martedì 31 agosto 2010

(Stiamo aspettando ?)

"Ho passato tutta la mia vita fino ad ora a cercare di essere qualcuno che non fosse mai esistito prima di me. Non è che tutto quello che c'è da vivere sia stato già vissuto. Tutt'altro. Semplicemente sento che stiamo aspettando. Ci sconvolgiamo di nostalgia per degli anni che non ci hanno neanche visto nascere. In un certo senso, siamo già morti.  Aspettiamo l'arrivo di un nuovo messia post-apocalittico che ci pisci addosso a dirci che è finita e ci venga a salvare. Tana libera tutti, urlerà. Tana libera tutti. E ricominceremo tutto da capo. Tutto uguale a prima". 

(Tana libera tutti.
Workinprogress.)

appunti al margine.

(solo una coperta di flanella.)

(progettando punti interrogativi.)

la realtà è che sono tornata da neanche quattro giorni da una dimensione parallela e dovrei rimettermi a impolverarmi il naso tra gli atti illocutori di Austen e diecimila triliardi di anni di storia economica del mondo di Cameron.
e non è che mi vada molto a genio, la cosa.
alzare la testa dai libri giusto per venti giorni, un mese all'anno massimo, ormai mi sta diventando parecchio pesante. se a quindici anni riuscivo ad essere una macchina da guerra, ora ho altre necessità.
impegnarmi a scrivere più seriamente, per esempio.
almeno seriamente quanto leggo.
ieri, sì, ieri.
ho avuto un'illuminazione al bar della stazione termini.
(poteva succedere solo in un posto del genere, d'altronde.
in un treno, la mia casa con il contratto a ore, yuppi.)
per ora è solo una scintilla, ma forse con il tempo potrebbe venirci fuori una bella storia.
antigenerazionale forte.
antioccidentale anche, per lo più.
vivere in egitto per un mese mi ha dato molti spunti in questo senso.
mi sono messa a rileggere "Americana" l'altroieri e alla luce di questo ultimo periodo molti dialoghi stanno acquisendo una forza maggiore, quasi profetica.
se il tempo me lo permette, voglio cercare di spingere su questo pedale.
nel frattempo progetto il mio futuro su un cimitero di punti interrogativi.
(siamo nel post generazione X?)
neanche ci poniamo più il problema dell'incognita del futuro.
noi siamo diventati l'incognita del nostro futuro.

ora vado a bere un pò d'estathè, và.
che questo autunno non si decide ad arrivare, uff.

Ritorno alla civiltà (?)

