martedì 13 luglio 2010
Review di "360 gradi di rabbia", E. Mearini, a cura di Giulia Guida.
Parla del corpo di una donna. Esasperato, mutilato, raschiato attraverso gli anni.Parla di polmoni compressi, senza più aria incontaminata dall’ossessione. Di uno stomaco chiuso a lucchetto senza più chiave. Di muscoli sfibrati. Di due dita in gola per espiare il senso di colpa. Di un paio di fianchi scavati fino all’osso come terra carsica. Di gambe lunghissime che hanno dimenticato la direzione giusta da prendere, di pelle seccata dalla mancanza d’acqua, di capelli corvini, ormai radi, sottili filamenti di cellulosa, appiattiti contro la testa. Parla di un corpo schedato come già deceduto in una serie di cifre da referto medico: 35 chili per 1.70 di altezza. Se continui così, morirai. Se continui così, svanirai, evaporerai, evacuerai quel poco di te che non ti è riuscito di biodegradare su questa terra. Un cumulo di ossa e di vestiti taglia 34-36. Parla di un corpo e di pensieri che non combaceranno mai. E attraverso il corpo descrive la vita del sangue che rallenta, del respiro che interrompe la gola, dei crampi che spezzano un utero freddo da camera mortuaria.
360 gradi di rabbia su "Liberi di Scrivere".
lunedì 5 luglio 2010
"¡Tu la pagaràs!": review a cura di Giulia Guida.
Mentre il suo corpo si trasfigura, riesce a sentirsi al centro e alla deriva di ogni cosa, perde il contatto con la realtà che la circonda, sente il battito del suo cuore sempre più veloce, che le ricorda che non sarà mai viva come in quei momenti. Perciò si fa dea tribale, fenice immortale, amazzone rapace, grido di guerra. E balla. Sotto il sole artificiale di una discoteca di Bologna, mentre il tempo si scheggia, gli spazi si mescolano, i corpi si sfiorano, i ballerini in pista cambiano maschera, almeno per una sera avranno un altro nome, un'identità diversa, una storia da raccontare che non sia quella della propria vita. E la Guerrera cambia forma: i muscoli si distendono, i tendini si sfilacciano, il sangue diventa elettrico. Elisa è pura energia, Basilica ne è come aggredito. E' più di una donna, è una forza primitiva, un terremoto delle viscere, è una femmina di lupo. Inavvicinabile.
"¡Tu la pagaràs!" su Liberi di Scrivere.
"¡Tu la pagaràs!" su Liberi di Scrivere.
sabato 3 luglio 2010
Un racconto da "Istruzioni per un addio", L. Carrino.
NELLA FAME NELLA SETE
Nico disse al telefono che avrebbe vissuto a lungo in quella casa, che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che dopotutto non c’era bisogno di lasciarla. Nico capì anche, nello stesso momento, che il sangue gli scorreva troppo denso nelle vene e fuori qualcosa moriva. L’ombra di Nico si fermò a pensare tutto il suo sudore con un gesto noncurante sulla parete di fronte, un movimento che somigliava a tutta la bellezza dell’altro al telefono, al di sopra dell‘afa. Ma poi Betta la gatta, non smetteva di miagolare. Forse la fame. Certamente la sete e fuori qualcosa cadeva. Nico staccò la sua ombra dalla parete, si girò di spalle e portò il pollice destro alla bocca.
Un altro giorno d’estate stava passando, sicuro, lasciando traccia sulle cime dei platani in agosto, la lettiera sporca da due settimane, la brocca per l’acqua sul tavolo, in cucina, senza più ghiaccio. E poi la sete di Betta, la sete della pianta del caffè, nel salone, e la sete dei cani senza padrone giù, nel parco di sotto, che guaiva.
La voce al telefono disse che andarsene, andarsene ‘per sempre‘, era come andarsene senza portare via niente, alla rinfusa, niente scatole, niente da toccare, e tutto restava così com’è, così com‘era, senza spostare nulla. Così era come non andarsene mai, ed era vero soprattutto per chi partiva per sempre.
Ma poi Betta la gatta, non smetteva di bere dalla sua ciotola rossa, non smetteva di bere e di miagolare. Certamente anche la fame.
Nico pensò che doveva tagliarsi i capelli, chiudere Betta nel freezer, riparare la vecchia Suzuki, passare in pasticceria a prendere la torta mimosa per il suo compleanno, il compleanno dell‘altro. Ma l’altro, al telefono, domandò che ora si era fatta, e il pomeriggio se ne era andato già da un pezzo e stava arrivando la sera.
