domenica 14 marzo 2010

Prima che diventi cenere.

"Il mio affetto è sempre stato solo un esercizio di stile, distribuito matematicamente quel tanto bastava a farmi sentire ancora capace di mantenere un contatto con gli altri. Un input vuoto che partiva da me e si riempiva nei cuori degli altri. Ma, una volta inviato, diventava il triste monologo per la cavia di turno, verso la quale mostrare anche la più fredda indifferenza era per me uno sforzo troppo umano".

giovedì 11 marzo 2010

E' tempo di bilanci, ma intanto fatti biondo. [Rileggendo "Imperfetto", A. Zannoni].


Quarant'anni, cazzo, quarant'anni e ti chiedi come c'è riuscita la tua vita a srotolarsi giù a quel modo, tra cicche spente e il rumore del tuo fiato sempre grigio, raschiato via dalla cenere, tossicchiato contro quel cielo livido che non la finisce mai di incazzarsi e ti piove il vuoto nei polmoni, quando vorresti sputtanarteli per conto tuo. Almeno quelli.
Merisi ha quarant'anni e forse è arrivato il tempo dei bilanci, anche per lui.
Che da queste tradizioni di rito, da questi giochi da uomini vecchi anche a vent'anni, è stato sempre fuori.
Bilanci sì, ma non poi troppi. Che solo a pensarci, d'esserci arrivato vivo a quarant'anni, un tipo come lui inizierebbe ad esasperarsi sul perchè non si sia fermato prima, sul fatto che ancora un corpo ce l'abbia addosso e nelle vene gli scorra quel sangue da sbandato al posto delle sue nuvole di fumo, come grumi di sogni gettati nel fango. Ma poco importa, è lì, si accende una sigaretta e si soffia dentro il petrolio nero che gli appanna gli occhi caldi, pieni di insoddisfazione liquida e di voglia di cambiare nome e connotati e lasciar fottere tutto quello che è stato fino a quel momento, un fallimento dietro l'altro, l'errore di chi sa che sta sbagliando e sbaglia con un sorriso storto al lato, quel sorriso che vuol ringhiare "Iniziate a correre. Non mi prenderete mai. Ditemi dove andate voi, che io vado al contrario".
Merisi crede che l'odio sia una terapia efficace contro il dolore.
Ci son stati momenti in cui avrebbe voluto essere un pezzo raro d'acciaio inossidabile.
Restare a respirarsi la tempesta e uscire senza graffi.
Che poi ci pensa meglio e capisce che non c'è gusto a uscirne perfetti da una storia del genere.
Una forma non la vuole e soprattutto non vorrà mai la stessa; che annusarla sotto pelle, l'aria, masticare il suo sapore ossidato di bronzo è l'unica scelta giusta per uno sbandato come lui.
Che imperfetto ci resta, sempre quel tanto per restare a musoverso, senza quella puzza di nuovo addosso, che azzera tutto il tempo passato a scarabocchiare sul futuro.
Che perdere troppo di sensibilità, a volte, ti fa invecchiare prima che le sigarette ti facciano fuori.
E il modo per scalciarsi via da qui, diolai, se lo vorrebbe scegliere lui, almeno quello.
Merisi e il matrimonio in crisi con Marta. Merisi e i sensi di colpa che lo prendono alla gola, quando meno lo vorrebbe. Quando sta fumando, per dirne una, che gli si guasta tutto lo scricchiolio in bocca e le orecchie iniziano a riempirglisi di rimorso, mentre gli occhi gli sgocciolano di disamore e di un desiderio diverso. Quel senso d'appartenere a qualche dove, nell'abbraccio barbaro di Giulia, per dirne un'altra, che semplicemente gli sta accanto, un pensiero rapace, una voglia d'adolescenza feroce, un colore rimpianto così a lungo, da mettergli in subbuglio quella testa matta e solitaria che ha sempre avuto.
Quasi quasi al punto da fargli chiudere con le puttane, che sono una gran valvola di sfogo e s'assorbono il peso d'ogni lacrima, ma non bastano per smettere d'esser soli.
Merisi e un caso da risolvere, perchè è un detective lui, coi controcoglioni, tra l'altro.
Un personaggio nero, scomodo, troppo intuito per poter stare nel giro con tutti i crismi.
Circostanze di un conflitto passato ancora tutte da chiarire con il vecchio comandante Palma, che lo vorrebbe solo far fuori e gli affida un caso senza uscita, in cui faccia da parafulmine a delle indagini di carta, che non vedranno mai saltar fuori un colpevole, una serie telegrafica di testemonianze morte nel bianco rasposo di un fascicolo.
Ventiquattro anni, Amedeo Moretti, omosessuale, figlio di un pezzo grosso della zona. Trovato morto, completamente nudo, ai margini di un bosco, legato al tronco di un albero, trafitto da cinque stilettate inflitte in diverse parti del corpo. Una rabbia incontenibile dentro quel sangue, al di là di ogni vendetta ipotizzabile. L'autopsia di un odio disumano, che sogghigna cattivo giù in fondo alla pancia.
Merisi è un maledetto, lo è già nel nome che si ritrova sulla testa.
Non la può accettare, questa faccenda del parafulmine.
Correre contro il buio, dentro tutte le sue fughe interrotte.
Questa, la scelta giusta. Questo, lo sbaglio necessario.
Non può vedersi le gambe tagliate in questo modo. Li vuole vivi, quei pezzi di carta, vuole dar loro una voce, quella di Amedeo, rubata da occhi troppo pigri per scavarci a fondo in questa storia che un pò gli fa paura, perchè non segue direzioni nè logiche apparenti, un pò gli morde lo stomaco di adrenalina che scorre di magia e di sangue nero.
Ma arriva anche un momento nella vita di un uomo in cui è tempo di mettere da parte i bilanci.
Ed è necessario smarrirsi, liberarsi di quella pioggia a perdere che ti bagna le cicche sulla bocca.
E con coraggio, risollevarti da quella curva perfetta e immobile in cui ti eri lasciato cadere.
Per riprenderti ogni imperfezione indietro, ad ogni costo, disintegrando tutti i confini intorno. Lasciando che il resto sia solo il tuo riflesso immobile di quandi avevi vent'anni e avevi giurato che a quaranta di bilanci non ne avresti fatti.
D'altra parte metti caso che a seguirla, quella strada senza indicazioni, si sta sul treno giusto.

