sarà che ieri notte sono andata a dormire con david gilmour che mi piangeva hey you nelle orecchie.
sarà che, come mi dice zio nick al telefono, claudio lolli è il cantante dei suicidi, non è che sia proprio l'ideale infilarcisi dentro a vent'anni. vuol dire che qualche valvola inizia ad arrugginirsi e quel bum bum tra le costole decelera tra frequenze radiofoniche che iniziano a fare bzzz e finisce che non le ascolta più nessuno, anche se fanno una musica della madonna.
sarà che ieri ho ritirato fuori john fante da un angolo tutto impolverato.
ed è tornato bandini a ricordarmi che dovrei farmi una vita prima di poterci scrivere su.
ecco, sarà che ho capito di non avere niente da raccontare.
ma proprio meno di zero.
che la vita corre fuori dai miei binari.
e che mi hanno messo(mi sono messa?) su un carro merci diretto al macello.
sarà che stamattina mi son svegliata ed ho attivato l'applicazione aimemì dell'aiphone promosso dal mongio.
perciò il foglio bianco si becca 'sti lamenti random, scribacchiati col culo.
è come avere tante brevi fitte che ti trapanano la fronte.
sono piccoli precipizi di demotivazione che mi bucherellano la testa.
più o meno sono diventata uno scolapasta di punti interrogativi.
deve essere successo che mi sono addormentata e qualcuno mi ha inciso tra i neuroni la parola futuro.
poi ho aperto gli occhi, ho poggiato i piedi contro il pavimento, ho sentito che faceva troppo caldo per essere ottobre e ho mandato a fanculo il buco nell'ozono, l'effetto serra e i pesticidi chimici e tutti gli shampoo che ho buttato in mezzo ai rifiuti organici e la gente che usa troppo deodorante e i tubetti di profumo in omaggio, e il detersivo al limone nell'acqua del mio lavello e i piatti di plastica che fanno sciogliere la pasta e l'acqua che sa di petrolio bianco e di ferro mangiato da troppo ossigeno, però stava in offerta.
poi mi son versata il caffè, ci ho rovesciato la zuccheriera dentro, ma non è mai abbastanza dolce per storcermi il sorriso dall'altro lato.
e l'occhio mi è caduto sulle buste di insalata che traspiravano tossine sul pavimento della cucina.
ho iniziato a vedere le mattonelle annerirsi e trasudare macchie scure, che si espandevano sempre di più, mi circondavano, mi risucchiavano sotto i riflettori di una serra a 25° di temperatura standard, inculo ai cambiamenti stagionali, allo scioglimento dei ghiacciai, al protocollo di kyoto, alle lattughe radioattive di chernobyl. ecco, mi è caduto l'occhio su queste foglie da ruminanti accatastate una sull'altra e ho pensato che ci stiamo avvelenando, ma che non abbiamo altra scelta. che la terra è malata e ci cresce solo sabbia, neanche roccia, solo sabbia orticante che si arrampica tra i polmoni.
quando mi sono svegliata stamattina, ho lasciato quattro lacrime sul cuscino.
non venivano dalle mie frequenze radiofoniche annebbiate, no.
venivano dai miei sacchi lacrimali inquinati dai fumi delle centrali e dai veleni delle discariche.
che fino a cinque anni fa non ce le avevo mica io, le allergie.
come è successo che primavera ha iniziato a voler dire antistaminico?
io non me lo ricordo più, non me lo ricordo più davvero.
so solo che qualcuno questa notte è arrivato di soppiatto, ha sfondato le mie barriere antiossigeno si è divertito a scrivermi futuro sulla fronte con un pennarello indelebile.
ed io sono tornata indietro, ho tirato su le serrande e ho visto che c'era davvero troppa luce per essere ottobre. delle nuvole non se ne sente più parlare, sono come la morte.
che fin quando non ci si pensa, magari non arriva.
che fin quando si può andare in giro con gli occhiali da sole, non si deve guardare in faccia la gente.
che fin quando in cina coltivano lattughe in tre ore dentro loculi di compensato sotto raggi ultravioletti, qualcosa da mangiare si troverà pure.
e prima o poi ce ne andremo pure noi, no.
così non avremo più bisogno di preoccuparci di come sfangare questo sole cancerogeno.
ecco, qualcuno stanotte mi ha fatto pensare che esiste un futuro.
che sarebbe i giorni che passano.
e che l'apocalisse sarebbe una soluzione.
ma non dovremmo pensare di essere così fortunati.
P.s: una volta, passeggiando per le strade di roma, ho visto un ragazzo straniero.
al collo portava un laccio di cuio con un cartello che gli ricadeva sopra al petto.
"Sono troppo giovane, per non avere speranze".
Ho pensato che avesse ragione, lì per lì.
subito dopo che avrei dovuto farmene una ragione, prima o poi.
mercoledì 29 settembre 2010
domenica 19 settembre 2010
A tight connection to my brain: l'attrazione testale ed altri fenomeni psico-fisici.
Nel 1985, tra una track e l'altra dell' "Empire Burlesque", Bob Dylan sgracchiava, con la sua voce da puntina spuntata da giradischi, un simpatico ritornello che suonava più o meno così:
"You've got a tight connection to my heart" ripetuto per sei, sette, dieci, venti volte con tanto di coriste in controcanto (vi facciamo la grazia di allegarvi a fine post il link del video, in concorso da anni per il titolo dell'MtvTrashestVideoEver. Ma ora che si sta in gara anche per il Nobel della pace, viene da sè che due riconoscimenti insieme di così alto livello alla stessa persona non possono essere tributati, per tutte quella serie di leggi anti-trust che governano le sorti del mondo e permettono un'equa divisione delle cariche).
