domenica 30 maggio 2010

[Bocca contro tempia.]


Mi puntavi addosso la tua bocca storta, quelle labbra arrabbiate che si facevano la guerra, sempre a strapparsi la carne dal nervoso.
A volte mi sembrava che volessero masticarmi gli occhi, sgranocchiarli piano, con gusto, tra brividi squisiti. Trangugiavi tutti i miei incubi, non perché volessi salvarmi. Non ne hai mai avuto intenzione.
Volevi solo avere qualcosa da sognare. Una storia da raccontare, a modo tuo, come un disco rotto che gracchiava. Ti sentirei ridere in una piazza affollata, sai. Saprei riconoscere tutte le tue incertezze, tante quante le lame che mi hai tirato contro. Mi tremerebbero le unghie a riascoltare quel ronzio tutto singhiozzi e nero liquido che certe volte ti chiudeva la gola.
Ho contato tutte le tue lacrime, una ad una.
Ti ho fatto ammalare e tu mi hai lasciato in una gabbia di silenzio.
Ti ho visto perderti, ti ho preso per le spalle e ti ho scosso fin nelle ossa.
Ti ho fatto strada e tu l'hai fatta a me.
Mi hai dato, per quanto hai potuto, l'equilibrio di cui avevo bisogno per rimanere sul filo del rasoio.
Ti ho dato, per quanto ho potuto, la mia irrequietezza da puledra impazzita.
Ti ho imboccata con le pillole di tutte le mie giornate tra parentesi.
Mi hai servita su vassoi d'argento la paura del buio di tutte le tue notti.
Le tue lacrime io non le ho asciugate, no.
Ho sempre pensato che ci fossero dei limiti che non potevo superare.
I confini invisibili che separavano la mia vita dalla tua.
I nostri corpo a corpo in cui finivamo sempre entrambe al tappeto.
Eravamo un riflesso troppo asimmetrico per continuare ad incontrarci su questa terra.
Non avrei mai voluto che andasse a finire così.
Ce ne era fin troppo di silenzio nella mia vita.
Non volevo chiudere la bocca anche con te.
Ho capito di non essere mai stata tanto vicina a nessuno da abbracciare ogni sua tristezza.
Ti ho chiamato sorella, ti ho lasciato vivere nelle mie stanze, sono entrata nelle tue. Ti ho detto parole di rabbia, rancore, invidia. Ti ho dato conforto, affetto, sostegno.
Sempre da lontano. Perchè così sono, lontana. Inafferrabile anche per me.
Non avrei mai potuto essere tua come tu desideravi.
Semplicemente perchè non riesco ad appartenere neanche a me stessa.
E tu mi volevi tutta, fin nelle ossa. Volevi rubarmi la voce a forza di tracheotomie, volevi che ti parlassi per rapinarmi di tutte le parole che non avrei mai saputo dirti, che non avresti mai saputo leggere.
Ero alla deriva da tutti i tuoi punti fermi.
Il primo pezzo di roccia che si stacca dalla pangea.
Ero sola, completamente sola, di una solitudine che io sola conoscevo e mai avrei saputo spiegartela.
Ora sono naufragata in una primavera fredda.
La mia voglia di scappare è sempre la stessa, continuo a credere che sia l'unica soluzione per me.
Ma questa mattina mi sono svegliata con la tua bocca puntata contro la tempia.
Mi lascio sbranare.
E' così che deve andare.

domenica 16 maggio 2010

Prologo.

