le dò le indicazioni in francese, figli di puttana, imparatevele due parole in croce di inglese, checazzo! E voi, spagnoli della movida della minchia, che mi venite a ballare la macarena sul treno, sul mio cazzo di treno, mentre vi sbracciate in applausi a qualche zingaro di turno con la fisarmonica, dovrebbero chiudervele le frontiere, figli di puttana!
Ma poi capita che lo vedo.
Pasticca. Il vecchio Pasticca.
Dicevano che fosse morto e invece eccolo qua, da tutt'altra parte della città, ma è lui. Ed è vivo.
Molto di più di noi.
Pasticca, il barbone di Centocelle.
Da quando ha iniziato a farsi vedere in giro non s'è mai visto con qualcosa di diverso addosso.
Tutto raggomitolato in quel pastrano piombo da monaco medievale, col giubbotto catarifrangente per far vedere che lui c'è, che è lì, che non lo prendessero sotto, se si mette al centro dell'incrocio mentre sventola la sua storica cannuccia rosa e gialla, che pare una luminaria per quanto è fosforescente, e quel bicchiere di carta sudicio che si tiene stretto tra le mani grigie. Pasticca canta e parla pure qualche volta. Certe parole gliele hanno sentire dire in italiano, certe altre in quello che alcuni hanno creduto essere serbo.
Non è che chieda l'elemosina. E' lì fermo, al centro della strada, e ora di questo sottopassaggio metropolitano, e strizza i suoi occhi da pesce marcio all'ingiù. Mi danno l'impressione di un paio di corvi incatramati. Due pezzi di diamante nero, rubati a chissà quale terra, e giusto loro potrebbero snodare quel tappetino di capelli che gli hanno ricamato in testa gli anni. Anche se lo rasassero a zero, ricrescerebbero annodati. E mi viene da sorridere, perchè è buffo ed è trististissimo rivederlo qui.
Dove la vita scorre troppo veloce anche per i treni ad alta velocità.
Che poi oggi ha un sacco da parlare, Pasticca, ma sono lontana, non capisco quello che sta dicendo.
Perciò mi faccio più vicina, metto in pausa il lettore e ascolto.
Non so se sia soltanto l'ossessione che mi rattrappisce la testa, ma quello che sento io è un punto di domanda, tutto balbettato nella sua voce da giradischi con la puntina rotta; non una preghiera, nè uno scongiuro, una semplice domanda. E io non so rispondere. Io non posso farlo.
"Ma se io parlo, qualcuno mi sente?"
Butto giù il groppo nella gola.
Due, tre colpi di tosse.
E' solo allergia, mi dico.
E' solo questa fottuta allergia.

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