Pur essendo una dylanista convinta, una di quelle fanatiche frequentatrici delle ballate alla Woody Guthrie, non credo che Bob Dylan abbia mai avuto intenzioni messianiche nè poteri profetici. Credo sia stato un buon cantastorie, un gran scrittore, magari un pò sfasato rispetto alle coordinate spazio-temporali in cui tutto il resto del mondo si trovava a vivere e crepare, ma resta il fatto che ha scritto della bella roba.
E che non mi verrebbe mai in mente di dire che i Beatles valessero più di Dylan.
Sono molto d'accordo con questa mia idea, devo dire.
Detto questo, il post di oggi non ha niente a che vedere con Bob Dylan.
Se non per il nostro punto di partenza, ovvero you've got a tight etc.
Se Dylan cantava al suo stuolo di donne amate, amanti, amande di una stretta connessione col suo cuore, noi decidiamo invece di cantare di una stretta connessione col nostro cervello.
La prima premessa è che sono giovane, che non ho avuto abbastanza esperienza per poter scrivere pressochè di alcunchè, meno che mai di amore e melensità affini. La seconda premessa è che sono profondamente convinta (e questa mia convinzione è diretta conseguenza della prima premessa, ma i giovani sono al mondo per cagare le balle, altrimenti non avrebbero alcuna utilità) che per portare avanti nel tempo un rapporto che non faccia venire il latte alle ginocchia dopo cinque mesi, sia necessaria una forte condivisione di interessi. Ovvero il soggetto A e il soggetto B devono poter sostenere un dialogo più o meno intelligente, cercando l'uno di inviare messaggi all'altro che vengano recepiti senza troppe spiegazioni aggiuntive; e tentando l'altro di interpretare senza troppi passaggi inferenziali il messaggio inviatogli tramite canali di comunicazione variabili.
A e B, pertanto, non devono arrivare a parlare esattamente la stessa lingua, ma cercare di usare le parole nello stesso modo, che è una cosa diversa.
Ciò detto, questa è la proiezione utopica di un sogno d'amore, che probabilmente è un concetto astratto che per sua natura esiste soltanto nella forma di proiezione utopica.
Quello che sto cercando di dirvi è che tra A e B ci dovrebbe essere una stretta connessione cerebrale. Ed uso la parola nella sua accezione positiva e, a dire il vero, letterale. Cerebrale non nel senso di artificiale, deciso a tavolino, barocco. Cerebrale nel senso di connesso con i meccanismi neuronici e sinaptici. A e B dunque dovrebbero essere legati per la testa come le gemelle siamesi della copertina di "Siamese Dreams" degli Smashing Pumpkins, per dire. Essere legati per la testa, avere un filo conduttore che dalla tua aerea di Broca e di Wernicke è in collegamento diretto con l'area dell'altro, facilita i meccanismi di comprensione, codificazione e interpretazione dei propri messaggi verbali, non verbali o del non-detto. Entra in funzione una sorta di sistema di vasi comunicanti per cui, di tanto in tanto, oltre allo scambio di liquidi corporei organici, tra i soggetti A e B riesce ad aver luogo anche uno scambio di materia grigia, che non è detto debba essere una sperimentazione con esiti sempre positivi, ma tanto vale provare.
Perchè io, almeno per ora, vengo costantemente rosa da un bisogno inestinguibile di condivisione degli affari miei con il mio simile (o dissimile, sempre a vostro piacere). Pertanto, si scatena quello strano meccanismo per cui, dall'attrazione che d'ora in poi definiremo con lo scientifico nome di testale, si innesca anche un corrispondente desiderio fisico verso il mio soggetto B, per ora viandante nomade tra le strade del mondo.
Per metterla in termini matematici, l'attrazione fisica è implicata dall'attrazione testale. Ma non sempre vale il principio per cui l'attrazione testale implica necessariamente l'attrazione fisica. E questo è chiaro.
Tuttavia questa stretta connessione col cervello delle altre persone, quando mi capita di sperimentarla, mi rilascia in corpo quantità spropositate di endorfine e una dirompente voglia di uscire dal mio mutismo per battere nuove strade di comunicazione.
C'è bisogno, come scrive il mio amico lorenzo, di un'erezione cerebrale, ecco.
Mettere in allerta tutti i rilevatori sinaptici e captare ogni minimo movimento pronti nella direzione dell'orgasmo neurale, come il sopracitato amico lorenzo aggiunge.
E con questo concludo dicendo che probabilmente aveva ragione Dylan, che il cervello c'entra poco in queste storie e soprattutto che heart suonava meglio di brain. E la musicalità in certi casi è tutto.
Perchè Dylan, a volte, era un profeta.
E sapeva come le parole possono essere arrapanti.
Così come immaginare può essere molto più eccitante di vedere.