- Se c'è una cosa che non sopporto sono le donne che riescono a parlare per più di quaranta minuti delle loro fottute mestruazioni.
Lo dico a voce alta. Troppo alta, voglio dire.
Credevo di averlo solo pensato, ma ultimamente mi capita di dire quasi tutto quello che mi passa per la testa e non è che le cose vadano un gran che bene.
Rapporti umani e altre puttanate new age.
Non che lo faccia apposta, chiaro.
L'ultima cosa che mi verrebbe in mente è provocare qualcuno per cercare di scambiarci quattro parole in croce.
Voglio dire, so già che parlare è quasi sempre inutile.
Prima di tutto ci deve essere qualcosa da dire.
Ed è una cosa che mi capita a scadenza meteoritica.
Soprattutto se si parla di sangue e di fica.
No, non è mai stato da me. Non sono una bestia da ring.
Quando si tratta di fare a botte, mi tiro sempre fuori.
Mi dicono che penso troppo a salvarmi le palle, che non faccio altro che scappare quando dovrei restare, prendere posizione e altre puttanate new age.
Ogni volta domando se ci sia qualcos'altro da fare in questa vita.
Nel migliore dei casi ho ottenuto qualche sopracciglio alzato per la perplessità.
Nel peggiore, copie difettose di madre teresa mi hanno crocifisso con tirate chilometriche sull'amore universale, senza neanche pagare i diritti d'autore a gandhi. Innegabilmente un brav'uomo, ma troppo ottimista.
E gli ottimisti mi hanno fatto sempre prudere le mani.
Per questo ho cercato di tritare i pensieri scomodi nel frullatore quando mi pareva fosse indispensabile. Il che accadeva sulle trenta, quaranta volte al giorno.
Ti ritrovi a vivere con un setaccio in mano.
Può essere stancante, ma alla fine ti ci abitui, diventa un riflesso automatico.
Ascolta, setaccia, trita, scarica nel cesso.
Una serie di gesti ripetuti in sequenza.
Una buona tecnica di sopravvivenza.
Il vantaggio è che ti ritrovi con un sacco di coriandoli da sparare in aria a carnevale.
Il rischio, invece, è che in una giornata come questa il setaccio decida di rompersi e ti lasci con qualche buco in una parte imprecisata tra la testa e la bocca a scolare rifiuti di neuroni e redbull cola da tutte le parti.
In momenti così la cosa più importante da fare è non perderti d'animo, raccogliere tutto il tuo buon senso e dire il meno possibile per non dare troppo nell'occhio.
Ho ancora molto da imparare al riguardo.
Riguardo al buon senso, si intende.
Sono stata una statua di gesso per anni.
Non ho mai avuto abbastanza carattere per incazzarmi quanto avrei dovuto.
E' una cosa che, nonostante tutto, ha i suoi vantaggi.
Quasi nessuno pensa male di te. Quasi tutti finiscono per convincersi davvero che tu sia una creatura del tutto inoffensiva.
Infinitamente buono, incredibilmente paziente, inesorabilmente innocuo.
Non ti lamenti, non sollevi mai problemi, sorridi quando devi.
Diventi trasparente. Ma quasi nessuno riesce a guardarti attraverso.
Sei inavvicinabile per tutti, per te più che per gli altri.
Il tuo sorriso indecifrabile ti dà anche quella giusta dose di fascino da Gioconda al Louvre, un pezzo d'arte chiuso a chiave in un museo. Trafugato da una casa all'altra, da una persona all'altra, come un premio di consolazione.
Diventi la discarica perfetta, la valvola di sfogo che non può esplodere, la cassaforte dei segreti più indecenti.
La cosa che spesso la gente dimentica è che ogni volta cambi la combinazione.
Lo fai per sopravvivere.
Ma non sempre funziona.
Continui a sentirti addosso la maglietta tutta stropicciata e imbarazzante che ti mettevi a dodici anni e che non trovi ancora il coraggio di buttare.
E dopo un pò capisci che stai perdendo il polso e che molti hanno già gettato la spugna. Ti trattano con condiscendenza, ti prendono così per come vieni, ti vogliono bene, perfino, come si può voler bene a un gatto che sta lì lì per tirare le cuoia, ma si deve aspettare, che la morte non arriva mai quando ti servirebbe.
E poi smettono di provare a decifrare il tuo silenzio, sarebbe un buco nell'acqua e non c'è nessuna garanzia che ci sia qualcosa di scandalosamente interessante sotto.
Ti lasciano lì in un angolo a fare numero.
Potresti diventare un tutt'uno con la sedia, ti sfido a trovare qualcuno che se ne accorga prima della chiusura del locale.
Sei una presenza di cui non si può più fare a meno.
Sarebbe come se un giorno ti svegliassi e andassi dritto a togliere il centrotavola in salone. Non lo faresti mai, ci son cose che ci sono da sempre, sempre nello stesso posto e lì devono restare.
Il rischio è che finisci per convincertene anche tu, se non tieni alta la guardia.
In un modo o nell'altro, ti ritrovi senza denti.
E se non hai una bocca per parlare, figurati per mordere.
Le strade che ti restano a questo punto della storia in genere sono due: essere completamente sordo o completamente ubriaco.
Spesso capita di scegliere la seconda, anche se a pensarci bene, la prima sarebbe molto più economica a lungo andare. Ma la maggior parte della gente ha una soglia del dolore troppo bassa, perciò quasi tutti si ritrovano ad investire in cocktails con ombrellini tropicali, sedativi di serenità liquida spruzzati di limone e inzuppati nella soda ad una modica cifra di sette sacchi l'uno.
Non voglio tirarla troppo per le lunghe, ma chiunque abbia un minimo di parsimonia, sceglierebbe sicuramente la prima opzione. Sfortunatamente il buon senso non va d'accordo con la parsimonia e io non sono mai andata d'accordo con nessuno dei due.
Soprattutto se si parla di sangue e di fica.
Per quaranta minuti.
Su un fottuto treno già in ritardo di tre ore.