Nico pensò di partire. Di restare. La sete. La brocca vuota, senza ghiaccio. Nico disse: “È colpa mia”. L’altro, al telefono, con ironia constatò: “Alleluia”, e Nico pensò all’ira di Dio, all’acqua che non si poteva più bere, sul tavolo, ormai definitivamente calda, e al sole che si buttava veloce dietro il palazzo di fronte, precipitandolo in fretta davanti all’ultima luce, trasformandolo in un brutto mostro grigio.
L’ombra di Nico sulla parete di fronte fece una smorfia di sudore, non aveva più nessuna intenzione di tenere incollata la cornetta del telefono all’orecchio mentre il motore di una moto copriva tutte le parole. Forse c’era da capirsi nelle cose da dire, decidere come portare via la pianta del caffè dal salone, quel quadro arancione e blu di cinque figure che danzano nell’infinito di un abbraccio, sempre dal salone, forse c’era da chiedergli se gli andava di riempire quella brocca vuota sul tavolo e di aggiungere del ghiaccio, se ancora ne era rimasto, di pulire la lettiera di Betta, mettere a posto il disco di Morgan macchiato di caffè, quello dell’altra storia, quello che era rimasto sullo stereo dalla fine dell‘altra storia, vicino alla brocca, prima che facesse freddo, prima che facesse notte e arrivasse tutto questo caldo di sera.
Invece si trattava soltanto di partire e di mangiare, solo di andare via e di bere, e non tonare mai più.
L’altro disse al telefono che sarebbe stato inevitabile, a lungo andare. C’era stato tutto, ma tutti prima o poi se ne vanno.
Nico pensò che lui non se ne sarebbe mai andato da nessuna parte, da nessuno, da niente. Perché prima di partire ci aveva sempre pensato, e non si era mai mosso di un istante. Lui sarebbe sempre stato quello che resta, quello che rimane. Nico pensò che era naturale, per lui, restare. Non partire. Come la pianta del caffè assetata. Forse dell’acqua, alla pianta del caffè, bisognava comunque darla o del sangue di bue, per fertilizzarla.
Nel salone Nico sentiva puzza di caffè bruciato, di sigarette morte e di cenere stantia, mentre di là in cucina qualcosa cadeva dal lavello. Si rese conto che la carta da parati era da cambiare. Diede un calcio a Betta che miagolava la fame e la sete adesso, nel salone, ma se ne pentì immediatamente.
Da qualche parte, un giorno d’estate stava passando senza lasciare traccia sulla superficie del mare. Nico pensò che un tempo il mare era pazzo di lui. Adesso era una tavola di quiete, anche d‘inverno, e poi d‘estate lui no, non ci sarebbe mai andato. Nico pensò che pure il mare era invecchiato e non aveva più nessun senso guardare il mare a ottobre, senza interrompere gli occhi nemmeno per la luce che finiva per mancare. E allora gli venne da piangere per tutta questa improvvisa oscurità, ma non voleva sapere niente della ragione del suo pianto e delle pareti di casa sua, pieni di disegni, di frasi, con la pianta del caffè che cercava di raggiungere le parole scritte più in alto, né di gatte miagolanti la sete, la fame.
La voce al telefono disse che piangere, piangere non era cosa da uomini e che, alla fine, se cominci a piangere, ti viene da piangere sempre di più. Tanto vale non farlo, allora.
Nico pensò allo spazzolino da solo, nel bicchiere in bagno, allo scarico che perdeva da tre mesi e alla bolletta dell’acqua. Ma non pensò alle lacrime, né aveva voglia di piangere per questo. Allora Nico si chiamò con la prima parola che aveva pronunciato, la prima cosa che gli venne in mente e che non era il suo nome ma la ragione della sua presenza nel mondo, come se avesse voluto chiedere aiuto, e non realizzò che aveva soltanto fame e perciò se ne stette in silenzio per un po’, al telefono. Se ne stava in silenzio, e ascoltava. L’altro, al telefono, domandò infine se c’erano ancora spese da pagare. Nico pensò alla voce di sua nonna, la nonna che cantava ninnenanne a bocca sdentata, tanto che tutte le parole sembravano uguali. Ma lui le capiva tutte, non erano uguali le parole di sua nonna. E che la fame, la sete, non ti fanno smettere di cantare, anche se non puoi più bere da solo, mangiare.
Nico disse: “Non tornerai più”. L’altro, al telefono, disse solo: “No, non tornerò”, e Nico pensò di andare al mare. Ma non era ottobre. Ci ripensò. Agosto no. La sua ombra sulla parete di fronte diceva qualcosa in silenzio, e Nico pensò che non avrebbe mai lasciato il pavimento sporco di sangue.
Riattaccò il telefono, non prima di salutare, non prima di dire: “Mi mancherai”.