Un abbraccio a 'sto scrittore da strapazzo. Che va, avrei dedotto che è un geniaccio del male.
E che è ossessionato alquanto e non poco dal biondo, che si sappia.

Giulia Mafalda Gì/ Tristan Van Persie.

Fantasie orfane in cerca di storie. (Perchè di bambini è difficile trovarne). [Rileggendo "Fascia protetta", AA.VV.]


Qualche giorno fa mi è capitato di tornare a casa a tarda notte, quasi le quattro del mattino.
Ho sbattuto le palpebre un paio di volte per abituarmi a quel buio immenso che mi rapiva la voce, paralizzava il respiro, scribacchiava bianconeri sui colori fuori, da discoteca anno 3085, fluorescenze installate a forza sulle risate vuote della gente al pub, sui miei sorrisi senza sonoro, sulle mie parole che non escono quasi mai bene e muiono lì, tra i denti e le labbra, finiscono giù nel dimenticatoio delle fantasie anestetizzate e delle storie orfane. Quelle che da bambino ti venivano in mente all'improvviso, ti ricordi, quegli attacchi di genio che morivi dalla voglia di raccontare a qualcuno, non solo al primo che capitava. Voglio dire, anche al primo che capitava, perchè in fin dei conti sei sempre stato il solito e non è che potevi tirarla troppo a lungo questa storia dei segreti segretissimi tra una campanella e l'altra.
Ma c'erano delle volte in cui avevi proprio bisogno del complice giusto per realizzare i tuoi piani.
Quella spalla che fosse il tuo coltello, la carta su cui scrivere, l'attore del tuo copione.
Il mondo doveva saperlo, cazzo, che saresti tu ad avere l'idea giusta per cambiare il mondo, a rivoltare ogni cosa di quest'universo che ti sembrava proprio facesse un rumore storto. Serviva una realtà parallela, ecco, in cui il disordine fosse libero, in cui ci fosse anarchia di pensiero, che facesse male, che fosse crudele e dove non si facesse più la guerra per la democrazia o per il libero pensiero.
Che si facesse la guerra per fare la guerra.
Saresti stato tu il fondatore del nuovo esercito degli ultimi strenui difensori di un romantico cinismo demodè.
Il fatto strano è che quando eri piccolo un'alternativa non la vedevi.
Tutto era giustamente bianco e nero, così come deve essere, così come non c'è altro modo che sia.
Un mondo a fumetti, a carta, inchiostro e china.
I colori sono arrivati dopo e hanno sparato indelebili sbavature fosforescenti per incorniciarti le impronte digitali.
Da bambino inizi a capirlo presto che nessuno di quelli che ti gira intorno, dei tizi con cui ti ritrovi a vivere assieme, sia disposto ad ascoltarli veramente, i tuoi attacchi di genio. Perchè lo sono, questo è innegabile. Ma il fatto più atroce è che dopo qualche tempo, arrivi anche al passaggio successivo. Capire che una comunicazione vera coi tuoi coinquilini di casa e a volte anche di realtà parallela non ci potrà mai stare.
Capire che la gente intorno a te pensa seriamente di capirti e non capisce una sega di quello che dici, che magari è anche una roba originale, è l'ultimo attacco di genio che ti viene.
Poi smetti di essere un bambino e inizi a ingoiare caramelle ripiene delle parole e dei disegni di cui vorresti riempire i vuoti a perdere in cui ti sei cacciato di proposito, perchè le urla fuori sono colorate troppo forte e tu sei sempre stato solo una proiezione b&w a due dimensioni sullo sfondo.
Eri un bambino, la profondità non ti serviva. Eri già tu, la profondità.
Ecco, qualche giorno fa mentre cercavo a tastoni il muro di casa e mi abituavo al chiaroscuro di quella luna così bella da spogliare, ho ripensato a quanto mi piacesse da matti addormentarmi al buio, persa soltanto nel mio abbraccio, a quanto non ne fossi spaventata.
Non ero mai veramente sola.
Pensavo a quanto fossi capace di vederli là, ammucchiati uno sopra l'altro tutti i miei mostri e miei amici immaginari.
E non ero certa che non mi potessero far del male, voglio dire. Non ero certa che non esistessero davvero. Ma giocare a vivere era un dovere, un richiamo che veniva da lontano, era il tuo canto delle sirene e non potevi fare a meno di stare al gioco. Perchè ancora non li avevi visti, i colori.
Non potevi saperlo che di lì a poco tutto quello che eri stato fino a quel momento sarebbe stato murato vivo sotto una superficie spugnata color pesca. Che è il colore leggero con cui i grandi si scrollano via i mostri da sotto il letto.
Poi mi è capitato di parlare con il signor Lorenzo Palloni che all'anagrafe risulta studente di "Beni culturali" e al secolo passerà di sicuro come fumettista perchè ho il vago sentore che gli riesca parecchio meglio come cosa. Classe 1987, Palloni mi dice che ha all'attivo una pubblicazione con la Double shot per una raccolta di storie a fumetti, intitolata "Fascia protetta". Tematica: " Storie sull'infanzia".
Ma non su quel mieloso andante che, dopo averle lette, finisci per idealizzare tuo figlio alla donna angelo degli stilnovisti. Son storie feroci, signori. Di chi ha avuto il coraggio di buttare giù l'intonaco e uscire dal muro.
Dal volo nell'immenso inferno dei bambini perduti ne "L'altalena" di Brunilde Galeotti alla poesia che germoglia nella terra e dalla morte genera vita nuova di Ravazzani ne "I fiori di alice", passando per "Guasto", lavoro a sei mani di Palloni, Farinon e Marzano sulla condizione del disagio familiare nell'infanzia e sulla faccia nera dei bambini, quella che può uccidere e ritrarre la mano, mentre sugli occhi s'asciugano controvento lacrime di cristallo, le sole cicatrici che stanno lì a testimoniare che quei piccoli artefici del male sono bambini venuti su nella violenza, nella disinformazione e tra incomunicabili incomprensioni, mandati a morire in un vulcano di colori.