Okei, un mese a Il cairo, cristoiddio.
Un mese a svegliarmi sul deserto, con la bocca a masticare sabbia.
Un mese lontano da qui, dalla padella alla brace, in un certo senso.
Non mi sono ancora ripresa del tutto per poterci scrivere su qualcosa che abbia un minimo di coerenza logica. Tanto che penso che mano a mano butterò giù immagini, frammenti, schegge della mia vita lì così come mi vengono, senza stare troppo a preoccuparmi di trovarci un senso.
La sfida era sopravvivere ora dopo ora.
Salire su un taxi ogni volta senza sapere se saresti sceso illeso, ferito o direttamente nella bara, giocare a schivare frontali ad ogni incrocio, dare indicazioni al tassista perchè non è lui quello che deve conoscere la strada, vederlo accostare ai lati a chiedere informazioni ai passanti di quartiere in quartiere, contrattare sulle distanze quando il traffico era troppo e il tassametro te lo potevi anche ficcare nel culo, finiva per diventare soltanto un pezzo di plastica con dei numeri che lampeggiavano a ritroso magri magri e trasparenti, il tuo conto alla rovescia verso l'inferno sotto un altro sole gigantesco-
 e buttarsi nel mezzo di strade da raccordo solo per poter passare da una parte all'altra, attraversare in direzioni antigravitazionali, andare a bere un bicchiere di coca cola in un bar sperando che non ci tritassero dentro la macchina del ghiaccio, imparare a parlare col farmacista di crisi digestive e di blocchi intestinali, dire maloox come dire acqua minerale, impiastrarsi le mani di disinfettante antibatterico ogni cinque metri che i batteri ci gireranno alla larga per i prossimi dieci anni, che tanto lo sappiamo anche noi che non serve più o meno a un cazzo, ma siamo occidentali, ci servono certezze di protezione, garanzie di sopravvivenza, immortalità per un mese ingurgitata in pillole di antibiotici ad ampio spettro, vista a raggi x dei nostri condotti intestinali da imbottire di antinfiammatori, coi succhi gastrici implasticati di fialette di gastroprotettori.
Igienizzarsi un pò il sangue prima che ci crescano su colonie di virus troppo musulmani per andare d'accordo coi nostri anticorpi atei e farmacomani, con l'antidolorifico sempre puntato in vena-
(la realtà è che a volte siamo troppo occidentali per vedere posti come questi)
e mangiare biscotti scaduti l'anno prima nei supermercati senza prezzi agli scaffali, andare nei mercati delle periferie a comprare le banane acerbe già andate a male, incastrarsi le budella sul pesce marcio corroso dai denti acidi delle mosche, il pane impilato sopra i cofani polverosi delle macchine, animali scuoiati appesi ai ganci a lasciar sgocciolare il sangue e galline vive nelle gabbie e la sabbia, la sabbia dovunque che si mangiava le strade, i banconi, i venditori, le donne caricate come muli con le buste sopra la testa a mandare gli occhi ingiù, la rassegnazione marchiata a fuoco tra le rughe, ai lati delle tempie-
e i bambini disidratati che camminavano scalzi tra le pietre e bottiglie di vetro fatte a pezzi, che ti passavano accanto senza sputarti neanche uno sguardo addosso, i bambini che non erano curiosi di niente, che lo vedevi bene che pensavano solo a come passare la giornata senza farsi troppo male-
e sentire l'attrito dei miei capelli che raspava il vento e faceva storcere la bocca a tutti quelli che mi incrociavano per strada, quando sono salita per la prima volta in metro e mi si è parato davanti il vagone delle donne-che neanche durante l'apartheid-e la cosa buffa volete sapere qual è? Che per la prima volta dopo due settimane mi sono sentita protetta con il culo al caldo in quel fottuto vagone per otto fermate, protetta dagli occhi della gente che ti si rovesciavano contro come un esercito di pugnali giapponesi, quando cercavo disperatamente una donna che avesse una faccia, un paio d'occhi, un'identità e non ce ne era, non ce ne era di facce e di nomi per nessuno. quando mi sono resa conto che le cameriere non c'erano neanche negli hard rock cafè, perchè una donna non può entrare a contatto con dei clienti uomini, perchè può lavorare solo in negozi di abbigliamento femminili, nelle mercerie o nelle cartolerie a piegare carta regalo senza sorridere troppo- quando mi saliva la rabbia a specchiarmi dentro i negozi con i manichini velati esposti in vetrina, quando volevo scoperchiare quel tendaggio di spilloni e spille da balia e sapere che rumore facevano i loro capelli contro l'aria, quando le vedevo imbavagliate come cani al guinzaglio dentro pezzi di stoffa nera sformati e mi veniva da chiedermi come sarà per un bambino crescere senza vedere la faccia di sua madre?
e io che non ci volevo credere la prima volta che ho visto quell'insegna fuori da un fastfood "chiuso per preghiera"- e fissare i camerieri che si mettevano a pregare nel bel mezzo di un'ordinazione, tappetini per terra e corano alla mano. Dieci bocche dentro tre metri per quattro con uno sfondo di patatine fritte e riso ai ceci, tutte a salmodiare che allah è grande ed è altissimo, a infilarsi parole tra i denti in quella lingua che è di dio e di nessun altro, inginocchiati su e giù per colpa di un brutto vizio che si portano dietro da qualche migliaio di anni-
e partire dall'aereoporto, dove per arrivare al cesso dovevi attraversare un accampamento militare, mezzo campo profughi, dove al gate accanto al mio c'era un volo direzione arabia saudita. ed è stato lì che ho capito.
vedendo una bambina di sei, forse sette anni, velata che neanche la madonna.
ed ho capito che l'occidente sarà anche l'emisfero delle nevrosi consumistiche, delle democrazie fantoccio e delle sovrastrutture mentali, però, diamine, come ci si respira meglio, certe volte.
(MA.)

Sì, sopravvivere lì era una sfida all'ultimo secondo, ma cercare di vivere bene qui è una sfida persa in partenza.
Mi manca il tempo di gomma di quella città senza un centro o una direzione.
Mi manca il non dover portare l'orologio.
Mi manca quella paralizzante sensazione di smarrimento che ci è servita per recuperare quell'istinto animale, quell'impulso alla sopravvivenza, alla vita in sequenze da un nanosecondo perchè non sai che succederà nel prossimo.
Mi manca la vita all'arrembaggio, mi manca il non sapere cosa e se mangerò per pranzo, mi manca salire su un taxi e non essere sicura di arrivare a destinazione.
Mi mancano gli sguardi della gente, perchè almeno erano un contatto.
seppur di disgusto, di incomprensione, di divergenza, erano un contatto.
qui c'è lo zero ed anche meno.
qui ci stanno soltanto distanze e chilometri tra i nostri corpi.
qui siamo soltanto isole, senza neanche un deserto in cui perderci.

