NELLA FAME NELLA SETE
Nico disse al telefono che avrebbe vissuto a lungo in quella casa, che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che dopotutto non c’era bisogno di lasciarla. Nico capì anche, nello stesso momento, che il sangue gli scorreva troppo denso nelle vene e fuori qualcosa moriva. L’ombra di Nico si fermò a pensare tutto il suo sudore con un gesto noncurante sulla parete di fronte, un movimento che somigliava a tutta la bellezza dell’altro al telefono, al di sopra dell‘afa. Ma poi Betta la gatta, non smetteva di miagolare. Forse la fame. Certamente la sete e fuori qualcosa cadeva. Nico staccò la sua ombra dalla parete, si girò di spalle e portò il pollice destro alla bocca.
Un altro giorno d’estate stava passando, sicuro, lasciando traccia sulle cime dei platani in agosto, la lettiera sporca da due settimane, la brocca per l’acqua sul tavolo, in cucina, senza più ghiaccio. E poi la sete di Betta, la sete della pianta del caffè, nel salone, e la sete dei cani senza padrone giù, nel parco di sotto, che guaiva.
La voce al telefono disse che andarsene, andarsene ‘per sempre‘, era come andarsene senza portare via niente, alla rinfusa, niente scatole, niente da toccare, e tutto restava così com’è, così com‘era, senza spostare nulla. Così era come non andarsene mai, ed era vero soprattutto per chi partiva per sempre.
Ma poi Betta la gatta, non smetteva di bere dalla sua ciotola rossa, non smetteva di bere e di miagolare. Certamente anche la fame.
Nico pensò che doveva tagliarsi i capelli, chiudere Betta nel freezer, riparare la vecchia Suzuki, passare in pasticceria a prendere la torta mimosa per il suo compleanno, il compleanno dell‘altro. Ma l’altro, al telefono, domandò che ora si era fatta, e il pomeriggio se ne era andato già da un pezzo e stava arrivando la sera.
Nico pensò di partire. Di restare. La sete. La brocca vuota, senza ghiaccio. Nico disse: “È colpa mia”. L’altro, al telefono, con ironia constatò: “Alleluia”, e Nico pensò all’ira di Dio, all’acqua che non si poteva più bere, sul tavolo, ormai definitivamente calda, e al sole che si buttava veloce dietro il palazzo di fronte, precipitandolo in fretta davanti all’ultima luce, trasformandolo in un brutto mostro grigio.
L’ombra di Nico sulla parete di fronte fece una smorfia di sudore, non aveva più nessuna intenzione di tenere incollata la cornetta del telefono all’orecchio mentre il motore di una moto copriva tutte le parole. Forse c’era da capirsi nelle cose da dire, decidere come portare via la pianta del caffè dal salone, quel quadro arancione e blu di cinque figure che danzano nell’infinito di un abbraccio, sempre dal salone, forse c’era da chiedergli se gli andava di riempire quella brocca vuota sul tavolo e di aggiungere del ghiaccio, se ancora ne era rimasto, di pulire la lettiera di Betta, mettere a posto il disco di Morgan macchiato di caffè, quello dell’altra storia, quello che era rimasto sullo stereo dalla fine dell‘altra storia, vicino alla brocca, prima che facesse freddo, prima che facesse notte e arrivasse tutto questo caldo di sera.
Invece si trattava soltanto di partire e di mangiare, solo di andare via e di bere, e non tonare mai più.
L’altro disse al telefono che sarebbe stato inevitabile, a lungo andare. C’era stato tutto, ma tutti prima o poi se ne vanno.
Nico pensò che lui non se ne sarebbe mai andato da nessuna parte, da nessuno, da niente. Perché prima di partire ci aveva sempre pensato, e non si era mai mosso di un istante. Lui sarebbe sempre stato quello che resta, quello che rimane. Nico pensò che era naturale, per lui, restare. Non partire. Come la pianta del caffè assetata. Forse dell’acqua, alla pianta del caffè, bisognava comunque darla o del sangue di bue, per fertilizzarla.
Nel salone Nico sentiva puzza di caffè bruciato, di sigarette morte e di cenere stantia, mentre di là in cucina qualcosa cadeva dal lavello. Si rese conto che la carta da parati era da cambiare. Diede un calcio a Betta che miagolava la fame e la sete adesso, nel salone, ma se ne pentì immediatamente.
Da qualche parte, un giorno d’estate stava passando senza lasciare traccia sulla superficie del mare. Nico pensò che un tempo il mare era pazzo di lui. Adesso era una tavola di quiete, anche d‘inverno, e poi d‘estate lui no, non ci sarebbe mai andato. Nico pensò che pure il mare era invecchiato e non aveva più nessun senso guardare il mare a ottobre, senza interrompere gli occhi nemmeno per la luce che finiva per mancare. E allora gli venne da piangere per tutta questa improvvisa oscurità, ma non voleva sapere niente della ragione del suo pianto e delle pareti di casa sua, pieni di disegni, di frasi, con la pianta del caffè che cercava di raggiungere le parole scritte più in alto, né di gatte miagolanti la sete, la fame.
La voce al telefono disse che piangere, piangere non era cosa da uomini e che, alla fine, se cominci a piangere, ti viene da piangere sempre di più. Tanto vale non farlo, allora.