Ed ora TheTrashestVideoEver solo per voi:
Tight connection to my heart u.u
"You've got a tight connection to my heart" ripetuto per sei, sette, dieci, venti volte con tanto di coriste in controcanto (vi facciamo la grazia di allegarvi a fine post il link del video, in concorso da anni per il titolo dell'MtvTrashestVideoEver. Ma ora che si sta in gara anche per il Nobel della pace, viene da sè che due riconoscimenti insieme di così alto livello alla stessa persona non possono essere tributati, per tutte quella serie di leggi anti-trust che governano le sorti del mondo e permettono un'equa divisione delle cariche).
Pur essendo una dylanista convinta, una di quelle fanatiche frequentatrici delle ballate alla Woody Guthrie, non credo che Bob Dylan abbia mai avuto intenzioni messianiche nè poteri profetici. Credo sia stato un buon cantastorie, un gran scrittore, magari un pò sfasato rispetto alle coordinate spazio-temporali in cui tutto il resto del mondo si trovava a vivere e crepare, ma resta il fatto che ha scritto della bella roba.
E che non mi verrebbe mai in mente di dire che i Beatles valessero più di Dylan.
Sono molto d'accordo con questa mia idea, devo dire.
Detto questo, il post di oggi non ha niente a che vedere con Bob Dylan.
Se non per il nostro punto di partenza, ovvero you've got a tight etc.
Se Dylan cantava al suo stuolo di donne amate, amanti, amande di una stretta connessione col suo cuore, noi decidiamo invece di cantare di una stretta connessione col nostro cervello.
La prima premessa è che sono giovane, che non ho avuto abbastanza esperienza per poter scrivere pressochè di alcunchè, meno che mai di amore e melensità affini. La seconda premessa è che sono profondamente convinta (e questa mia convinzione è diretta conseguenza della prima premessa, ma i giovani sono al mondo per cagare le balle, altrimenti non avrebbero alcuna utilità) che per portare avanti nel tempo un rapporto che non faccia venire il latte alle ginocchia dopo cinque mesi, sia necessaria una forte condivisione di interessi. Ovvero il soggetto A e il soggetto B devono poter sostenere un dialogo più o meno intelligente, cercando l'uno di inviare messaggi all'altro che vengano recepiti senza troppe spiegazioni aggiuntive; e tentando l'altro di interpretare senza troppi passaggi inferenziali il messaggio inviatogli tramite canali di comunicazione variabili.
A e B, pertanto, non devono arrivare a parlare esattamente la stessa lingua, ma cercare di usare le parole nello stesso modo, che è una cosa diversa.
Ciò detto, questa è la proiezione utopica di un sogno d'amore, che probabilmente è un concetto astratto che per sua natura esiste soltanto nella forma di proiezione utopica.
Quello che sto cercando di dirvi è che tra A e B ci dovrebbe essere una stretta connessione cerebrale. Ed uso la parola nella sua accezione positiva e, a dire il vero, letterale. Cerebrale non nel senso di artificiale, deciso a tavolino, barocco. Cerebrale nel senso di connesso con i meccanismi neuronici e sinaptici. A e B dunque dovrebbero essere legati per la testa come le gemelle siamesi della copertina di "Siamese Dreams" degli Smashing Pumpkins, per dire. Essere legati per la testa, avere un filo conduttore che dalla tua aerea di Broca e di Wernicke è in collegamento diretto con l'area dell'altro, facilita i meccanismi di comprensione, codificazione e interpretazione dei propri messaggi verbali, non verbali o del non-detto. Entra in funzione una sorta di sistema di vasi comunicanti per cui, di tanto in tanto, oltre allo scambio di liquidi corporei organici, tra i soggetti A e B riesce ad aver luogo anche uno scambio di materia grigia, che non è detto debba essere una sperimentazione con esiti sempre positivi, ma tanto vale provare.
Perchè io, almeno per ora, vengo costantemente rosa da un bisogno inestinguibile di condivisione degli affari miei con il mio simile (o dissimile, sempre a vostro piacere). Pertanto, si scatena quello strano meccanismo per cui, dall'attrazione che d'ora in poi definiremo con lo scientifico nome di testale, si innesca anche un corrispondente desiderio fisico verso il mio soggetto B, per ora viandante nomade tra le strade del mondo.
Per metterla in termini matematici, l'attrazione fisica è implicata dall'attrazione testale. Ma non sempre vale il principio per cui l'attrazione testale implica necessariamente l'attrazione fisica. E questo è chiaro.
Tuttavia questa stretta connessione col cervello delle altre persone, quando mi capita di sperimentarla, mi rilascia in corpo quantità spropositate di endorfine e una dirompente voglia di uscire dal mio mutismo per battere nuove strade di comunicazione.
C'è bisogno, come scrive il mio amico lorenzo, di un'erezione cerebrale, ecco.
Mettere in allerta tutti i rilevatori sinaptici e captare ogni minimo movimento pronti nella direzione dell'orgasmo neurale, come il sopracitato amico lorenzo aggiunge.
E con questo concludo dicendo che probabilmente aveva ragione Dylan, che il cervello c'entra poco in queste storie e soprattutto che heart suonava meglio di brain. E la musicalità in certi casi è tutto.
Perchè Dylan, a volte, era un profeta.
E sapeva come le parole possono essere arrapanti.
Così come immaginare può essere molto più eccitante di vedere.
Ed ora TheTrashestVideoEver solo per voi:
Tight connection to my heart u.u
sabato 18 settembre 2010
Azione di propaganda sotto corruzione del bernardi.
