venerdì 17 settembre 2010

(perchè secondo me d.f. wallace scriveva tra un aereoporto e un fast-food).


Perdere le coincidenze tra un treno e un altro è una delle disavventure più esilaranti in cui può incappare un pendolare. Per la gran parte della gente resta solo una seccatura inenarrabile, uno di quei tempi morti che non hai idea di come ammazzare se non ingurgitando compulsivamente caffè solubile nei bar e fissando i barboni sdraiati sulle panchine, mentre pensi con sollievo che la tua situazione di viaggiatore nomade almeno è una condizione temporanea. quotidiana, certo, ma almeno limitata a un certo arco di tempo della giornata. poi c'è sempre il treno, quell'ora o due di viaggio dentro un buco temporale e via di nuovo coi piedi ben piantati sul proprio pavimento di casa- che io ancora non me lo spiego come si possano chiamar casa quattro pareti cementate insieme in cui dormi sì e no otto ore al giorno e poi tiri di nuovo le tende.
Ecco, io non l'ho mai vista propriamente in questi termini. Sarà uno di quei clichè da poesia tardo-romantica, ma le stazioni e tutto quello che ci gira intorno sono ancora luoghi che riescono ad esercitare un fascino estremo su di me, tirano fuori il meglio delle mie psicosi e della mia tendenza a sociologizzare ogni angolo di mondo.
Ve lo dico da pendolare che passa minimo due ore al giorno su un treno.
Io ho perso coincidenze volontariamente, quando il tempo me lo permetteva.
E credo che ci siano un mucchio di motivi per farlo.
A me, per esempio, non capita troppo spesso di voler tornare a casa, perciò cerco di prendere tempo in ogni modo possibile. e vagabondare per le stazioni e per i sottopassaggi ferroviari e metropolitani è un'esperienza che bisognerebbe imporsi di tanto in tanto.
perchè, vedete, ci sono posti che a me piace definire come non-luoghi. non sono spazi dai confini definiti, stabili, immutabili. non ci sono strisce a delimitarne i contorni con esattezza. cambiano di continuo, non sono mai uguali a se stessi, perchè costantemente cambia la gente che li attraversa. i viaggiatori delle metropolitane, più che mai, acquisiscono il ruolo di non-persone in questi non-luoghi. corrono, ansimano, si affannano, trasportano valigie, carri merci, bambini, valigette da milioni di dollari attraverso atomi di pieni e vuoti, come bolle di sapone che si espandono e si bucano da un secondo all'altro.

la vita metropolitana viene da molti visti come un'efficace metafora della vita di tutti i giorni nel mondo moderno. quella sopra la terra, intendo. ma in realtà c'è qualcosa di diverso. e riguarda la solitudine. o meglio, il modo in cui le persone si pongono in relazione ad essa.
la solitudine è di base condizione permanente del viaggiatore.il viaggiatore è nomade, è zingaro, coltiva e soffre del suo spirito gitano. muove i suoi passi attraverso luoghi che non gli sono familiari, posti che non gli apparterrano mai, su cui poserà gli occhi una sola volta nella sua vita, magari. senza lasciare un segno del suo passaggio, perchè lo spazio pieno riempito dal suo corpo cederà posto a un nuovo vuoto che sarà riempito poi da un nuovo corpo di passaggio a permanenza provvisoria e così via.

per questo la solitudine non è vista necessariamente come un male. come un marchio che mette al margine, che isola, che è agente infettivo ed epidemico. perchè è un tratto comune a molti di coloro che si spostano nel mondo. che è anche il motivo per cui, se vai da solo ad un mcdonald's della stazione termini, nessuno ti guarderà con sospetto: ti siederai ad un tavolo da due, poserai borse, bagagli e zaini sull'altra sedia e inizierai a masticare pesticidi chimici e tossine, lasciando che ti attraversi la chiara sensazione di star avviando un percorso di autodistruzione fisiologica del tuo corpo. che, alle volte, è una percezione necessaria alla tua voglia di vittimismo e alla tua tendenza al masochismo.
prova a fare la stessa cosa in un mcdonald's sopra il livello del mare. non è così che funziona. alla luce del sole, tu sei da solo e tutti lo notano. non sei più un viaggiatore, non stai transitando attraverso non-spazi. sei in uno spazio pieno e rubi un tavolo da due, quando ti basterebbe uno sgabello. non puoi farci niente, vieni allontanato, seppure con lo sguardo, smetti di essere calcolato o vieni considerato come un elemento di disturbo, una fonte inesauribile di preoccupazione. la gente intorno a te in coppia, in gruppi da tre, da sei, da dodici, inizierà a vederti come un possibile attentatore, un rapinatore armato o un probabile omicida come nei peggiori film horror (che a fare il killer in un mcdonald's bisogna aver toccato il fondo, neh.) sei drammaticamente solo e non appartieni a nessun posto, mettitelo in testa.
perciò vi dico, provate, gente. buttatevi tra i binari di una metropolitana, mettetevi in un angolo, iniziate a scrutare le persone. in tutte le loro solitudini. e prendete appunti, non dimenticate.
potrebbe venir fuori il non-romanzo del secolo.

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