Se non lo compri, non sei più un bambino.
E adesso trovami un'offesa peggiore di questa.

Giulia Mafalda Gì/ Tristan Van Persie.

domenica 7 marzo 2010

Prima che diventi cenere.


Le sue scarpe da gigante erano due pomodori rossi rossi.
Di quelli che trovo sempre in terrazzo dalla nonna Clara, quando arriva giugno e il sole è alto alto e ti brucia i disegni sintonizzati male sugli occhi.
Perchè se lo guardi troppo fisso, finisce che vedi solo tanto bianco e più nessun disegno.
E il bianco mi fa paura.
Non ci puoi vedere niente dentro e ti devi inventare tutto tu e non è mica così semplice.
Così nonna Clara, quando arriva giugno, mi chiama dal suo wakkitokki magico che lo puoi spostare dappertutto e funziona lo stesso. Il mio wakkitokki, invece, non è magico perchè sta fermo su un mobile nella stanza dei divani e della tivvù e se lo sposti non funziona, perchè ci sono i fili, mi ha detto mamma e lì ci passa l'elettricità. Che non ho capito bene cos'è, perchè non l'ho mai vista ancora e quando ho provato a staccare il filo tutto tondo dal muro, è venuto via anche un pò di bianco intorno alla spina. Ma l'elettricità non l'ho vista lo stesso. Perciò forse non esiste, non lo so.
Nonna Clara il wakkitokki lo mette dentro una tasca del suo grembiule largo largo a quadratini arancioni e bianchi. Ce lo ha sempre addosso, non se lo toglie mai.
Quando le chiedo perchè la mia pelle è solo rosa e lei ha i quadratini cuciti sopra, scoppia a ridere, ma anche un pò a piangere e mi dice che sono una bambina birichina. E se sei birichino non stai mai fermo come il wakkitokki della nonna e vuoi sempre fare i dispetti a tutti. Però non lo capisco perchè piange. Piange sempre, nonna Clara e quando parla si fa tutta piccola nel suo maglione nero cieco, chiude gli occhie e fa sìsì con la testa, che sembra quasi che non ci voglia parlare con noi, anche se siamo là per lei. Dice che è troppo vecchia per invecchiare ancora.
Però ha un sacco di capelli neri in testa. Perciò non è così vecchia come pensa, magari.
E io glielo dico sempre che non deve preoccuparsi, che la sua pelle può tornare rosa come la mia e che mica si diventa vecchi così all'improvviso.
E poi non è mai troppo tardi per smettere di essere vecchi, se non ti va più, dico sempre a nonna. Ma lei questo non lo capisce, perciò dice che non è vero.
Quando arriva a giugno e nonna mi chiama, io mi precipito dentro il portone e salgo in fretta in fretta le scale perchè c'è un odore che non mi piace dentro ai muri.
Torta al formaggio e zuppa di cavolo. Che sono le due cose da mangiare più brutte che mi vengono in mente, ma non le ho mangiate mai. Solo che papà dice sempre alla mamma di non cucinarla, sta roba, che non la mangia nessuno, tranne lei, che è una gallina che mangia il mais.
Conto tutti i gradini ogni volta, per vedere se ogni tanto ne aggiungono o ne tolgono qualcuno. Ma da quando conosco nonna, sono sempre ottantacinque. E sono tanti davvero, tanti anche per me, non solo per nonna che non ha più il tempo di invecchiare. Se uno non ha tempo di invecchiare, figurati quello di fare ottantacinque scalini, mi dico io. E' per questo che nonna non esce quasi mai da casa, perchè poi dovrebbe risalire fin lassù e perderebbe un sacco di tempo.
A giugno, nonna sale venti scalini in più perchè va quasi tutte le mattine in terrazza. A pranzo resta lì, perchè il vento d'estate porta aria sudata, dice. E o suda lei o suda l'aria.
Alle sette e mezza spesso sono già lì e lei mi dice sottovoce di andarmi a sedere sulla sedia bianca di lino.
Io non ci voglio mai andare, perchè è bianca e ho paura che sotto ci sia un buco enorme che mi risucchia in chissà quale mondo. E io nonna non la voglio lasciare sola, ha bisogno di me che sono la sua primavera, mi dice. Quella che non muore mai. Anche se a questo non ci credo, che io non muoio mai, voglio dire. Nonna dice che sono un'eccezione, però io non penso. Sto diventando grande come tutti gli altri bambini, non sono un'eccezione. Glielo dico a nonna, vedi sono vecchia anche io. Prima stavo piccola piccola in una mano, adesso sto in un letto lungo quanto me. Nonna ride quel sorriso sordo che non lo riesci mai a sentire e mi dice che c'è differenza tra crescere e invecchiare, ma io non penso. Però a nonna non glielo dico, che per me è la stessa cosa, che vai sempre avanti, mica torni indietro.