venerdì 2 aprile 2010

"Bisogna studiare Baudelaire".

Era una mattina d'aprile quando arrivarono.
Sentii i loro passi pesanti sul vialetto di ghiaia fuori casa.
Camminavano pestando i piedi sul selciato tutto scheggiato, ogni passo era un cratere di vuoto che s'apriva, un sorriso rapace come una macchia a fare ombra sulla terra. Camminavano e non avevano dubbi. Respiravano perchè così gli veniva richiesto. Un rantolo metallico che gracchiava nell'aria spenta e si mescolava alle risate che non avevano voglia di ridere. Ridevano perchè così gli veniva richiesto.
Perchè è così che uccide il male, ridendo, gli era stato detto.
Erano usciti dal grigio della stanza così come vi erano entrati un'ora prima.
Niente domande, nessuna risposta. Solo una serie di ordini in sequenza.
Due ricettori di comandi esperti come loro non erano certo tipi da porsi problemi di questa sorta. D'altronde non disponevano già da tempo dei mezzi per farlo. Niente del mondo in cui erano cresciuti avrebbe potuto permettere loro di agire in maniera diversa.
Programmati per decodificare un codice cifrato di informazioni essenziali, avevano ormai perso la capacità di elaborare prodotti che non rientrassero nei canali stabiliti dal Ministero dell'Aculturazione e della Distruzione dei beni culturali.
C'erano stati anni di lotte, ma quasi nessuno ormai ne aveva memoria.
Chi era sopravvissuto era ancora troppo piccolo all'epoca per poter ricordare.
E i morti, si sa, non hanno voce.
Molti di loro s'eran portati nella tomba i figli assieme a un mucchio sparuto di idee andate a male, lanciate come lacrimogeni contro le barricate degli aculturatori, mentre nei loro laboratori di scrittura creativa si continuavano a progettare armi intelligenti. Quelle sì che avrebbero fatto la differenza, avrebbero finalmente posto fine ad anni di silenzio.
Dopo mesi di resistenza, fu vietata la libera circolazione nelle strade per irreversibile stato di inagibilità.
Il sangue dei loro annacquava ogni via, s'era infiltrato negli scantinati, si riversava dai tetti rotti nelle case dei rifugiati- il sangue dei loro figli scavava piogge acide negli occhi vecchi dei padri, divorava i ventri disperati delle madri.
I genitori si trovarono costretti a vietare ai loro bambini di andare a giocare nei parchi, di frequentare le scuole, di leggere loro le favole, giudicate come tendenziosi prodotti della contocultura antigovernativa, ritenute responsabili di poter dare adito a ideologie di rivolta basate sulla rivendicazione del diritto alla libertà di pensiero e di parola.
Fu emesso un decreto-legge che imponeva ai bambini dai tre ai sei anni d'età una visione quotidiana della televisione di tre al giorno, dai sei ai dodici di dieci ore al giorno, dai tredici ai venti di quindici ore al giorno fino al limite massimo per i pensionati di ventiquattro ore al giorno.
E a quel punto capirono. Che nessuna arma avrebbe fatto la differenza, perchè se delle idee non sapevano più che farsene, figurarsi dei romanzi.
Una distesa di sepolcri bianchi inerpicata tra le reti fognarie sarebbe stata l'unica traccia della loro esistenza. Nessun nome, nessuna data, nessun luogo di nascita e di morte.
Gli ultimi strenui difensori delle parole scritte avrebbero lasciato questa terra senza un biglietto d'addio prima di tirare le cuoia.
Centinaia di corpi furono portati nelle poche campagne ancora non cementificate.
Fu uno spettacolo molto suggestivo.
Io lo so, perchè c'ero.
I miei occhi di bambina non hanno dimenticato niente.
E ancora adesso vedere il fuoco mi mette un freddo viola addosso.
Mio padre era ancora vivo quando fu ricoperto di carta dalla testa ai piedi.
Mia madre giaceva al suo fianco, riversa su un fianco, un vestito di lino bianco a cingerle la vita. La sua mano, ancora gelida di rabbia, stringeva quella di mio padre in una morsa convulsa, quel buco nero in faccia di chi sa d'aver lottato per anni controvento. Di chi sa che avrebbe perso fin dall'inizio, ma aveva sperato che non dovesse davvero finire così.