Nico pensò che aveva sempre detto così a quelli che se n’erano andati. Nico pensò di essere vecchio. Si disintegrava nel calore, si squagliava, si spargeva senza soluzione di continuità nello spazio che doveva occupare per onorare la vita che aveva. Pesava sulla faccia, più di tutte quelle mancanze, più di tutta l’afa che gli scendeva dalle tempie, ripensarsi nel momento preciso in cui aveva pronunciato ‘mi mancherai’, nell‘attimo esatto in cui aveva detto, tante volte, ‘è colpa mia’, il segno dei ‘non tornerai’ che aveva detto a bocca chiusa. Più di tutto era questo, era rivedersi da fuori con un telefono in mano, con gli occhi in mano, con la bocca in mano, le mani in mano, mentre il mare restava una tavola di quiete, senza più rabbia o tempesta, senza una festa pazza di onde, senza che da qualche parte l’acqua sciogliesse finalmente tutti i legami dei suoi idrogeni.
Nico andò in cucina, prese una scatoletta di pollo dal vecchio mobile in formica e l’aprì. La versò nella ciotola blu di Betta. La fame. Lei era timorosa di avvicinarsi, ma aveva fame. Di sicuro aveva anche sete, la ciotola rossa era vuota da molti giorni. Nico le fece una carezza ed ebbe un déjà vu, qualcosa che aveva accarezzato allo stesso modo, la pelliccia tigrata di Betta o in macchina, una sera, le dita dell’altro mentre diceva qualcosa di suo padre, mentre c‘era un‘estate furiosa che smetteva l‘ora legale.
Poi tornò in salone e cominciò a togliere la carta da parati con l’apriscatole. Inutilmente cercava di togliere quell’obbrobrio di colore, quel pasticciaccio metropolitano di disegni, sulle pareti. Allora pensò di andare al mare ma era estate. E d’estate Nico non amava il mare, la gente, il sole forte, la sera che non arrivava mai, la fame, la sete. Allora pensò al mestiere di vivere, ma si sentì mezza lucertola al sole e mezzo Cesare Pavese, non aveva voglia di muoversi, forse scrivere sì, ma la fame, la sete e si sentì come sempre. Come ogni volta.
Nico pensò che gli uomini non capiscono. Basta essere niente, basta essere due parole, quello che conta quando lo si vede, apparire. Nico pensò che era troppo tragico, melodrammatico, mentre le ombre fuggivano dalle sue mani e si incollavano ai muri del salone, i flutti del sangue, il corpo di Betta fatto a piccoli pezzi per poterla finalmente congelare, e tutte le cose che avrebbe voluto dire e non aveva mai avuto il coraggio di dire sparse sul pavimento.
Nico pensò di seguire lo sguardo fuori dal balcone, dal settimo piano, e per una volta gli sembrò di sentirsi accolto, pieno d’amore, senza fame e senza sete. Che poi è tutto quello che conta, che poi è il bisogno minimo che necessita soddisfare per sopravvivere. Se non hai fame e se non hai sete, puoi comunque continuare a vivere.
Allora si lanciò, nell’aria sentiva il suo stesso sorriso sciocco. Pensò alla povera Betta, al mare di ottobre, alle cose che restano, che restano a terra come macchie di sangue e non vanno più via, e che avrebbe voluto almeno lavare il pavimento.
Nico pensò che a volte il vento sulle cime degli alberi, in agosto, a volte è gentile, gentile anche con la superficie del mare.
Mentre scivolava nell’aria, Nico pensò che era rimasta la bolletta dell’ultimo condominio da pagare. Che
avrebbe dovuto dirlo, all‘altro.
Che peccato, poi pensò Nico, non andare al mare, è così lontano ottobre, pensò.
E mentre scivolava nell’aria, fece un sorriso sciocco. Gli era venuta in mente una canzone di Fred Buscaglione sulla luna e sul mare, e mentre pensava che proprio questo sarebbe stato l’ultimo pensiero suo, prima degli ultimi secondi, nel sangue, arrivato a terra dal settimo piano, pensò che si era sbagliato e che era riuscito a fare almeno quest’altro pensiero.
ISTRUZIONI PER UN ADDIO, Azimut (2010)
Nico disse al telefono che avrebbe vissuto a lungo in quella casa, che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che dopotutto non c’era bisogno di lasciarla. Nico capì anche, nello stesso momento, che il sangue gli scorreva troppo denso nelle vene e fuori qualcosa moriva. L’ombra di Nico si fermò a pensare tutto il suo sudore con un gesto noncurante sulla parete di fronte, un movimento che somigliava a tutta la bellezza dell’altro al telefono, al di sopra dell‘afa. Ma poi Betta la gatta, non smetteva di miagolare. Forse la fame. Certamente la sete e fuori qualcosa cadeva. Nico staccò la sua ombra dalla parete, si girò di spalle e portò il pollice destro alla bocca.