Mentre prepara quella salsa rossa rossa nella sua pentola da strega, vado vicino alla tivvù e spingo il pulsante che fa accendere una lucina blu e spingo spingo spingo finchè non vedo la faccia della signora flecccher, che nonna chiama signora in giallo, perchè il giallo è un tipo di libro e lei è una scrittrice di gialli oltre a fare l'investigatrice. Nonna dice che forse porta un pò male, perchè dove sta lei, qualcuno viene ucciso.
Io le chiedo perchè deve sempre morire qualcuno nel suo film giallo e lei mi risponde che è per il suo lavoro.
Allora ho iniziato a pensare che è sempre lei l'assassina, ma nessuno la scopre mai, perchè è troppo gialla e perchè tutti sono troppo impegnati a girare il film e del tipo che è morto non gli frega niente a nessuno.
Nonna dice che nonglienefreganiente non lo posso dire, perchè è un pò una brutta parola, anche se è fatta da più parole.
Comunque la signora in giallo uccide un tipo in ogni puntata, se no perde il lavoro e non la pagano più e non può regalare i giocattoli alle sue primavere.
Mentre nonna ed io mettiamo la salsa dentro tante bottiglie di vetro, mi chiedo se anche lei non ammazzi qualcuno per comprarmi i giocattoli, ma non credo, perchè la mamma mi ha detto che uccidere è sbagliato, anche se c'è un sacco di gente che lo fa e non gli succede niente lo stesso. Forse ci sono tante signore gialle nel mondo che sono troppo distratte a bersi quella cosa verdolina con le bollicine che fanno prizzz e poi ti fa girare la testa e ad andare a quelle cene in cui le donne sono vestite tutte eleganti e gli uomini sempre uguali. O forse mamma si sbaglia e uccidere non è così sbagliato qualche volta, quando proprio bisogna farlo.
Ma questo lo tengo per me.
Ogni volta che nonna schiaccia il telecomando, c'è un'immagine diversa dentro al vetro. Con lei i documentari non li guardiamo mai, invece a casa mia, quella vera, la tivvù è sempre accesa sui denti di uno squalo o sulla foto di strani animaletti pelosi che vivono molto lontani da qui. Ormai ho capito che negli altri posti del mondo sono accumulati gli animali e gli oggetti più strani e pericolosi, mentre qui è un posto sicuro, dove nessuna zanzara-altroanimale ti può pungere e poi muori. Perciò noi abbiamo la signora in giallo che porta male, ma gli altri non possono mai dormire per colpa delle zanzare-altrianimali.
Nonna dice "A ognuno la sua croce".
Quando ero un pò più piccola e sapevo dire solo poche parole, tipo mamma nonna papà asciugamano letto a castello pane pomodoro, a pranzo saliva ad aiutarci anche il nonno, che la mattina la passava a leggere dei libri gialli gialli, ma non gialli come la signora fleccher. Erano ingialliti dal tempo, mi ripeteva nonno. Io mi guardavo la pelle, con la paura di vedermi gialla da un momento all'altro, ma non succedeva quasi mai. Perciò chiedevo quanto tempo ci volesse per ingiallirsi e lì nonno mi rispondeva che dipendeva da quello che eri. Una foglia, un libro, una persona. E io gli dicevo che ero una persona, ma mi sentivo leggera come una foglia. Cioè, non glielo dicevo, perchè non conoscevo abbastanza parole, ma lo pensavo forte forte per farglielo capire.
I libri gialli di nonno non parlavano di morti e investigatori. Ce ne era uno, il più grande di tutti, che era nero lucidissimo più delle sue scarpe quando nonna gliele puliva con una pezzetta e una cosa più puzzolente della torta al formaggio che si spruzzava. Nonno mi diceva che sulla copertina c'era scritto "Gestapo" e iniziava a raccontarmi di quando c'era la guerra e lui e il suo papà in Umbria erano stati presi in una rappresaglia, che è una cosa che fai quando metti insieme un sacco di persone che non hanno niente a che fare l'una con l'altra e gli dai davvero poco tempo per conoscersi, perchè poi dei tipi con tanti fucili gli dicono di stare zitti, perciò quelli non possono più parlare tra di loro. E dopo un pò non possono proprio più parlare. Nonno sa un sacco di cose che nonna non sa sulla guerra e su quando loro erano piccoli e dovevano scappare da un posto all'altro per evitare le bombe. Dovevano essere molto più veloci i bambini prima per riuscire a sfuggire alle bombe così bene. Non credo che adesso sarei capace di sfuggire a una bomba che piove giù, ci sono così tante cose che mi distraggono qui per terra, come faccio a guardare anche su in cielo.