In un paese dell'hinterland di Bologna, un anziano squilibrato si mette a sparare dalla finestra, uccide alcune persone e tiene in scacco le forze di polizia che, a sera inoltrata, decidono di passare al contrattacco: per disorientare il folle, ordinano che venga tolta l'energia elettrica all'intero circondario. In questo quadro - realmente accaduto nel giugno 2005 in un paese dell'Italia settentrionale - si sviluppa la finzione narrativa: cento minuti, quattro storie parallele, tutte segnate dalla mancanza di luce. Mario, un dirigente comunale, cerca di sedurre la sua vicina di appartamento. A casa del professor Umberto si affronta l'emergenza con un gioco che travolgerà la stessa coesistenza famigliare. Nel bar di Loretta ci si industria per continuare le partite a carte e a biliardo, ma presto e in modo del tutto imprevedibile si dipanerà una storia completamente diversa. Intanto, Domenico, uno scrittore solitario, si prepara a mettere in atto un proposito che lo tormenta da anni.
(Qua l'e-book.)
(Qua l'e-book.)
Pazzia: istruzioni per l'uso (un simpatico trattatello di amore per il prossimo).
Poniamo di avere due interlocutori, A e B.
(avremmo, nella realtà dei fatti, una lista piuttosto lunga, a dir poco interminabile, di nomi e cognomi con tanto di fototessera segnaletica da presentare come soggetti del nostro studio, ma la nuova rigida legislazione sulla privacy ci impone serie limitazioni nella divulgazione di questo tipo di informazioni).
Mettiamo dunque che A e B vengano a trovarsi in una fase critica della loro relazione, che sia di amicizia, scopamicizia, amore clandestino, amore incestuoso, rapporto padre-figlio, nuora-genero, suocera-consuocera etc. Poniamo che l'uno voglia liberarsi dell'altro o che l'altro voglia liberarsi dell'uno o che l'uno e l'altro vogliano farsi fuori reciprocamente per questioni di divergenze inconciliabili.
(perchè sempre di divergenze inconciliabili si tratta, no?)
E quando viene meno la comprensione, precedenti casi clinici ce lo dimostrano, entra in gioco il fattore pazzia. O per meglio dire, l'accusa di pazzia.
L'accusa di pazzia è un'arma utile, ma fondamentalmente a doppio taglio.
Se il soggetto A, rivolgendosi al soggetto B, lo addita come pazzo, lo fa al proprio o pubblico ludibrio, proprio perchè "il pazzo"come carattere archetipico del nucleo sociale tribale è il personaggio al margine, il capro espiatorio, la vittima sacrificale, il colpevole costretto all'ostracizzazione da parte della comunità tutta, sotto unanime giudizio. C'è per tanto nel dare del pazzo ad un proprio simile (o dissimile, a vostro piacere) una sorta di potere primitivo che affonda le proprie radici nel sistema rituale della comunità archetipica. Questo, lo evincerete facilmente, conferisce all'atto una certa autorevolezza, fatto per cui l'accusa di pazzia diventa atto performativo. Se A accusa B di essere pazzo, la comunità tenderà ad assumere che B sia definitivamente pazzo, o come minimo a nutrire un alto grado di sospetto sulla pazzia di B.
Il problema di fondo in tutto questo è che la pazzia è cosa difficile da esser comprovata oggettivamente.
Quali sono i criteri che stabiliscono cosa è sintomo di pazzia o cosa non lo è?
Il fatto che io parli quasi prevalentemente da sola o con personaggi creati dalla mia immaginazione non deve essere necessariamente inteso come un segno incipiente di follia. E' semplicemente possibile che non mi interessi interagire con il resto dell'umanità che mi circonda, o quasi. Il fatto che non mi interessi interagire con il resto dell'umanità che mi circonda non deve necessariamente essere interpretato come un sintomo di una aggravata asocialità, ma può essere imputato al quasi totale disinteresse o senso di rifiuto che le argomentazioni di cui si discute intorno a me mi suscitano.
Insomma, il fatto che io sia pazza non è comprovato. Molti direbbero soltanto che io sia stronza. E farebbero bene. Perchè non basta essere disadattati per essere pazzi, non basta sforzarsi di soffrire di personalità multipla, non basta contraddirsi volontariamente di continuo, non basta inventarsi una seconda, una terza, una centesima identità da spacciare per la propria.
Serve qualcosa di più. Serve che il pazzo non abbia nè coscienza nè intenzione di esserlo. E' necessario che l'ostracismo da parte della comunità avvenga mentre il soggetto in questione continua a domandarsi perchè tutto questo sta avvenendo. E tutto questo deve essere autentico. Il pazzo non deve rivendicare la propria pazzia come una forma di vanto, nè come una condizione di subordinazione o di disagio personale rispetto agli altri, ai sani, per scatenare la compassione di questi ultimi e riceverne un senso di conforto. L'isolamento del pazzo è tale che la sua impossibilità di interagire è una condicio sine qua non, non una scelta (seppur dettata da validissimi motivi, eh.)
Io non credo al pazzo che rivendica la pazzia come sua patologia esclusiva.
Non ci credo perchè nè ho visti troppi di casi simili e perchè anche io, essendo fatta di carne e di schifezze come Palazzolo ci insegna, a volte mi sono lasciata andare a manifestazioni di pazzia che altro non erano che mere richieste d'attenzioni.
Perciò, per concludere, se il soggetto A e il soggetto B si incartano in una discussione analoga alla seguente:
"Mi stai forse dando del pazzo?"