Mio padre non sarebbe mai morto. E così è stato.
Anche quando i fogli che gli strangolavano la gola iniziarono a prendere fuoco, lui era certo di non star morendo davvero.
Perchè aveva lasciato me. La traccia più grande della sua vita sulla terra. E io mi sarei salvata.
Avevo vissuto poco e non sarei vissuta a lungo, questo lo sapevamo entrambi.
Ma se avessi avuto fortuna, sarei riuscita a masticare ossigeno ancora per un pò, tanto quanto sarebbe stato necessario.
Mio padre è stato sempre troppo idealista.
Per questo non ho mai sopportato l'ottimismo della gente intorno a me.
Mancavano di senso della realtà, le loro verità non avevano lo spessore giusto, erano prive di quella crudezza ruvida che solcava irriverente le mie labbra senza sonoro.
Guardando bruciare contro il suo petto nudo l'ultimo duello tra achille ed ettore, l'odore delle puttane di Bukowski, i capelli grigi del vecchio Holden, il rifiuto categorico di Bartebly, capì che niente di tutto quello sarebbe più esistito un giorno. Che la mia solitudine sarebbe stata immensa perchè il mondo stava andando in un'altra direzione e non ci sarebbe stato più spazio per le parole.
Non erano fonte di guadagno, non erano redditizi prodotti di scambio e richiedevano un costo di manodopera insostenibile con la crisi finanziaria di quei tempi.
Capii che tutto ciò che gli altri consideravano inutile e facoltativo, per me sarebbe stato necessario e imprescindibile. E in queste condizioni, le prospettive di un contatto umano andate a buon fine, già lo immaginavo, non sarebbero potute essere molte. Mi stavo condannando a una prigione di carta.
Ma scelsi la sola alternativa che mi era rimasta.
Mentre i versi di Sylvia Plath morivano nella bocca di mio padre, uno spaventapasseri mangiato dai corvi, decisi che sarei diventata una scrittrice, che avrei letto, letto fino allo sfinimento, all'esaurimento di ogni mia forza, perchè soltanto in questo modo avrei potuto morire incontaminata.
Non pensavo di cambiare le cose, sia chiaro.
Facevo già parte di quella generazione di niente vuoto e di cattiveria gratuita.
La generazione degli urlatori da mercato.
Non di quelli che imbracciavano il megafono per dar voce a un messaggio di cambiamento, che si portavano dentro la luce del terremoto, l'ordine nuovo dopo la scossa.
I miei coetanei- me ne accorsi ben presto- gridavano per sovrastare le loro comunicazioni con i fili del telefono staccati e i cavi dell'elettricità fulminati.
Le loro grida sparate attraverso schermi di vetro al plasma raccoglievano il niente che gli brontolava nella pancia, rompendo l'aria nell'esplosione di un disordine spigoloso povero di immagini, fatto di spazi bianchi, senza più inchiostro liquido da ingoiar giù.
Un giorno una delle mie più care amiche venne da me e mi disse
- Non riesco più a sognare. Non lo faccio da mesi.
Le risposi che avere fantasia non era una prerogativa richiesta nel nuovo ordinamento scolastico, dopo l'ultima riforma del ministero dell'istruzione.
Lei mi abbracciò appena, sorrise la sua gioia artificiale e tirò un sospiro di sollievo indotto.
Mio padre aveva predisposto tutto per me.
Avevamo una piccola casa in campagna in cui non andavamo quasi mai. Mia madre ripeteva spesso che a volte si perdeva ad immaginarci tutti insieme noi tre, lontani dalla vita in città, liberi da ogni frenesia, tra quelle pareti murate vive di libri che sapevano d'erba bagnata e scricchiolavano tra le mani come granelli sottili di sabbia.
Su una mappa aveva disegnato tutta la strada che avrei dovuto percorrere dalla campagna in cui fu ucciso alla nostra casa. Una volta arrivata lì, avrei trovato tutte le indicazioni che mi sarebbero servite negli anni a venire.
Mi aspettava una vita di finzioni.
Mi attendevano prove di simulazione di disinteresse e disprezzo.
Per tutto ciò per cui mio padre e mia madre avevano dato le loro vite.