Però la voce con cui nonno mi raccontava tutte queste storie da lontano era davvero bella.
Una voce tutta sdentata, che sgusciava via e mi soffiava nelle orecchie il vento della Polonia e mi faceva sentire i piedi dentro un paio di stivali pieni di neve.
Quando nonno veniva su a pranzo, si siedeva sulla sedia biancopanna e io sulle sue ginocchia a imbottigliare il checiap, come lo chiamavano i signori vestiti a stelle e strisce che avevano fatto salire nonno sul carroarmato e gli avevano insegnato a guidare, che è una cosa come camminare però dentro un grande pezzo di ferro che a volte può andare per conto suo.
Quando versavamo tutto nelle bottiglie, io cercavo di non sporcarmi mai le mani, perchè mi sembrava che mi si arrampicassero sopra tante formiche e restasserò lì a ballare tra un dito e l'altro, come tanti granelli rossi.
Rosso pomodoro appunto.
Come le sue scarpe da pagliaccio.
Era un'ombra gigantesca sopra di me.
E sorrideva storto e acquoso.
Io stavo in piedi, in un angolo della stanza dei divani e delle tivvù di Giada, che faceva sei anni e sua mamma le aveva preparato una torta col liquore dentro e tutti i bambini avevano vomitato sul pavimento, tranne me e giada, che non vomitavamo mai, neanche prima di andare a scuola, mentre tutti gli altri si lasciavano mangiare dalle formiche nello stomaco, perchè non ce la facevano a tenersi tutti quei colori dentro, perciò dovevano risputarli tutti mischiati.
Come la nonna non aveva la pelle rosa, ma tutta a rombi soffici color arcobaleno.
La sua faccia impiastricciata di bianco sporco e macchiette grigie qua e là e quella bocca rossa, così rossa e lunga lunga fino su alle guance.
Mi ha guardata e mi è sembrato che stesse lì lì per annaffiare l'orto, come mi rimproverava nonna, quando piango piango piango che le lacrime mi si rubano gli occhi e non me li ridanno più. Poi è sceso giù, si è seduto accanto a me e si è messo a frugare piano nella sua borsa di plastica bianca, di quel bianco che ci puoi vedere attraverso. Ha tirato fuori un palloncino sgonfio lillà e poi ha tirato fuori anche la voce, che io non avrei creduto mica ci sarebbe riuscito. Con tutta l'acqua che gli spegneva gli occhi, come faceva ad avere anche una voce che funzionasse come si deve. Infatti non funzionava bene per niente, era tutto uno scricchiolio, un ronzio che veniva su su da dove si vomitano i colori, come quando nonna metteva i puuuh nel giradischi e c'era quel bzzz che rompeva le bollicine d'aria tutt'intorno.
- Come lo vuoi il palloncino?
Era la prima volta che parlavo con un pagliaccio e non sapevo bene cosa si doveva rispondere. Perciò per un pò sono rimasta a guardare i suoi occhi spenti e non ho detto niente. Lo guardavo e pensavo che non dovesse riuscirgli molto bene fare il pagliaccio, perchè da quanto avevo capito dovevi essere davvero molto più simpatico della media della simpatia per essere un bravo pagliaccio.
E i pagliacci tristi non fanno ridere nessuno e sono utili quanto il morto della signora gialla.
Che sa tutta la verità, anche chi lo ha ammazzato, ma non può più dirla. E non è per niente giusta come cosa.
- Va bene un cagnolino? Ti piacciono i cagnolini?
Era anche la prima volta che vedevo un palloncino che si trasformava in un cane, perciò un pò le zampine delle formiche mi stavano solleticando forte. Ma solo un pò.
Così ho fatto sìsì con la testa, ma non ho sorriso.
Ho aspettato di vederlo nascere tra le sue mani grandi, il mio cagnolino lillà: prima la testa con le orecchie a punta a punta, il corpo, le zampe larghe e poi la coda tutta frizzante.
Era perfetto. Quasi vivo.
Mi sono avvicinata al signor pagliaccio e gli ho chiesto
- Hai una penna, signor pagliacciodagliocchidighiaccio?
Lui mi ha guardata, strizzando gli occhi, senza capire, però mi ha dato subito una penna violachiaro quasi come il mio nuovo cagnolino.
Io gli ho detto grazie, signor pagliaccio e poi ho bucato il palloncino con la penna.
Lui non ha detto niente.
Ha solo continuato a guardarmi e a scolarsi le risate chissàdove.
- Prima che si sgonfi da solo, lo devo sgonfiare io. Gli voglio già troppo bene- ho detto.