Un altro giorno d’estate stava passando, sicuro, lasciando traccia sulle cime dei platani in agosto, la lettiera sporca da due settimane, la brocca per l’acqua sul tavolo, in cucina, senza più ghiaccio. E poi la sete di Betta, la sete della pianta del caffè, nel salone, e la sete dei cani senza padrone giù, nel parco di sotto, che guaiva.
La voce al telefono disse che andarsene, andarsene ‘per sempre‘, era come andarsene senza portare via niente, alla rinfusa, niente scatole, niente da toccare, e tutto restava così com’è, così com‘era, senza spostare nulla. Così era come non andarsene mai, ed era vero soprattutto per chi partiva per sempre.
Ma poi Betta la gatta, non smetteva di bere dalla sua ciotola rossa, non smetteva di bere e di miagolare. Certamente anche la fame.
Nico pensò che doveva tagliarsi i capelli, chiudere Betta nel freezer, riparare la vecchia Suzuki, passare in pasticceria a prendere la torta mimosa per il suo compleanno, il compleanno dell‘altro. Ma l’altro, al telefono, domandò che ora si era fatta, e il pomeriggio se ne era andato già da un pezzo e stava arrivando la sera.
Nico pensò di partire. Di restare. La sete. La brocca vuota, senza ghiaccio. Nico disse: “È colpa mia”. L’altro, al telefono, con ironia constatò: “Alleluia”, e Nico pensò all’ira di Dio, all’acqua che non si poteva più bere, sul tavolo, ormai definitivamente calda, e al sole che si buttava veloce dietro il palazzo di fronte, precipitandolo in fretta davanti all’ultima luce, trasformandolo in un brutto mostro grigio.
L’ombra di Nico sulla parete di fronte fece una smorfia di sudore, non aveva più nessuna intenzione di tenere incollata la cornetta del telefono all’orecchio mentre il motore di una moto copriva tutte le parole. Forse c’era da capirsi nelle cose da dire, decidere come portare via la pianta del caffè dal salone, quel quadro arancione e blu di cinque figure che danzano nell’infinito di un abbraccio, sempre dal salone, forse c’era da chiedergli se gli andava di riempire quella brocca vuota sul tavolo e di aggiungere del ghiaccio, se ancora ne era rimasto, di pulire la lettiera di Betta, mettere a posto il disco di Morgan macchiato di caffè, quello dell’altra storia, quello che era rimasto sullo stereo dalla fine dell‘altra storia, vicino alla brocca, prima che facesse freddo, prima che facesse notte e arrivasse tutto questo caldo di sera.
Invece si trattava soltanto di partire e di mangiare, solo di andare via e di bere, e non tonare mai più.
L’altro disse al telefono che sarebbe stato inevitabile, a lungo andare. C’era stato tutto, ma tutti prima o poi se ne vanno.
Nico pensò che lui non se ne sarebbe mai andato da nessuna parte, da nessuno, da niente. Perché prima di partire ci aveva sempre pensato, e non si era mai mosso di un istante. Lui sarebbe sempre stato quello che resta, quello che rimane. Nico pensò che era naturale, per lui, restare. Non partire. Come la pianta del caffè assetata. Forse dell’acqua, alla pianta del caffè, bisognava comunque darla o del sangue di bue, per fertilizzarla.
Nel salone Nico sentiva puzza di caffè bruciato, di sigarette morte e di cenere stantia, mentre di là in cucina qualcosa cadeva dal lavello. Si rese conto che la carta da parati era da cambiare. Diede un calcio a Betta che miagolava la fame e la sete adesso, nel salone, ma se ne pentì immediatamente.
Da qualche parte, un giorno d’estate stava passando senza lasciare traccia sulla superficie del mare. Nico pensò che un tempo il mare era pazzo di lui. Adesso era una tavola di quiete, anche d‘inverno, e poi d‘estate lui no, non ci sarebbe mai andato. Nico pensò che pure il mare era invecchiato e non aveva più nessun senso guardare il mare a ottobre, senza interrompere gli occhi nemmeno per la luce che finiva per mancare. E allora gli venne da piangere per tutta questa improvvisa oscurità, ma non voleva sapere niente della ragione del suo pianto e delle pareti di casa sua, pieni di disegni, di frasi, con la pianta del caffè che cercava di raggiungere le parole scritte più in alto, né di gatte miagolanti la sete, la fame.
La voce al telefono disse che piangere, piangere non era cosa da uomini e che, alla fine, se cominci a piangere, ti viene da piangere sempre di più. Tanto vale non farlo, allora.