"Pazzo? Dare del pazzo a te sarebbe un insulto ai pazzi!
Scordatelo di essere pazzo!"
"Ah sì, eh? Allora non sono pazzo, eh? Sei forse pazzo tu?"
"Sicuramente più di te!"
"VUOI ESSERE TU IL PAZZO? "
"Certo che sono pazzo, tu hai sempre e solo fatto finta!"
"Io sono il pazzo, scordatelo, non faccio altro da una vita!"
vi hanno incastrato.
(avremmo, nella realtà dei fatti, una lista piuttosto lunga, a dir poco interminabile, di nomi e cognomi con tanto di fototessera segnaletica da presentare come soggetti del nostro studio, ma la nuova rigida legislazione sulla privacy ci impone serie limitazioni nella divulgazione di questo tipo di informazioni).
Mettiamo dunque che A e B vengano a trovarsi in una fase critica della loro relazione, che sia di amicizia, scopamicizia, amore clandestino, amore incestuoso, rapporto padre-figlio, nuora-genero, suocera-consuocera etc. Poniamo che l'uno voglia liberarsi dell'altro o che l'altro voglia liberarsi dell'uno o che l'uno e l'altro vogliano farsi fuori reciprocamente per questioni di divergenze inconciliabili.
(perchè sempre di divergenze inconciliabili si tratta, no?)
E quando viene meno la comprensione, precedenti casi clinici ce lo dimostrano, entra in gioco il fattore pazzia. O per meglio dire, l'accusa di pazzia.
L'accusa di pazzia è un'arma utile, ma fondamentalmente a doppio taglio.
Se il soggetto A, rivolgendosi al soggetto B, lo addita come pazzo, lo fa al proprio o pubblico ludibrio, proprio perchè "il pazzo"come carattere archetipico del nucleo sociale tribale è il personaggio al margine, il capro espiatorio, la vittima sacrificale, il colpevole costretto all'ostracizzazione da parte della comunità tutta, sotto unanime giudizio. C'è per tanto nel dare del pazzo ad un proprio simile (o dissimile, a vostro piacere) una sorta di potere primitivo che affonda le proprie radici nel sistema rituale della comunità archetipica. Questo, lo evincerete facilmente, conferisce all'atto una certa autorevolezza, fatto per cui l'accusa di pazzia diventa atto performativo. Se A accusa B di essere pazzo, la comunità tenderà ad assumere che B sia definitivamente pazzo, o come minimo a nutrire un alto grado di sospetto sulla pazzia di B.
Il problema di fondo in tutto questo è che la pazzia è cosa difficile da esser comprovata oggettivamente.
Quali sono i criteri che stabiliscono cosa è sintomo di pazzia o cosa non lo è?
Il fatto che io parli quasi prevalentemente da sola o con personaggi creati dalla mia immaginazione non deve essere necessariamente inteso come un segno incipiente di follia. E' semplicemente possibile che non mi interessi interagire con il resto dell'umanità che mi circonda, o quasi. Il fatto che non mi interessi interagire con il resto dell'umanità che mi circonda non deve necessariamente essere interpretato come un sintomo di una aggravata asocialità, ma può essere imputato al quasi totale disinteresse o senso di rifiuto che le argomentazioni di cui si discute intorno a me mi suscitano.
Insomma, il fatto che io sia pazza non è comprovato. Molti direbbero soltanto che io sia stronza. E farebbero bene. Perchè non basta essere disadattati per essere pazzi, non basta sforzarsi di soffrire di personalità multipla, non basta contraddirsi volontariamente di continuo, non basta inventarsi una seconda, una terza, una centesima identità da spacciare per la propria.
Serve qualcosa di più. Serve che il pazzo non abbia nè coscienza nè intenzione di esserlo. E' necessario che l'ostracismo da parte della comunità avvenga mentre il soggetto in questione continua a domandarsi perchè tutto questo sta avvenendo. E tutto questo deve essere autentico. Il pazzo non deve rivendicare la propria pazzia come una forma di vanto, nè come una condizione di subordinazione o di disagio personale rispetto agli altri, ai sani, per scatenare la compassione di questi ultimi e riceverne un senso di conforto. L'isolamento del pazzo è tale che la sua impossibilità di interagire è una condicio sine qua non, non una scelta (seppur dettata da validissimi motivi, eh.)
Io non credo al pazzo che rivendica la pazzia come sua patologia esclusiva.
Non ci credo perchè nè ho visti troppi di casi simili e perchè anche io, essendo fatta di carne e di schifezze come Palazzolo ci insegna, a volte mi sono lasciata andare a manifestazioni di pazzia che altro non erano che mere richieste d'attenzioni.
Perciò, per concludere, se il soggetto A e il soggetto B si incartano in una discussione analoga alla seguente:
"Mi stai forse dando del pazzo?"
"Pazzo? Dare del pazzo a te sarebbe un insulto ai pazzi!
Scordatelo di essere pazzo!"
"Ah sì, eh? Allora non sono pazzo, eh? Sei forse pazzo tu?"
"Sicuramente più di te!"
"VUOI ESSERE TU IL PAZZO? "
"Certo che sono pazzo, tu hai sempre e solo fatto finta!"
"Io sono il pazzo, scordatelo, non faccio altro da una vita!"
vi hanno incastrato.
venerdì 17 settembre 2010
(perchè secondo me d.f. wallace scriveva tra un aereoporto e un fast-food).