domenica 21 febbraio 2010

.Quando il chiacchiericcio delle zanzare nella pancia c'era ancora.


C'era una volta quando ancora c'era l'estate.
E d'estate non c'era mai il silenzio.
Il ronzio del chiacchiericcio delle zanzare mi mangiava la pancia, faceva il solletico al buco caldo tutt'intorno a me. Respiravo a morsi d'aria piccoli piccoli, però non volevo mai smettere di correre d'estate.
E quando c'è il sole, su in alto e hai sei anni o giù di lì non puoi che fermarti a masticare l'aria che ti si scioglie addosso in goccioline bollenti, come l'olio quando la nonna Clara lo fa friggere nella padella e fa pzz pzz e cikk cikk mentre il fuochino tutto viola sotto si gonfia sempre di più.
Oggi al parco cadono sorrisi.
Le nuvole sono aquiloni monotono che dispiegano le loro ali d'angelo.
Solo che non le riconosci subito, che sono ali d'angelo e non gli stracci di stoffa che usa la nonna Clara per asciugare i piatti, sul tavolo alto e scuroscuro della cucina.
Hanno tutti quei rami sfilacciati che crollano giù come in una pioggia di coriandoli e tu cerchi di capire se stiano solo cercando di rapirti o vogliano scendere giù un pò, qui dove ci sono i miei piedi, i tuoi piedi e anche quelli di nonna Clara e giocare a nascondino lì tra i limoni grandi che crescono in obliquo sulla montagna piccola- una collina, dice la nonna Clara. Forse neanche.
Forse è perchè io sono così piccola che la collina mi sembra una montagna.
Anche se nonna Clara non mi ha saputo spiegare bene che differenza c'è.
Mi ha solo detto che quando diventerò più grande tutto mi sembrerà lo stesso una montagna e non ci saranno più colline. E questa è una cosa che mi ha fatto stare in pensiero per le colline. Ho pensato che non fosse molto giusto che le colline scomparissero quando diventi grande.
Perchè scalare una collina non è come arrampicarsi su una montagna.
Ma sono due cose diverse e forse anche per me sarà diverso.
Almeno una collina, anche solo una, la voglio quando sarò grande.
Sulle montagne posso piantare i limoni? chiedo a nonna clara.
Ma lei mi dice che c'è troppa neve sulle montagne perchè ci cresca qualcosa.
E io allora- io che non l'ho vista mai, la neve- apro il mio zainetto tutto viola con i fiori un pò celesti ma anche un pò grigi e tiro fuori dei fogli biancolatte per disegnarci su la neve.
Perciò chiedo a nonna clara com'è la neve, lei che l'ha vista.
E lei non mi risponde.
Perciò io glielo richiedo più forte, perchè magari non mi ha sentito.
La tivvù è così alta e nonna clara sembra così piccola, sprofondata in quella poltrona verde verde dove fino a un anno fa ci si addormentava il nonno.
Ma lei si gira e basta. Verso di me, che stringo la matita in mano e la tengo tutta sghemba. Così mi ha detto la maestra, la devi tenere così la matita. E quando io le faccio vedere che la tengo come dice lei, mi accarezza i capelli e mi dice brava.
Ma quando lei si gira io rimetto la mano come prima.
Perchè ci scrivo meglio, così, tutta stesa a sinistra o a destra. Mai dritta.
Devo uscire sempre un pò fuori dal banco.
Perciò nonna Clara si gira e io vedo che c'è una lacrima blu sulla sua guancia trasparente. E che quei fili grigioverde che abbiamo sotto la pelle se la stanno mangiando. E allora capisco che la neve è come una lacrima e non la puoi dire nè disegnare. Sta lì a scorrere giù dal cielo, un mantello di bufera, e poi s'attacca giù ai miei piedi e mi ghiaccia la lingua e mi bagna i capelli.
E soprattutto capisco che poi si scioglie.
Che poi si scioglie e non è più estate per me.
Per tutti gli altri sì, perchè c'è il sole, quello vero.
Ma per me non è più la stessa cosa.
La collina del parco mi sembra già un pò più alta.
E mi si impiastriccia tutta la faccia di neve.

Tristan V. P./ Giulia "Mafalda" G.

venerdì 19 febbraio 2010

Perchè io ho la sensibilità del calcestruzzo e questa non è una recensione. [Rileggendo "Biondo 901"].