Nico pensò allo spazzolino da solo, nel bicchiere in bagno, allo scarico che perdeva da tre mesi e alla bolletta dell’acqua. Ma non pensò alle lacrime, né aveva voglia di piangere per questo. Allora Nico si chiamò con la prima parola che aveva pronunciato, la prima cosa che gli venne in mente e che non era il suo nome ma la ragione della sua presenza nel mondo, come se avesse voluto chiedere aiuto, e non realizzò che aveva soltanto fame e perciò se ne stette in silenzio per un po’, al telefono. Se ne stava in silenzio, e ascoltava. L’altro, al telefono, domandò infine se c’erano ancora spese da pagare. Nico pensò alla voce di sua nonna, la nonna che cantava ninnenanne a bocca sdentata, tanto che tutte le parole sembravano uguali. Ma lui le capiva tutte, non erano uguali le parole di sua nonna. E che la fame, la sete, non ti fanno smettere di cantare, anche se non puoi più bere da solo, mangiare.
Nico disse: “Non tornerai più”. L’altro, al telefono, disse solo: “No, non tornerò”, e Nico pensò di andare al mare. Ma non era ottobre. Ci ripensò. Agosto no. La sua ombra sulla parete di fronte diceva qualcosa in silenzio, e Nico pensò che non avrebbe mai lasciato il pavimento sporco di sangue.
Riattaccò il telefono, non prima di salutare, non prima di dire: “Mi mancherai”.
Nico pensò che aveva sempre detto così a quelli che se n’erano andati. Nico pensò di essere vecchio. Si disintegrava nel calore, si squagliava, si spargeva senza soluzione di continuità nello spazio che doveva occupare per onorare la vita che aveva. Pesava sulla faccia, più di tutte quelle mancanze, più di tutta l’afa che gli scendeva dalle tempie, ripensarsi nel momento preciso in cui aveva pronunciato ‘mi mancherai’, nell‘attimo esatto in cui aveva detto, tante volte, ‘è colpa mia’, il segno dei ‘non tornerai’ che aveva detto a bocca chiusa. Più di tutto era questo, era rivedersi da fuori con un telefono in mano, con gli occhi in mano, con la bocca in mano, le mani in mano, mentre il mare restava una tavola di quiete, senza più rabbia o tempesta, senza una festa pazza di onde, senza che da qualche parte l’acqua sciogliesse finalmente tutti i legami dei suoi idrogeni.
Nico andò in cucina, prese una scatoletta di pollo dal vecchio mobile in formica e l’aprì. La versò nella ciotola blu di Betta. La fame. Lei era timorosa di avvicinarsi, ma aveva fame. Di sicuro aveva anche sete, la ciotola rossa era vuota da molti giorni. Nico le fece una carezza ed ebbe un déjà vu, qualcosa che aveva accarezzato allo stesso modo, la pelliccia tigrata di Betta o in macchina, una sera, le dita dell’altro mentre diceva qualcosa di suo padre, mentre c‘era un‘estate furiosa che smetteva l‘ora legale.
Poi tornò in salone e cominciò a togliere la carta da parati con l’apriscatole. Inutilmente cercava di togliere quell’obbrobrio di colore, quel pasticciaccio metropolitano di disegni, sulle pareti. Allora pensò di andare al mare ma era estate. E d’estate Nico non amava il mare, la gente, il sole forte, la sera che non arrivava mai, la fame, la sete. Allora pensò al mestiere di vivere, ma si sentì mezza lucertola al sole e mezzo Cesare Pavese, non aveva voglia di muoversi, forse scrivere sì, ma la fame, la sete e si sentì come sempre. Come ogni volta.
Nico pensò che gli uomini non capiscono. Basta essere niente, basta essere due parole, quello che conta quando lo si vede, apparire. Nico pensò che era troppo tragico, melodrammatico, mentre le ombre fuggivano dalle sue mani e si incollavano ai muri del salone, i flutti del sangue, il corpo di Betta fatto a piccoli pezzi per poterla finalmente congelare, e tutte le cose che avrebbe voluto dire e non aveva mai avuto il coraggio di dire sparse sul pavimento.
Nico pensò di seguire lo sguardo fuori dal balcone, dal settimo piano, e per una volta gli sembrò di sentirsi accolto, pieno d’amore, senza fame e senza sete. Che poi è tutto quello che conta, che poi è il bisogno minimo che necessita soddisfare per sopravvivere. Se non hai fame e se non hai sete, puoi comunque continuare a vivere.
Allora si lanciò, nell’aria sentiva il suo stesso sorriso sciocco. Pensò alla povera Betta, al mare di ottobre, alle cose che restano, che restano a terra come macchie di sangue e non vanno più via, e che avrebbe voluto almeno lavare il pavimento.