(male o bene.
sono tornata.)

martedì 13 luglio 2010

Review di "360 gradi di rabbia", E. Mearini, a cura di Giulia Guida.


Parla del corpo di una donna. Esasperato, mutilato, raschiato attraverso gli anni.Parla di polmoni compressi, senza più aria incontaminata dall’ossessione. Di uno stomaco chiuso a lucchetto senza più chiave. Di muscoli sfibrati. Di due dita in gola per espiare il senso di colpa. Di un paio di fianchi scavati fino all’osso come terra carsica. Di gambe lunghissime che hanno dimenticato la direzione giusta da prendere, di pelle seccata dalla mancanza d’acqua, di capelli corvini, ormai radi, sottili filamenti di cellulosa, appiattiti contro la testa. Parla di un corpo schedato come già deceduto in una serie di cifre da referto medico: 35 chili per 1.70 di altezza. Se continui così, morirai. Se continui così, svanirai, evaporerai, evacuerai quel poco di te che non ti è riuscito di biodegradare su questa terra. Un cumulo di ossa e di vestiti taglia 34-36. Parla di un corpo e di pensieri che non combaceranno mai. E attraverso il corpo descrive la vita del sangue che rallenta, del respiro che interrompe la gola, dei crampi che spezzano un utero freddo da camera mortuaria.



360 gradi di rabbia su "Liberi di Scrivere".

lunedì 5 luglio 2010

"¡Tu la pagaràs!": review a cura di Giulia Guida.

Mentre il suo corpo si trasfigura, riesce a sentirsi al centro e alla deriva di ogni cosa, perde il contatto con la realtà che la circonda, sente il battito del suo cuore sempre più veloce, che le ricorda che non sarà mai viva come in quei momenti. Perciò si fa dea tribale, fenice immortale, amazzone rapace, grido di guerra. E balla. Sotto il sole artificiale di una discoteca di Bologna, mentre il tempo si scheggia, gli spazi si mescolano, i corpi si sfiorano, i ballerini in pista cambiano maschera, almeno per una sera avranno un altro nome, un'identità diversa, una storia da raccontare che non sia quella della propria vita. E la Guerrera cambia forma: i muscoli si distendono, i tendini si sfilacciano, il sangue diventa elettrico. Elisa è pura energia, Basilica ne è come aggredito. E' più di una donna, è una forza primitiva, un terremoto delle viscere, è una femmina di lupo. Inavvicinabile.


"¡Tu la pagaràs!" su Liberi di Scrivere.

sabato 3 luglio 2010

Un racconto da "Istruzioni per un addio", L. Carrino.