E' mercoledì diciassette febbraio duemilaedieci e a mezzogiorno mi suonano alla porta.
Io starei anche in pigiama, in una mano un manuale di seicento pagine sulle vie extra-occidentali di liberazione dal dolore, nell'altra una tazza più alta di me piena di thè aromatizzato alla sambuca. O meglio di sambuca aromatizzata al thè. Ma questa è un'altra storia.
Mi avvio al portone, mentre le mie pantafole arancioni a fiori mi precedono per accogliere un postino disorientato che affonda sotto il peso di una gigantesca scatola di cartone firmata ibs.
Credo che la foga con cui mi sia avventata sul pacco lo abbia leggermente spaventato, ma sono dettagli sorvolabili del nostro racconto. Ad ogni modo, torno dentro la mia stanza e, a suon di forbici, con non troppa facilità, riesco ad aprire la scatola e a tirar fuori tra i vari acquisti la mia copia di "Biondo 901" di Alessandro Zannoni.
Quando inizio a sfogliarlo, mi viene in mente quel pezzo del vecchio Salinger in cui Holden dice "Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare tutte le volte che ti gira. Non succede spesso, però". Ecco, il fatto strano ora è che Zannoni è stato un pò la variabile di questi ultimi giorni. Inizio a pensare che se il suo romanzo mi spacca ben benino, ipse dixit, posso scriverci un pò su e farglielo sapere, insomma. Comunicargli che non ha proprio del tutto sbagliato strada, che il suo messaggio è arrivato chiaro e tondo, domandargli quale fosse il messaggio, chiedergli se avesse un messaggio da lanciare con ricevuta di ritorno. Cose del tipo, insomma. E penso che tutto questo sia bello, in qualche modo, che crei quella rete di contatti necessaria per farti capire se il tuo figlio di carta s'è fatto grande abbastanza da esser libero di andare in giro anche senza di te.
Per questo seguo il consiglio di Zannoni, mi metto comoda e schiaccio il tasto play.
La prima cosa che capisco è che quest'uomo avrebbe dovuto far cinema.
Ero seduta sul mio divano a fissare le parole che si rincorrevano nel bianco e adesso sono sospesa nel vuoto e guardo giù. Due uomini che ne inseguono un altro, nel cono di luce di due fari che violentano la notte. Giordano corre a perdifiato, costeggia la spiaggia, non ha la forza di guardarsi indietro. Non può perdere tempo. A parlare a te, a te che stai leggendo, è la sua voce roca che gli riempie il vuoto d'aria nei polmoni. Sbocca conati acidi di terrore, scrive Zannoni.
Okei, ora metti in pausa e riavvolgi il nastro, che la cassetta si rovina.
Clicca su rewind e ballaci dentro per un pò.
Giordano impari a conoscerlo, è un parrucchiere, vede la vita a colori numerati, la realtà la ripartisce tra i suoi tubetti di tinta ordinati in scala cromatica. E' un tipo inquadrato, ma non troppo. Gli piacciono le donne, ma non è un amante dei legami. Vive secondo uno schema di regole ben preciso e cerca di non sgarrare mai, perchè sa che una volta rotti gli argini, è difficile smettere di annegare.
Giordano tutto questo lo sa, ma l'hai lasciato lì ad annaspare sul ciglio del marciapiede, che il destino gli girava abbastanza contro. Perciò qualcosa deve essere andato storto.
E' matematico che la matematica non sia infallibile.
L'errore dell'equazione, che è la vita di Giordano, si riflette nello specchio del suo negozio. Un caschetto biondo, due occhi che sono pezzi d'oceano e una storia di principesse kazake e di terre in miseria.
Giordano sa bene che da lì in poi sarà tutto un precipitare a testa in giù. Ma sbaglia per necessità, perchè sente di poterselo permettere, dopo una vita passata a lavorare per avere un pò di tempo soltanto per sè. E Letvania, beh, gli pare un gran bel modo di sbagliare. Preciso, direbbe Zannoni.
Il suo amico Fabio B. l'aveva avvertito. Mai innamorarsi di una puttana, diolai. Che poi, a dircela onesta, Giordano non ne era certo che Letvania fosse proprio una puttana. Poteva esserlo, non era da escludere, ma non c'era comunque da porsi il problema. Non sapeva più di tanto della sua vita, la sentiva complice della sua libertà provvisoria e questo era tutto quello di cui aveva bisogno al momento.
Un giorno Letvania scompare e Giordano capisce di aver perso un bel pezzo di sè.
Da qui parte l'incubo tutto in corsa verso quella spiaggia.
Col sangue che pulsa feroce dappertutto, Zannoni smonta le scene di questo valzer d'amore noir, perchè di base deve essere un romantico coi controcazzi. Uno che per una donna farebbe di tutto e per la letteratura il minimo indispensabile, ipse dixit. Perciò un pò d'amore, anche se scuro, rubato, nascosto, doveva parlarne per forza. Per dare un colore diverso a questo primo piano che è la faccia di Giordano, sul selciato del marciapiede, in attesa dell'ineluttabile. Quel colore che non stava in nessun tubetto di tintura, se non nel biondo 901 di Letvania.
Romanzo corale a quattro voci, pochi tratti essenziali e necessari, centoventi pagine di inchiostro cinico in cui Zannoni scioglie le immagini della sua terra, come un odore lontano sullo sfondo. Tra i diolai di quel buon diavolo di Fabio B., i ricordi rigati e gli occhi spezzati di Letvania e l'amarezza d'odio triste di Doppiopetto, Giordano corre spaventato, incapace di tornare al nido sicuro e senza scosse che era la sua vita prima. Senza neanche troppa voglia di farci ritorno, in fin dei conti.
Sotto il peso della sua disperazione, sente che annegarci in quell'errore è la sua unica alternativa.
E tutto perchè a non dargli ascolto a quel pazzo di fabio b. ci si perderà sempre e comunque.