Nico pensò allo spazzolino da solo, nel bicchiere in bagno, allo scarico che perdeva da tre mesi e alla bolletta dell’acqua. Ma non pensò alle lacrime, né aveva voglia di piangere per questo. Allora Nico si chiamò con la prima parola che aveva pronunciato, la prima cosa che gli venne in mente e che non era il suo nome ma la ragione della sua presenza nel mondo, come se avesse voluto chiedere aiuto, e non realizzò che aveva soltanto fame e perciò se ne stette in silenzio per un po’, al telefono. Se ne stava in silenzio, e ascoltava. L’altro, al telefono, domandò infine se c’erano ancora spese da pagare. Nico pensò alla voce di sua nonna, la nonna che cantava ninnenanne a bocca sdentata, tanto che tutte le parole sembravano uguali. Ma lui le capiva tutte, non erano uguali le parole di sua nonna. E che la fame, la sete, non ti fanno smettere di cantare, anche se non puoi più bere da solo, mangiare.
Nico disse: “Non tornerai più”. L’altro, al telefono, disse solo: “No, non tornerò”, e Nico pensò di andare al mare. Ma non era ottobre. Ci ripensò. Agosto no. La sua ombra sulla parete di fronte diceva qualcosa in silenzio, e Nico pensò che non avrebbe mai lasciato il pavimento sporco di sangue.
Riattaccò il telefono, non prima di salutare, non prima di dire: “Mi mancherai”.
Nico pensò che aveva sempre detto così a quelli che se n’erano andati. Nico pensò di essere vecchio. Si disintegrava nel calore, si squagliava, si spargeva senza soluzione di continuità nello spazio che doveva occupare per onorare la vita che aveva. Pesava sulla faccia, più di tutte quelle mancanze, più di tutta l’afa che gli scendeva dalle tempie, ripensarsi nel momento preciso in cui aveva pronunciato ‘mi mancherai’, nell‘attimo esatto in cui aveva detto, tante volte, ‘è colpa mia’, il segno dei ‘non tornerai’ che aveva detto a bocca chiusa. Più di tutto era questo, era rivedersi da fuori con un telefono in mano, con gli occhi in mano, con la bocca in mano, le mani in mano, mentre il mare restava una tavola di quiete, senza più rabbia o tempesta, senza una festa pazza di onde, senza che da qualche parte l’acqua sciogliesse finalmente tutti i legami dei suoi idrogeni.
Nico andò in cucina, prese una scatoletta di pollo dal vecchio mobile in formica e l’aprì. La versò nella ciotola blu di Betta. La fame. Lei era timorosa di avvicinarsi, ma aveva fame. Di sicuro aveva anche sete, la ciotola rossa era vuota da molti giorni. Nico le fece una carezza ed ebbe un déjà vu, qualcosa che aveva accarezzato allo stesso modo, la pelliccia tigrata di Betta o in macchina, una sera, le dita dell’altro mentre diceva qualcosa di suo padre, mentre c‘era un‘estate furiosa che smetteva l‘ora legale.
Poi tornò in salone e cominciò a togliere la carta da parati con l’apriscatole. Inutilmente cercava di togliere quell’obbrobrio di colore, quel pasticciaccio metropolitano di disegni, sulle pareti. Allora pensò di andare al mare ma era estate. E d’estate Nico non amava il mare, la gente, il sole forte, la sera che non arrivava mai, la fame, la sete. Allora pensò al mestiere di vivere, ma si sentì mezza lucertola al sole e mezzo Cesare Pavese, non aveva voglia di muoversi, forse scrivere sì, ma la fame, la sete e si sentì come sempre. Come ogni volta.
Nico pensò che gli uomini non capiscono. Basta essere niente, basta essere due parole, quello che conta quando lo si vede, apparire. Nico pensò che era troppo tragico, melodrammatico, mentre le ombre fuggivano dalle sue mani e si incollavano ai muri del salone, i flutti del sangue, il corpo di Betta fatto a piccoli pezzi per poterla finalmente congelare, e tutte le cose che avrebbe voluto dire e non aveva mai avuto il coraggio di dire sparse sul pavimento.
Nico pensò di seguire lo sguardo fuori dal balcone, dal settimo piano, e per una volta gli sembrò di sentirsi accolto, pieno d’amore, senza fame e senza sete. Che poi è tutto quello che conta, che poi è il bisogno minimo che necessita soddisfare per sopravvivere. Se non hai fame e se non hai sete, puoi comunque continuare a vivere.
Allora si lanciò, nell’aria sentiva il suo stesso sorriso sciocco. Pensò alla povera Betta, al mare di ottobre, alle cose che restano, che restano a terra come macchie di sangue e non vanno più via, e che avrebbe voluto almeno lavare il pavimento.
Nico pensò che a volte il vento sulle cime degli alberi, in agosto, a volte è gentile, gentile anche con la superficie del mare.
Mentre scivolava nell’aria, Nico pensò che era rimasta la bolletta dell’ultimo condominio da pagare. Che
avrebbe dovuto dirlo, all‘altro.
Che peccato, poi pensò Nico, non andare al mare, è così lontano ottobre, pensò.
E mentre scivolava nell’aria, fece un sorriso sciocco. Gli era venuta in mente una canzone di Fred Buscaglione sulla luna e sul mare, e mentre pensava che proprio questo sarebbe stato l’ultimo pensiero suo, prima degli ultimi secondi, nel sangue, arrivato a terra dal settimo piano, pensò che si era sbagliato e che era riuscito a fare almeno quest’altro pensiero.
ISTRUZIONI PER UN ADDIO, Azimut (2010)
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