Nico pensò che a volte il vento sulle cime degli alberi, in agosto, a volte è gentile, gentile anche con la superficie del mare.
Mentre scivolava nell’aria, Nico pensò che era rimasta la bolletta dell’ultimo condominio da pagare. Che
avrebbe dovuto dirlo, all‘altro.
Che peccato, poi pensò Nico, non andare al mare, è così lontano ottobre, pensò.
E mentre scivolava nell’aria, fece un sorriso sciocco. Gli era venuta in mente una canzone di Fred Buscaglione sulla luna e sul mare, e mentre pensava che proprio questo sarebbe stato l’ultimo pensiero suo, prima degli ultimi secondi, nel sangue, arrivato a terra dal settimo piano, pensò che si era sbagliato e che era riuscito a fare almeno quest’altro pensiero.
ISTRUZIONI PER UN ADDIO, Azimut (2010)
venerdì 2 luglio 2010
Prima recensione su "Mano nera", A. Custerlina.
Si potrebbe fare un gioco con Alberto Custerlina. Provare a togliere il suo nome dalla copertina del libro. E, poi, darlo da leggere a un gruppetto di fan incalliti dei romanzi noir.
Scommettiamo? Perfino loro finirebbero per dire che quella storia l’ha scritta qualche giovane talento americano. O, al massimo, un inglese, un francese davvero di buon livello.
E proprio qui sta il bello: Alberto Custerlina è «nato a Trieste, sull’orlo dei Balcani», come ama dire lui stesso. Però, credete, quando si mette a scrivere storie noir non è secondo a nessuno. Lo ha dimostrato con il romanzo d’esordio, quel ”Balkan Bang!” che, dopo essere uscito da Perdisa Pop con la benedizione di Luigi Bernardi, è approdato nella collana ”Segretissimo” diretta da Alan D. Altieri.
E lo conferma adesso con il secondo, nuovissimo lavoro intitolato ”Mano Nera” (pagg. 173, euro 13,00), che la casa editrice Baldini Castoldi Dalai manderà nelle librerie da martedì.
Keep on reading here.
Scommettiamo? Perfino loro finirebbero per dire che quella storia l’ha scritta qualche giovane talento americano. O, al massimo, un inglese, un francese davvero di buon livello.
E proprio qui sta il bello: Alberto Custerlina è «nato a Trieste, sull’orlo dei Balcani», come ama dire lui stesso. Però, credete, quando si mette a scrivere storie noir non è secondo a nessuno. Lo ha dimostrato con il romanzo d’esordio, quel ”Balkan Bang!” che, dopo essere uscito da Perdisa Pop con la benedizione di Luigi Bernardi, è approdato nella collana ”Segretissimo” diretta da Alan D. Altieri.
E lo conferma adesso con il secondo, nuovissimo lavoro intitolato ”Mano Nera” (pagg. 173, euro 13,00), che la casa editrice Baldini Castoldi Dalai manderà nelle librerie da martedì.
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M. Oliva su "!Tu la pagaràs!", in uscita il 7 luglio per Elliot.
IL ROMANZO
Carissimi, vi anticipo alcuni aspetti del mio nuovo romanzo, ¡Tu la pagaràs! (Elliot Edizioni), che sarà in libreria dal 7 luglio. Ho collocato circa metà della narrazione nelle notti salsere di Bologna, in ambienti che conosco bene perché li frequentavo fino a una decina d’anni fa. Questa scelta è dovuta alla mia profonda passione per l’America latina e per la salsa. Ovviamente, trattandosi di un romanzo noir, le atmosfere sono cupe, i personaggi tendono al negativo anche laddove nel mio intimo li salvo. Questo soprattutto perché volevo mantenere il più possibile l’attinenza alla realtà, l’intento era scrivere un romanzo che fosse un tributo alle imperfezioni. Come ho già sottolineato in altre sedi, qui sono tutti imperfetti, fisicamente e/o moralmente e a volte, ma non sempre, il difetto fisico è indizio di una bassa caratura morale.
Primissime Pagine: Dopo una notte di salsa, quando la sala sta chiudendo e non è rimasto quasi nessuno, viene trovato il cadavere di Thomàs Delgado, il barista cubano, ucciso in maniera impressionante, con modalità in apparenza collegate al rituale religioso della santeria cubana.
Partono così le indagini che schiacciano il giallo in secondo piano, per dare risalto ai personaggi, all’azione, agli intrighi e a qualche combattimento di capoeira.
I PERSONAGGI
Il protagonista maschile, Gabriele Basilica, è lo stesso di Repetita.