NELLA FAME NELLA SETE


Nico disse al telefono che avrebbe vissuto a lungo in quella casa, che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che dopotutto non c’era bisogno di lasciarla. Nico capì anche, nello stesso momento, che il sangue gli scorreva troppo denso nelle vene e fuori qualcosa moriva. L’ombra di Nico si fermò a pensare tutto il suo sudore con un gesto noncurante sulla parete di fronte, un movimento che somigliava a tutta la bellezza dell’altro al telefono, al di sopra dell‘afa. Ma poi Betta la gatta, non smetteva di miagolare. Forse la fame. Certamente la sete e fuori qualcosa cadeva. Nico staccò la sua ombra dalla parete, si girò di spalle e portò il pollice destro alla bocca.
Un altro giorno d’estate stava passando, sicuro, lasciando traccia sulle cime dei platani in agosto, la lettiera sporca da due settimane, la brocca per l’acqua sul tavolo, in cucina, senza più ghiaccio. E poi la sete di Betta, la sete della pianta del caffè, nel salone, e la sete dei cani senza padrone giù, nel parco di sotto, che guaiva.
La voce al telefono disse che andarsene, andarsene ‘per sempre‘, era come andarsene senza portare via niente, alla rinfusa, niente scatole, niente da toccare, e tutto restava così com’è, così com‘era, senza spostare nulla. Così era come non andarsene mai, ed era vero soprattutto per chi partiva per sempre.
Ma poi Betta la gatta, non smetteva di bere dalla sua ciotola rossa, non smetteva di bere e di miagolare. Certamente anche la fame.
Nico pensò che doveva tagliarsi i capelli, chiudere Betta nel freezer, riparare la vecchia Suzuki, passare in pasticceria a prendere la torta mimosa per il suo compleanno, il compleanno dell‘altro. Ma l’altro, al telefono, domandò che ora si era fatta, e il pomeriggio se ne era andato già da un pezzo e stava arrivando la sera.
Nico pensò di partire. Di restare. La sete. La brocca vuota, senza ghiaccio. Nico disse: “È colpa mia”. L’altro, al telefono, con ironia constatò: “Alleluia”, e Nico pensò all’ira di Dio, all’acqua che non si poteva più bere, sul tavolo, ormai definitivamente calda, e al sole che si buttava veloce dietro il palazzo di fronte, precipitandolo in fretta davanti all’ultima luce, trasformandolo in un brutto mostro grigio.
L’ombra di Nico sulla parete di fronte fece una smorfia di sudore, non aveva più nessuna intenzione di tenere incollata la cornetta del telefono all’orecchio mentre il motore di una moto copriva tutte le parole. Forse c’era da capirsi nelle cose da dire, decidere come portare via la pianta del caffè dal salone, quel quadro arancione e blu di cinque figure che danzano nell’infinito di un abbraccio, sempre dal salone, forse c’era da chiedergli se gli andava di riempire quella brocca vuota sul tavolo e di aggiungere del ghiaccio, se ancora ne era rimasto, di pulire la lettiera di Betta, mettere a posto il disco di Morgan macchiato di caffè, quello dell’altra storia, quello che era rimasto sullo stereo dalla fine dell‘altra storia, vicino alla brocca, prima che facesse freddo, prima che facesse notte e arrivasse tutto questo caldo di sera.
Invece si trattava soltanto di partire e di mangiare, solo di andare via e di bere, e non tonare mai più.
L’altro disse al telefono che sarebbe stato inevitabile, a lungo andare. C’era stato tutto, ma tutti prima o poi se ne vanno.
Nico pensò che lui non se ne sarebbe mai andato da nessuna parte, da nessuno, da niente. Perché prima di partire ci aveva sempre pensato, e non si era mai mosso di un istante. Lui sarebbe sempre stato quello che resta, quello che rimane. Nico pensò che era naturale, per lui, restare. Non partire. Come la pianta del caffè assetata. Forse dell’acqua, alla pianta del caffè, bisognava comunque darla o del sangue di bue, per fertilizzarla.
Nel salone Nico sentiva puzza di caffè bruciato, di sigarette morte e di cenere stantia, mentre di là in cucina qualcosa cadeva dal lavello. Si rese conto che la carta da parati era da cambiare. Diede un calcio a Betta che miagolava la fame e la sete adesso, nel salone, ma se ne pentì immediatamente.
Da qualche parte, un giorno d’estate stava passando senza lasciare traccia sulla superficie del mare. Nico pensò che un tempo il mare era pazzo di lui. Adesso era una tavola di quiete, anche d‘inverno, e poi d‘estate lui no, non ci sarebbe mai andato. Nico pensò che pure il mare era invecchiato e non aveva più nessun senso guardare il mare a ottobre, senza interrompere gli occhi nemmeno per la luce che finiva per mancare. E allora gli venne da piangere per tutta questa improvvisa oscurità, ma non voleva sapere niente della ragione del suo pianto e delle pareti di casa sua, pieni di disegni, di frasi, con la pianta del caffè che cercava di raggiungere le parole scritte più in alto, né di gatte miagolanti la sete, la fame.
La voce al telefono disse che piangere, piangere non era cosa da uomini e che, alla fine, se cominci a piangere, ti viene da piangere sempre di più. Tanto vale non farlo, allora.