Ve lo dico da pendolare che passa minimo due ore al giorno su un treno.
Io ho perso coincidenze volontariamente, quando il tempo me lo permetteva.
E credo che ci siano un mucchio di motivi per farlo.
A me, per esempio, non capita troppo spesso di voler tornare a casa, perciò cerco di prendere tempo in ogni modo possibile. e vagabondare per le stazioni e per i sottopassaggi ferroviari e metropolitani è un'esperienza che bisognerebbe imporsi di tanto in tanto.
perchè, vedete, ci sono posti che a me piace definire come non-luoghi. non sono spazi dai confini definiti, stabili, immutabili. non ci sono strisce a delimitarne i contorni con esattezza. cambiano di continuo, non sono mai uguali a se stessi, perchè costantemente cambia la gente che li attraversa. i viaggiatori delle metropolitane, più che mai, acquisiscono il ruolo di non-persone in questi non-luoghi. corrono, ansimano, si affannano, trasportano valigie, carri merci, bambini, valigette da milioni di dollari attraverso atomi di pieni e vuoti, come bolle di sapone che si espandono e si bucano da un secondo all'altro.
la vita metropolitana viene da molti visti come un'efficace metafora della vita di tutti i giorni nel mondo moderno. quella sopra la terra, intendo. ma in realtà c'è qualcosa di diverso. e riguarda la solitudine. o meglio, il modo in cui le persone si pongono in relazione ad essa.
la solitudine è di base condizione permanente del viaggiatore.il viaggiatore è nomade, è zingaro, coltiva e soffre del suo spirito gitano. muove i suoi passi attraverso luoghi che non gli sono familiari, posti che non gli apparterrano mai, su cui poserà gli occhi una sola volta nella sua vita, magari. senza lasciare un segno del suo passaggio, perchè lo spazio pieno riempito dal suo corpo cederà posto a un nuovo vuoto che sarà riempito poi da un nuovo corpo di passaggio a permanenza provvisoria e così via.
per questo la solitudine non è vista necessariamente come un male. come un marchio che mette al margine, che isola, che è agente infettivo ed epidemico. perchè è un tratto comune a molti di coloro che si spostano nel mondo. che è anche il motivo per cui, se vai da solo ad un mcdonald's della stazione termini, nessuno ti guarderà con sospetto: ti siederai ad un tavolo da due, poserai borse, bagagli e zaini sull'altra sedia e inizierai a masticare pesticidi chimici e tossine, lasciando che ti attraversi la chiara sensazione di star avviando un percorso di autodistruzione fisiologica del tuo corpo. che, alle volte, è una percezione necessaria alla tua voglia di vittimismo e alla tua tendenza al masochismo.
prova a fare la stessa cosa in un mcdonald's sopra il livello del mare. non è così che funziona. alla luce del sole, tu sei da solo e tutti lo notano. non sei più un viaggiatore, non stai transitando attraverso non-spazi. sei in uno spazio pieno e rubi un tavolo da due, quando ti basterebbe uno sgabello. non puoi farci niente, vieni allontanato, seppure con lo sguardo, smetti di essere calcolato o vieni considerato come un elemento di disturbo, una fonte inesauribile di preoccupazione. la gente intorno a te in coppia, in gruppi da tre, da sei, da dodici, inizierà a vederti come un possibile attentatore, un rapinatore armato o un probabile omicida come nei peggiori film horror (che a fare il killer in un mcdonald's bisogna aver toccato il fondo, neh.) sei drammaticamente solo e non appartieni a nessun posto, mettitelo in testa.
perciò vi dico, provate, gente. buttatevi tra i binari di una metropolitana, mettetevi in un angolo, iniziate a scrutare le persone. in tutte le loro solitudini. e prendete appunti, non dimenticate.
potrebbe venir fuori il non-romanzo del secolo.
martedì 14 settembre 2010
(cosa leggere per evitare encefaliti fabiovoliste). parte 2.
ce la farò in una settimana?
mi sono chiesto,
ce la farò, ce la devo fare!
mi sono gridato, e ho cominciato a scrivere questa storia del pirtuso, e adesso, visto che oramai l'ho scritta, visto che potrebbe scassarti i cosiddetti una premessa così complicata, che se questa è la premessa figuriamoci tutto il resto, e allora ti dico evita, ti dico che sei ancora in tempo, ti dico girati dall'altra parte, ti dico continua a guardarti gli uccelli del cielo, guardati il sole, ti dico guarda tutto quello che ti pare basta che non guardi verso di me, anche se vorrei dirti il contrario, vorrei dirti ti prego, vorrei dirti ho paura, vorrei dirti di aprire bene le orecchie, gesù mio, che ho bisogno di te, ho bisogno di un amico silenzioso e immobile, di un fratello invisibile, di un santo che è il più migliore santo di tutti i santi del cielo ma che è anche un uomo fatto di carne e schifezze...allora facciamo finta che sia così, facciamo finta che tu ci credi, che sia un chicchessia all'oscuro delle disgrazie dell'umanità, lo so, tu mi conosci bene per via che ci siamo incontrati nelle tante preghiere che ti ho fatto, e sono sicuro che conosci pure il motivo di questa cosa, il perchè e il percome ho deciso di scriverti così, e perciò, visto che sei il più grandissimo, fai una cosa piccola per me, caro gesù: da adesso in poi, e per tutto il tempo del mio racconto, non ti mettere nessuna espressione, fatti di niente, scancellati, ascolta la storia che ti infilerò dentro al foglio e non spiccicare parola, perchè solo così potrò scrivere senza vergogna tutto quello che è successo, solo così potrò azzerare per poi ricominciare daccapo...e allora sei d'accordo? ci stai a questo giochetto? ci stai a scancellarti da ogni dove? grazie gesù mio, adesso schiodati dalla croce e scomparisci, per favore.