La protagonista femminile, La Guerrera, è, come recita la quarta, una donna: «disincantata, scanzonata, impulsiva, un po’ vanitosa, un po’ maschiaccio, vera salsera, spirito combattivo, lavora presso una sorta di redazione- garage per un giornale diretto da un becero individuo. È guerriera di capoeira, l’arte marziale brasiliana nascosta sotto forma di danza».
La Guerrera ha una trentina d’anni, soffre di una specie di depressione confondibile con accidia, il tutto aggravato da un materialismo senza scampo e l’ho dipinta riflettendo molto sul suo aspetto fisico. L’ho voluta piccolina - come me ;-) - ma anche molto differente: ha la pelle del viso rovinata (simbolo delle cicatrici che si porta dentro), la carnagione olivastra, i capelli molto lunghi e scuri, gli occhi neri. Mi interessava proporre una donna che da un lato non corrispondesse fisicamente ad una bellezza stereotipata ma fosse interiormente molto forte. Perché lei dovrà ottemperare al suo soprannome e soprattutto dovrà portare avanti le battaglie più quotidiane delle persone comuni, in primis il lavoro. Nello stesso tempo, volevo una donna controcorrente nel rapportarsi agli uomini, una che non capitola davanti a moralismi bigotti e, quando le va, si cede con naturalezza.
Le fa da contraltare, soprattutto sul piano spirituale, l’amica Catalina, di origine portoriquena, che vive con lei. Catalina rappresenta le possibilità soprannaturali, l’affabulazione, la magia, il senso materno femminile.
Poi c’è il popolo variegato delle notti latine: insegnanti di danza, dj spocchiosi, ballerine bellissime e signore ambigue, esibizionisti, ognuno ha il suo soprannome e il tutto è condito con rituali religiosi arcani, storie di sesso torbido, gelosie e superstizioni, l’universo santero degli orishas, gli dei della santeria cubana.
Carissimi, vi anticipo alcuni aspetti del mio nuovo romanzo, ¡Tu la pagaràs! (Elliot Edizioni), che sarà in libreria dal 7 luglio. Ho collocato circa metà della narrazione nelle notti salsere di Bologna, in ambienti che conosco bene perché li frequentavo fino a una decina d’anni fa. Questa scelta è dovuta alla mia profonda passione per l’America latina e per la salsa. Ovviamente, trattandosi di un romanzo noir, le atmosfere sono cupe, i personaggi tendono al negativo anche laddove nel mio intimo li salvo. Questo soprattutto perché volevo mantenere il più possibile l’attinenza alla realtà, l’intento era scrivere un romanzo che fosse un tributo alle imperfezioni. Come ho già sottolineato in altre sedi, qui sono tutti imperfetti, fisicamente e/o moralmente e a volte, ma non sempre, il difetto fisico è indizio di una bassa caratura morale.
Primissime Pagine: Dopo una notte di salsa, quando la sala sta chiudendo e non è rimasto quasi nessuno, viene trovato il cadavere di Thomàs Delgado, il barista cubano, ucciso in maniera impressionante, con modalità in apparenza collegate al rituale religioso della santeria cubana.
Partono così le indagini che schiacciano il giallo in secondo piano, per dare risalto ai personaggi, all’azione, agli intrighi e a qualche combattimento di capoeira.
I PERSONAGGI
Il protagonista maschile, Gabriele Basilica, è lo stesso di Repetita.
La protagonista femminile, La Guerrera, è, come recita la quarta, una donna: «disincantata, scanzonata, impulsiva, un po’ vanitosa, un po’ maschiaccio, vera salsera, spirito combattivo, lavora presso una sorta di redazione- garage per un giornale diretto da un becero individuo. È guerriera di capoeira, l’arte marziale brasiliana nascosta sotto forma di danza».
La Guerrera ha una trentina d’anni, soffre di una specie di depressione confondibile con accidia, il tutto aggravato da un materialismo senza scampo e l’ho dipinta riflettendo molto sul suo aspetto fisico. L’ho voluta piccolina - come me ;-) - ma anche molto differente: ha la pelle del viso rovinata (simbolo delle cicatrici che si porta dentro), la carnagione olivastra, i capelli molto lunghi e scuri, gli occhi neri. Mi interessava proporre una donna che da un lato non corrispondesse fisicamente ad una bellezza stereotipata ma fosse interiormente molto forte. Perché lei dovrà ottemperare al suo soprannome e soprattutto dovrà portare avanti le battaglie più quotidiane delle persone comuni, in primis il lavoro. Nello stesso tempo, volevo una donna controcorrente nel rapportarsi agli uomini, una che non capitola davanti a moralismi bigotti e, quando le va, si cede con naturalezza.
