martedì 16 febbraio 2010


Le unghie di Gioia graffiano la parete della mia stanza in controluce. Sono capocchie di spillo, piccole teste di insetti filiformi, affilati da un coltello maldestro. Picchiettano feroci le loro zampe senza tregua negli spazi d'aria lasciati vuoti dai suoi respiri.
Le sue mani malate di bianco accarezzano il mio collo nervoso, sciolgono i nodi, liberano i buchi di memoria delle mie sequenze intermittenti.
Mi rimescolo con Gioia, questa sera.
La mia camera diventa gli occhi da cui osserva il mondo, murata in un carcere di storie che non vuole riportare alla memoria. Storie di sangue, di una madre distratta, di un padre insoddisfatto, di un fratello che è metà d'anima.
Dimentico la mia identità e la seguo, mentre lei si volta, leggera nel suo sorriso tutto di seta, il sapore color panna di una fine interrotta la colora in negativo.
Posso ascoltare lo scricchiolio della sedia a rotelle contro il legno marcio, quella sedia che un tempo erano le sue gambe. Spezzata, Gioia. Si è spezzata, una persona a metà, cammina in due direzioni diverse e non sa più ricordare come vivere a tempo. Gioia è fuori da ogni spazio. Gioia è fuori da ogni definizione. Si è rifugiata in quell'utero di madre dove poter consumare la sua invisibilità, le sue mancanze, le sue assenze, il suo essere diversa da. Gioia è una creatura del limine, non cammina mai al centro delle cose.
Mi parla da lontano.
Coniugata dagli altri come una fragilità virile, lei si declina in una furia al femminile.
Accorda il suo soggetto, come una pluralità di ricordi, aggrappati alla vita di qualcun altro.
Ed entra inl circolo l'inchiostro nelle sue vene. Si gonfiano di blu alcolico e di riflessi giallo limone, mentre le parole crollano tra i campi minati di una Napoli rosicchiata dal sole e di storie milanesi di periferia.
Corre sui bordi, Gioia. Sorride d'amore, non ne può fare a meno.
Innamorata, ecco.
Se dovessi scegliere un solo aggettivo per ricreare i suoi contorni, è questo che sceglierei.
Vorrei chiederle come è riuscita a attraversare questi anniluce, senza trascriversi addosso il silenzio di piombo, là fuori. Vorrei poter toccare la sua pelle, leggervi codici nascosti di conversazioni mai avvenute, far girare ancora una volta quel brivido roco che annacqua i suoi polmoni d'acquarelli grigioneri.
Vorrei poterle domandare come sia sopravvissuta.
Annusare l'odore di nicotina tra i suoi capelli e lasciare che siano loro a raccontarmi il vento rapace che l'ha portata via dai giochi antichi. Che le ha strappato il senso di essere e donare gioia incodizionatamente.
Vorrei poterla risvegliare dai suoi battiti spenti di coscienza, essere quel paio di labbra per ridarle colore, ridisegnarla di rosso tra i suoi frammenti anestetizzati, farmi carta su cui sputarsi via, essere per lei terapeutica parola.
Gioia è androginia di donna che danza nel corpo di una sirena martoriata.
Passo dopo passo, ai margini di ogni genere.
E' una notte selvatica, è serpente che cambia la pelle, è luna al primo quarto, quando tutto ancora può accadere, è pioggia metereotica che sotterra l'odio che traspira dalla terra.
Gioia è la metaformosi di chi non ha un posto proprio in cui stare e forse non ce l'ha mai avuto.
Niente più a questo mondo mi appartiene, mi sussurra.
Canticchia, Gioia, spostandosi leggera avanti e indietro, in una meccanica allucinazione.
Una canzone d'amore in disuso, per tempi migliori.
Gioia è amore.
Gioia ama e non ha più paura di farlo.
E nient'altro ha importanza ora.

E tutto questo è Pozzoromolo.
Transessualità dell'anima.
La moltitudine che ci vive dentro prende voce e rompe ogni schema identitario.
E ci fa rispolverare un pò di quel deserto che s'affanna a farci prigionieri.
Gioia ci insegna a curarci dal sangue e dalla morte.
Perchè il suo nome è luce e non può che riflettere altro che una dissolvenza al buio.
Che vive, vive, vive e torna a farci scorrere.

Tristan V. P./ Giulia G.

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