Avrei dovuto misurare ogni parola che avessi utilizzato da quel momento in poi, non ci sarebbe stato nessuno a pormi un freno, soltanto io potevo controllarmi e giudicare fin dove mi sarei potuta spingere.
Scegli il silenzio, fin quando sarà necessario, mi aveva lasciato scritto mio padre.
Mischiati agli altri, mi aveva pianto addosso mia madre.
Non fare il nostro errore.
Non fare il nostro errore.
Non fare il nostro errore.
Mai e poi mai sarei dovuta uscire allo scoperto fin quando non fosse arrivato il momento opportuno, l'occasione giusta per dar luogo alla loro vendetta.
Per anni fui un numero.
Una tessera matricolata in mezzo a elenchi interminabili di codici identificativi.
Mi aggrappavo al ricordo del mio nome e al viso di mio padre per non dimenticare tutto quel che c'era stato prima di me, per non strozzarmi la voce tra i gridolini delle ragazze che erano cornacchie arrapate e le offese infondate dei ragazzi, lanciate come lame a fendere l'aria.
Per anni scelsi l'anonimato, decisi di scomparire dietro un velo di apparente bontà, di ammirevole benevolenza, di prodigato altruismo, niente di quello che stavo costruendo a poco a poco sarebbe dovuto trasparire dalla mia testa china su programmi d'algebra applicata ai principi della discriminazione e su equazioni esponenziali d'odio.
La polvere si mangiò gli anni tra i quaderni scarabocchiati delle mie fragilità, chiusi nello scrigno del mio dolore fantasma, che nessuno conosceva e che mi vorticava dentro tra vertigini ballerine.
Dimenticai di saper scrivere.
Troppe erano le mani che cercavano di rendermi cieca, fuori.
Vedevo i miei capelli rossi tra le mani di mio padre, raggi di un sole sfilacciato.
Mi scrivevano sopra trame d'incanto e arabeschi di fiabe che sapevano di latte e menta nelle sere d'estate. Mai più sarebbero tornare a pigiarmi parole sulla pelle.
- Sei la mia macchina da scrivere, bambina- mi sorrideva controluce.
Ogni tanto, durante la notte, mi raggomitolavo forte sulle ginocchia e sfioravo piano i contorni delle mie gambe, riscrivevo le cicatrici delle lettere che mi aveva lasciato marchiate a fuoco.
I miei segni particolari di riconoscimento: le parole.
Non ci sarebbe mai stato niente o nessuno al mondo a cui sarei stata capace di dedicare tutto il mio amore, un cielo immenso di luci pirotecniche.
Mi portavo dentro tutta l'umanità.
Questo aveva fatto di me mio padre: ero diventata la depositaria di ogni realtà umana, della diversificazione del sentimento, della moltitudine dei chiaroscuri e dei bianconeri.
Perchè il mondo fuori non ha colori.
E lui mi aveva colorata del suo stupore.
E io l'avevo tenuto dentro fino a quel momento, in segreto.
Fino a quella sera, quando lei mi invitò assieme ai suoi amici a vedere uno di quei programmi che davano in prima serata da più di dieci anni ormai.
Concorrenti chiusi dentro una casa, cavie da laboratorio con gli elettroencefalogrammi impiccati alle pareti programmati per registrare ogni variazione della personalità, per fotografare ecografie tutte uguali delle loro battute oscene, dei loro atti scandalosi, delle loro uscite volgari da bar.
Automi capace di ridere, piangere e rialzarsi a tempo debito.
Non ricordo con esattezza cosa dissi.
Ricordo soltanto il commento della mia amica accanto a me.
Mi prese alla gola il ricordo di mia madre, così bianca su quel campo bruciato.
- Però io penso che lei sia davvero una brava ragazza, non credo che facciano bene a darle della troia.
Ricordo i mugugnii d'assenso dei suoi amici attorno a noi.
Le mani di mio padre tra i miei capelli.
Il vetro degli occhi di mia madre.
Le mie mani sulla carta.
Il mio sangue sottoterra.
- Ma che cazzo dite, è una troia e basta, ragazzi, datevi una svegliata. Non lo vedete che è una coatta che passa il tempo ad aprire le gambe e a farselo mettere in culo, santiddio.
Sbuffai anni di insoddisfazioni in un sospiro di rabbia rancida e sfiduciata.
Non mi ero resa conto davvero di quello che sarebbe successo di lì a poco.