Le fa da contraltare, soprattutto sul piano spirituale, l’amica Catalina, di origine portoriquena, che vive con lei. Catalina rappresenta le possibilità soprannaturali, l’affabulazione, la magia, il senso materno femminile.
Poi c’è il popolo variegato delle notti latine: insegnanti di danza, dj spocchiosi, ballerine bellissime e signore ambigue, esibizionisti, ognuno ha il suo soprannome e il tutto è condito con rituali religiosi arcani, storie di sesso torbido, gelosie e superstizioni, l’universo santero degli orishas, gli dei della santeria cubana.
Gelmini: "Laurea breve, un flop. Apporteremo modifiche."
Un pò come i pacchetti Microsoft.
Bravi.
Laurea breve, un esperimento fallito. Lo sostiene un osservatorio autorevole, la Corte dei Conti, bocciando la riforma universitaria che ha introdotto il sistema a doppio ciclo, laurea e laurea specialistica (cioè quella breve). In un referto sul sistema universitario appena pubblicato, i magistrati contabili spiegano che la riforma «non ha prodotto i risultati attesi» né in termini di aumento dei laureati, né tantomeno in termini di miglioramento della qualità dell’offerta formativa. Anzi, sostiene la Corte, ha generato un sistema incrementale di offerta «con un’eccessiva frammentazione ed una moltiplicazione spesso non motivata dei corsi di studio».
La Corte stima che dopo le riforme del 2004 e del 2007, solo dall’anno accademico 2008-2009 c’è stata un’inversione di tendenza. C’è inoltre da segnalare «il rilevante fenomeno dell’incremento delle sedi decentrate e il peso via via crescente assunto dai professori a contratto esterni ai ruoli universitari». C’è da dire, poi, che il sistema non ha migliorato la qualità dell’offerta formativa «anche in termini di più efficace spendibilità del titolo nell’ambito dello spazio comune europeo». Per la magistratura contabile, «gli effettivi sbocchi occupazionali che offrono i diversi corsi di laurea dovrebbero guidare l’andamento delle immatricolazioni e l’orientamento degli studenti verso le differenti tipologie di crisi». In questo quadro deludente, la Corte dei Conti auspica la razionalizzazione e risorse agli atenei più meritevoli e prospetta «l’utilità di un intervento normativo che, in linea con l’autonomia riconosciuta agli atenei, agevoli, sotto il profilo gestionale, l’utilizzo delle risorse provenienti dal settore privato e imprenditoriale».
Bravi.
Laurea breve, un esperimento fallito. Lo sostiene un osservatorio autorevole, la Corte dei Conti, bocciando la riforma universitaria che ha introdotto il sistema a doppio ciclo, laurea e laurea specialistica (cioè quella breve). In un referto sul sistema universitario appena pubblicato, i magistrati contabili spiegano che la riforma «non ha prodotto i risultati attesi» né in termini di aumento dei laureati, né tantomeno in termini di miglioramento della qualità dell’offerta formativa. Anzi, sostiene la Corte, ha generato un sistema incrementale di offerta «con un’eccessiva frammentazione ed una moltiplicazione spesso non motivata dei corsi di studio».
La Corte stima che dopo le riforme del 2004 e del 2007, solo dall’anno accademico 2008-2009 c’è stata un’inversione di tendenza. C’è inoltre da segnalare «il rilevante fenomeno dell’incremento delle sedi decentrate e il peso via via crescente assunto dai professori a contratto esterni ai ruoli universitari». C’è da dire, poi, che il sistema non ha migliorato la qualità dell’offerta formativa «anche in termini di più efficace spendibilità del titolo nell’ambito dello spazio comune europeo». Per la magistratura contabile, «gli effettivi sbocchi occupazionali che offrono i diversi corsi di laurea dovrebbero guidare l’andamento delle immatricolazioni e l’orientamento degli studenti verso le differenti tipologie di crisi». In questo quadro deludente, la Corte dei Conti auspica la razionalizzazione e risorse agli atenei più meritevoli e prospetta «l’utilità di un intervento normativo che, in linea con l’autonomia riconosciuta agli atenei, agevoli, sotto il profilo gestionale, l’utilizzo delle risorse provenienti dal settore privato e imprenditoriale».
giovedì 1 luglio 2010
Ora posso andare a vomitare.
Dal punto di vista medico, il desametasone è uno steroide di Classe C che ha effetti dannosi sia sulla mamma che sul feto al punto che il suo uso viene definito dalla comunità scientifica "indubbiamente sperimentale e rischioso". Tra gli effetti collaterali del desametasone si annoverano, tra l'altro, diabete mellito, retinopatie, inibizione del sistema immunitario e morte dei neuroni.
Non volete figlie lesbiche? Desametasone.
Non volete figlie lesbiche? Desametasone.
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