[...]
ecco fatto, mi sono messo il cuore in pace, gesù mio, ti ho raccontato la prima tragedia, da domani, nel mio racconto, ci sarà solo spazio per la seconda: dammi la forza, gesù mio, dammi la serenità, gesù mio, dammi qualsiasi altra cosa mi puoi dare, gesù mio, basta che non mi dai consigli, quelli dovevi darmeli prima, adesso non mi servono più.
Rosario Palazzolo è nato a Palermo nel ’72 e ci vive. È drammaturgo, scrittore, regista e attore. Ha fondato e dirige (con Anton Giulio Pandolfo) la Compagnia del Tratto, associazione che si occupa di nuove drammaturgie e nuove musiche. Per il teatro ha scritto: Ciò che accadde all’improvviso, I tempi stanno per cambiare (con Luigi Bernardi), Ouminicch’ e ’A Cirimonia, vincitore del Fringe al 18° Festival Internazionale del Teatro di Lugano. Nel 2006 ha vinto il Premio Lama e Trama con il racconto a N. Nel 2007 è uscito il suo primo libro, L’ammazzatore (Perdisa Pop).
mi sono chiesto,
ce la farò, ce la devo fare!
mi sono gridato, e ho cominciato a scrivere questa storia del pirtuso, e adesso, visto che oramai l'ho scritta, visto che potrebbe scassarti i cosiddetti una premessa così complicata, che se questa è la premessa figuriamoci tutto il resto, e allora ti dico evita, ti dico che sei ancora in tempo, ti dico girati dall'altra parte, ti dico continua a guardarti gli uccelli del cielo, guardati il sole, ti dico guarda tutto quello che ti pare basta che non guardi verso di me, anche se vorrei dirti il contrario, vorrei dirti ti prego, vorrei dirti ho paura, vorrei dirti di aprire bene le orecchie, gesù mio, che ho bisogno di te, ho bisogno di un amico silenzioso e immobile, di un fratello invisibile, di un santo che è il più migliore santo di tutti i santi del cielo ma che è anche un uomo fatto di carne e schifezze...allora facciamo finta che sia così, facciamo finta che tu ci credi, che sia un chicchessia all'oscuro delle disgrazie dell'umanità, lo so, tu mi conosci bene per via che ci siamo incontrati nelle tante preghiere che ti ho fatto, e sono sicuro che conosci pure il motivo di questa cosa, il perchè e il percome ho deciso di scriverti così, e perciò, visto che sei il più grandissimo, fai una cosa piccola per me, caro gesù: da adesso in poi, e per tutto il tempo del mio racconto, non ti mettere nessuna espressione, fatti di niente, scancellati, ascolta la storia che ti infilerò dentro al foglio e non spiccicare parola, perchè solo così potrò scrivere senza vergogna tutto quello che è successo, solo così potrò azzerare per poi ricominciare daccapo...e allora sei d'accordo? ci stai a questo giochetto? ci stai a scancellarti da ogni dove? grazie gesù mio, adesso schiodati dalla croce e scomparisci, per favore.
[...]
ecco fatto, mi sono messo il cuore in pace, gesù mio, ti ho raccontato la prima tragedia, da domani, nel mio racconto, ci sarà solo spazio per la seconda: dammi la forza, gesù mio, dammi la serenità, gesù mio, dammi qualsiasi altra cosa mi puoi dare, gesù mio, basta che non mi dai consigli, quelli dovevi darmeli prima, adesso non mi servono più.
Rosario Palazzolo è nato a Palermo nel ’72 e ci vive. È drammaturgo, scrittore, regista e attore. Ha fondato e dirige (con Anton Giulio Pandolfo) la Compagnia del Tratto, associazione che si occupa di nuove drammaturgie e nuove musiche. Per il teatro ha scritto: Ciò che accadde all’improvviso, I tempi stanno per cambiare (con Luigi Bernardi), Ouminicch’ e ’A Cirimonia, vincitore del Fringe al 18° Festival Internazionale del Teatro di Lugano. Nel 2006 ha vinto il Premio Lama e Trama con il racconto a N. Nel 2007 è uscito il suo primo libro, L’ammazzatore (Perdisa Pop).
lunedì 13 settembre 2010
(cosa leggere per evitare encefaliti fabiovoliste). parte uno.
"Non so perchè", le dice arrivandole di fianco, "però quando piove io sono sempre preoccupato".
"Di che?", Marianna gli guarda le mani.