A questo punto, posso dirlo. Che Zannoni sa scrivere, che non ha sbagliato strada. E che, ora come ora, avrei propria voglia di alzare la cornetta e dirgli che diolai, se ha un bel talento.
E anche che scrive come mangia, che è una gran cosa.
Qualcosa che ti fa distinguere in tutto quel farsi di retorica e melodramma, che ti fa venir voglia di lasciarle lì da sole, quelle povere parole, messe così talmente a incastro che a tirarne fuori una, cade giù il castello.
Ma questo non vorrebbe sentirselo dire, perchè non se la vede bene addosso la parola "scrittore".
E forse è proprio questa la variabile buona. La sua, perlomeno.

Tristan V.P./ Giulia G.

martedì 16 febbraio 2010


Le unghie di Gioia graffiano la parete della mia stanza in controluce. Sono capocchie di spillo, piccole teste di insetti filiformi, affilati da un coltello maldestro. Picchiettano feroci le loro zampe senza tregua negli spazi d'aria lasciati vuoti dai suoi respiri.
Le sue mani malate di bianco accarezzano il mio collo nervoso, sciolgono i nodi, liberano i buchi di memoria delle mie sequenze intermittenti.
Mi rimescolo con Gioia, questa sera.
La mia camera diventa gli occhi da cui osserva il mondo, murata in un carcere di storie che non vuole riportare alla memoria. Storie di sangue, di una madre distratta, di un padre insoddisfatto, di un fratello che è metà d'anima.
Dimentico la mia identità e la seguo, mentre lei si volta, leggera nel suo sorriso tutto di seta, il sapore color panna di una fine interrotta la colora in negativo.
Posso ascoltare lo scricchiolio della sedia a rotelle contro il legno marcio, quella sedia che un tempo erano le sue gambe. Spezzata, Gioia. Si è spezzata, una persona a metà, cammina in due direzioni diverse e non sa più ricordare come vivere a tempo. Gioia è fuori da ogni spazio. Gioia è fuori da ogni definizione. Si è rifugiata in quell'utero di madre dove poter consumare la sua invisibilità, le sue mancanze, le sue assenze, il suo essere diversa da. Gioia è una creatura del limine, non cammina mai al centro delle cose.
Mi parla da lontano.
Coniugata dagli altri come una fragilità virile, lei si declina in una furia al femminile.
Accorda il suo soggetto, come una pluralità di ricordi, aggrappati alla vita di qualcun altro.
Ed entra inl circolo l'inchiostro nelle sue vene. Si gonfiano di blu alcolico e di riflessi giallo limone, mentre le parole crollano tra i campi minati di una Napoli rosicchiata dal sole e di storie milanesi di periferia.
Corre sui bordi, Gioia. Sorride d'amore, non ne può fare a meno.
Innamorata, ecco.
Se dovessi scegliere un solo aggettivo per ricreare i suoi contorni, è questo che sceglierei.
Vorrei chiederle come è riuscita a attraversare questi anniluce, senza trascriversi addosso il silenzio di piombo, là fuori. Vorrei poter toccare la sua pelle, leggervi codici nascosti di conversazioni mai avvenute, far girare ancora una volta quel brivido roco che annacqua i suoi polmoni d'acquarelli grigioneri.
Vorrei poterle domandare come sia sopravvissuta.
Annusare l'odore di nicotina tra i suoi capelli e lasciare che siano loro a raccontarmi il vento rapace che l'ha portata via dai giochi antichi. Che le ha strappato il senso di essere e donare gioia incodizionatamente.
Vorrei poterla risvegliare dai suoi battiti spenti di coscienza, essere quel paio di labbra per ridarle colore, ridisegnarla di rosso tra i suoi frammenti anestetizzati, farmi carta su cui sputarsi via, essere per lei terapeutica parola.
Gioia è androginia di donna che danza nel corpo di una sirena martoriata.
Passo dopo passo, ai margini di ogni genere.
E' una notte selvatica, è serpente che cambia la pelle, è luna al primo quarto, quando tutto ancora può accadere, è pioggia metereotica che sotterra l'odio che traspira dalla terra.
Gioia è la metaformosi di chi non ha un posto proprio in cui stare e forse non ce l'ha mai avuto.
Niente più a questo mondo mi appartiene, mi sussurra.
Canticchia, Gioia, spostandosi leggera avanti e indietro, in una meccanica allucinazione.
Una canzone d'amore in disuso, per tempi migliori.
Gioia è amore.
Gioia ama e non ha più paura di farlo.
E nient'altro ha importanza ora.

E tutto questo è Pozzoromolo.
Transessualità dell'anima.
La moltitudine che ci vive dentro prende voce e rompe ogni schema identitario.
E ci fa rispolverare un pò di quel deserto che s'affanna a farci prigionieri.
Gioia ci insegna a curarci dal sangue e dalla morte.
Perchè il suo nome è luce e non può che riflettere altro che una dissolvenza al buio.
Che vive, vive, vive e torna a farci scorrere.

Tristan V. P./ Giulia G.