Nico pensò allo spazzolino da solo, nel bicchiere in bagno, allo scarico che perdeva da tre mesi e alla bolletta dell’acqua. Ma non pensò alle lacrime, né aveva voglia di piangere per questo. Allora Nico si chiamò con la prima parola che aveva pronunciato, la prima cosa che gli venne in mente e che non era il suo nome ma la ragione della sua presenza nel mondo, come se avesse voluto chiedere aiuto, e non realizzò che aveva soltanto fame e perciò se ne stette in silenzio per un po’, al telefono. Se ne stava in silenzio, e ascoltava. L’altro, al telefono, domandò infine se c’erano ancora spese da pagare. Nico pensò alla voce di sua nonna, la nonna che cantava ninnenanne a bocca sdentata, tanto che tutte le parole sembravano uguali. Ma lui le capiva tutte, non erano uguali le parole di sua nonna. E che la fame, la sete, non ti fanno smettere di cantare, anche se non puoi più bere da solo, mangiare.
Nico disse: “Non tornerai più”. L’altro, al telefono, disse solo: “No, non tornerò”, e Nico pensò di andare al mare. Ma non era ottobre. Ci ripensò. Agosto no. La sua ombra sulla parete di fronte diceva qualcosa in silenzio, e Nico pensò che non avrebbe mai lasciato il pavimento sporco di sangue.
Riattaccò il telefono, non prima di salutare, non prima di dire: “Mi mancherai”.
Nico pensò che aveva sempre detto così a quelli che se n’erano andati. Nico pensò di essere vecchio. Si disintegrava nel calore, si squagliava, si spargeva senza soluzione di continuità nello spazio che doveva occupare per onorare la vita che aveva. Pesava sulla faccia, più di tutte quelle mancanze, più di tutta l’afa che gli scendeva dalle tempie, ripensarsi nel momento preciso in cui aveva pronunciato ‘mi mancherai’, nell‘attimo esatto in cui aveva detto, tante volte, ‘è colpa mia’, il segno dei ‘non tornerai’ che aveva detto a bocca chiusa. Più di tutto era questo, era rivedersi da fuori con un telefono in mano, con gli occhi in mano, con la bocca in mano, le mani in mano, mentre il mare restava una tavola di quiete, senza più rabbia o tempesta, senza una festa pazza di onde, senza che da qualche parte l’acqua sciogliesse finalmente tutti i legami dei suoi idrogeni.
Nico andò in cucina, prese una scatoletta di pollo dal vecchio mobile in formica e l’aprì. La versò nella ciotola blu di Betta. La fame. Lei era timorosa di avvicinarsi, ma aveva fame. Di sicuro aveva anche sete, la ciotola rossa era vuota da molti giorni. Nico le fece una carezza ed ebbe un déjà vu, qualcosa che aveva accarezzato allo stesso modo, la pelliccia tigrata di Betta o in macchina, una sera, le dita dell’altro mentre diceva qualcosa di suo padre, mentre c‘era un‘estate furiosa che smetteva l‘ora legale.
Poi tornò in salone e cominciò a togliere la carta da parati con l’apriscatole. Inutilmente cercava di togliere quell’obbrobrio di colore, quel pasticciaccio metropolitano di disegni, sulle pareti. Allora pensò di andare al mare ma era estate. E d’estate Nico non amava il mare, la gente, il sole forte, la sera che non arrivava mai, la fame, la sete. Allora pensò al mestiere di vivere, ma si sentì mezza lucertola al sole e mezzo Cesare Pavese, non aveva voglia di muoversi, forse scrivere sì, ma la fame, la sete e si sentì come sempre. Come ogni volta.
Nico pensò che gli uomini non capiscono. Basta essere niente, basta essere due parole, quello che conta quando lo si vede, apparire. Nico pensò che era troppo tragico, melodrammatico, mentre le ombre fuggivano dalle sue mani e si incollavano ai muri del salone, i flutti del sangue, il corpo di Betta fatto a piccoli pezzi per poterla finalmente congelare, e tutte le cose che avrebbe voluto dire e non aveva mai avuto il coraggio di dire sparse sul pavimento.
Nico pensò di seguire lo sguardo fuori dal balcone, dal settimo piano, e per una volta gli sembrò di sentirsi accolto, pieno d’amore, senza fame e senza sete. Che poi è tutto quello che conta, che poi è il bisogno minimo che necessita soddisfare per sopravvivere. Se non hai fame e se non hai sete, puoi comunque continuare a vivere.
Allora si lanciò, nell’aria sentiva il suo stesso sorriso sciocco. Pensò alla povera Betta, al mare di ottobre, alle cose che restano, che restano a terra come macchie di sangue e non vanno più via, e che avrebbe voluto almeno lavare il pavimento.
Nico pensò che a volte il vento sulle cime degli alberi, in agosto, a volte è gentile, gentile anche con la superficie del mare.
Mentre scivolava nell’aria, Nico pensò che era rimasta la bolletta dell’ultimo condominio da pagare. Che
avrebbe dovuto dirlo, all‘altro.
Che peccato, poi pensò Nico, non andare al mare, è così lontano ottobre, pensò.
E mentre scivolava nell’aria, fece un sorriso sciocco. Gli era venuta in mente una canzone di Fred Buscaglione sulla luna e sul mare, e mentre pensava che proprio questo sarebbe stato l’ultimo pensiero suo, prima degli ultimi secondi, nel sangue, arrivato a terra dal settimo piano, pensò che si era sbagliato e che era riuscito a fare almeno quest’altro pensiero.

 ISTRUZIONI PER UN ADDIO, Azimut (2010)