"Beh, ogni volta per cose diverse", fa lui. Sorride. "Ma in genere diciamo che penso alla dipartita finale, cioè alla morte, ecco, il decesso mi preoccupa sempre. Ma non capire male, in verità provo un gran sollievo se penso che sarò divorato dai vermi eccetera. Piuttosto quello che mi preoccupa è verificare le condizioni dell'attesa. Guardarmi intorno in previsione, capisci? Allora mi preoccupo per, che ne so, le condizioni del Paese, dell'Occidente tutto, cazzo, è una cosa che mi sfinisce. Sono preoccupato per il pianeta, anche. Ecologicamente preoccupato. Ho proprio paura. Delle bombe sui treni, dello scioglimento dei ghiacciai, dei cibi transgenici. Del cancro. Di tutte le malattie. Di cadere nelle trappole. Di cosa mettono nei miei biscotti. E dell'inflazione. Ho paura dei soldi e della povertà. Della ricchezza e di restare solo. O magari di esserlo sempre stato. Ho paura di dormire, certe volte. Oppure di essere sgozzato in un vicolo per pochi euro. C'è stato un periodo in cui credevo di essere innamorato di una ragazza che mi trattava male. Ero distrutto da questo. Lei dormiva con me ma non voleva toccarmi, passavo la notte ad accarezzarla e lei se ne stava girata con la faccia dall'altra parte del cuscino, immobile. Mi facevano male i testicoli. Potevo diventare pazzo. Quella ragazza si mise a scopare con un mio amico, alla fine. Si strusciavano davanti a me e io ero certo che fosse un problema di soldi. La cosa assurda è che forse era proprio così. Perchè lui era ricco di famiglia. Ogni volta che ripenso a certe cose, ogni volta che mi guardo intorno con un certo distacco, vedo robe impossibili ma vere. Sono sbalordito dall'accanimento terapeutico, per dire. Mi inorridiscono gli ottimisti. Disprezzo le persone di successo ma soprattutto chi le ammira. Mi terrorizza il papa, sono anzi sgomentato dal pontefice. Voglio dire da tutti i leader. Delle certezze che ondeggiano sotto le loro finestre. E poi c'è la faccenda della vecchiaia e con la vecchiaia torniamo al punto di partenza, vale a dire la morte".
Antonio Paolacci è nato nel 1974. Ha vissuto a Torre Orsaia (SA) fino alla fine del liceo, poi si è trasferito a Bologna, dove vive tutt'ora. Si è laureato in Discipline dello Spettacolo. Ha tenuto lezioni all'università e scritto articoli sul cinema. È stato lettore in casa editrice e ha collaborato con alcune agenzie letterarie. Dal 2008 coordina le giurie del premio "Lama e trama" e ha avviato un proprio studio editoriale. Un suo racconto è apparso nell'antologia Amore e altre passioni (Zona, 2005). Flemma è il suo primo romanzo.
"Di che?", Marianna gli guarda le mani.
"Beh, ogni volta per cose diverse", fa lui. Sorride. "Ma in genere diciamo che penso alla dipartita finale, cioè alla morte, ecco, il decesso mi preoccupa sempre. Ma non capire male, in verità provo un gran sollievo se penso che sarò divorato dai vermi eccetera. Piuttosto quello che mi preoccupa è verificare le condizioni dell'attesa. Guardarmi intorno in previsione, capisci? Allora mi preoccupo per, che ne so, le condizioni del Paese, dell'Occidente tutto, cazzo, è una cosa che mi sfinisce. Sono preoccupato per il pianeta, anche. Ecologicamente preoccupato. Ho proprio paura. Delle bombe sui treni, dello scioglimento dei ghiacciai, dei cibi transgenici. Del cancro. Di tutte le malattie. Di cadere nelle trappole. Di cosa mettono nei miei biscotti. E dell'inflazione. Ho paura dei soldi e della povertà. Della ricchezza e di restare solo. O magari di esserlo sempre stato. Ho paura di dormire, certe volte. Oppure di essere sgozzato in un vicolo per pochi euro. C'è stato un periodo in cui credevo di essere innamorato di una ragazza che mi trattava male. Ero distrutto da questo. Lei dormiva con me ma non voleva toccarmi, passavo la notte ad accarezzarla e lei se ne stava girata con la faccia dall'altra parte del cuscino, immobile. Mi facevano male i testicoli. Potevo diventare pazzo. Quella ragazza si mise a scopare con un mio amico, alla fine. Si strusciavano davanti a me e io ero certo che fosse un problema di soldi. La cosa assurda è che forse era proprio così. Perchè lui era ricco di famiglia. Ogni volta che ripenso a certe cose, ogni volta che mi guardo intorno con un certo distacco, vedo robe impossibili ma vere. Sono sbalordito dall'accanimento terapeutico, per dire. Mi inorridiscono gli ottimisti. Disprezzo le persone di successo ma soprattutto chi le ammira. Mi terrorizza il papa, sono anzi sgomentato dal pontefice. Voglio dire da tutti i leader. Delle certezze che ondeggiano sotto le loro finestre. E poi c'è la faccenda della vecchiaia e con la vecchiaia torniamo al punto di partenza, vale a dire la morte".
Antonio Paolacci è nato nel 1974. Ha vissuto a Torre Orsaia (SA) fino alla fine del liceo, poi si è trasferito a Bologna, dove vive tutt'ora. Si è laureato in Discipline dello Spettacolo. Ha tenuto lezioni all'università e scritto articoli sul cinema. È stato lettore in casa editrice e ha collaborato con alcune agenzie letterarie. Dal 2008 coordina le giurie del premio "Lama e trama" e ha avviato un proprio studio editoriale. Un suo racconto è apparso nell'antologia Amore e altre passioni (Zona, 2005). Flemma è il suo primo romanzo.
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