Passarono tre giorni.
Ero scappata nella nostra casa di campagna.
Nel mio castello di carta.
Non volevo nessun altro posto per morire.
Entrarono dalla porta del retro, la sfondarono con i loro stivali di piombo.
Mi afferrarono per le spalle.
Non feci un fiato.
Non mi ricoprirono di carta, non mi gettarono in un fuoco di parole.
Una scarica di pallottole mi fece vibrare le gambe di piccoli rapidi sussulti.
Le ultime parole che avevano letto i miei occhi erano state quelle del mio vecchio amico, Holden.

"Non raccontate mai niente a nessuno, Finisce che sentite la mancanza di tutti".

domenica 14 marzo 2010

Prima che diventi cenere.

"Il mio affetto è sempre stato solo un esercizio di stile, distribuito matematicamente quel tanto bastava a farmi sentire ancora capace di mantenere un contatto con gli altri. Un input vuoto che partiva da me e si riempiva nei cuori degli altri. Ma, una volta inviato, diventava il triste monologo per la cavia di turno, verso la quale mostrare anche la più fredda indifferenza era per me uno sforzo troppo umano".

giovedì 11 marzo 2010

E' tempo di bilanci, ma intanto fatti biondo. [Rileggendo "Imperfetto", A. Zannoni].


Quarant'anni, cazzo, quarant'anni e ti chiedi come c'è riuscita la tua vita a srotolarsi giù a quel modo, tra cicche spente e il rumore del tuo fiato sempre grigio, raschiato via dalla cenere, tossicchiato contro quel cielo livido che non la finisce mai di incazzarsi e ti piove il vuoto nei polmoni, quando vorresti sputtanarteli per conto tuo. Almeno quelli.
Merisi ha quarant'anni e forse è arrivato il tempo dei bilanci, anche per lui.
Che da queste tradizioni di rito, da questi giochi da uomini vecchi anche a vent'anni, è stato sempre fuori.
Bilanci sì, ma non poi troppi. Che solo a pensarci, d'esserci arrivato vivo a quarant'anni, un tipo come lui inizierebbe ad esasperarsi sul perchè non si sia fermato prima, sul fatto che ancora un corpo ce l'abbia addosso e nelle vene gli scorra quel sangue da sbandato al posto delle sue nuvole di fumo, come grumi di sogni gettati nel fango. Ma poco importa, è lì, si accende una sigaretta e si soffia dentro il petrolio nero che gli appanna gli occhi caldi, pieni di insoddisfazione liquida e di voglia di cambiare nome e connotati e lasciar fottere tutto quello che è stato fino a quel momento, un fallimento dietro l'altro, l'errore di chi sa che sta sbagliando e sbaglia con un sorriso storto al lato, quel sorriso che vuol ringhiare "Iniziate a correre. Non mi prenderete mai. Ditemi dove andate voi, che io vado al contrario".
Merisi crede che l'odio sia una terapia efficace contro il dolore.
Ci son stati momenti in cui avrebbe voluto essere un pezzo raro d'acciaio inossidabile.
Restare a respirarsi la tempesta e uscire senza graffi.
Che poi ci pensa meglio e capisce che non c'è gusto a uscirne perfetti da una storia del genere.
Una forma non la vuole e soprattutto non vorrà mai la stessa; che annusarla sotto pelle, l'aria, masticare il suo sapore ossidato di bronzo è l'unica scelta giusta per uno sbandato come lui.
Che imperfetto ci resta, sempre quel tanto per restare a musoverso, senza quella puzza di nuovo addosso, che azzera tutto il tempo passato a scarabocchiare sul futuro.
Che perdere troppo di sensibilità, a volte, ti fa invecchiare prima che le sigarette ti facciano fuori.
E il modo per scalciarsi via da qui, diolai, se lo vorrebbe scegliere lui, almeno quello.
Merisi e il matrimonio in crisi con Marta. Merisi e i sensi di colpa che lo prendono alla gola, quando meno lo vorrebbe. Quando sta fumando, per dirne una, che gli si guasta tutto lo scricchiolio in bocca e le orecchie iniziano a riempirglisi di rimorso, mentre gli occhi gli sgocciolano di disamore e di un desiderio diverso. Quel senso d'appartenere a qualche dove, nell'abbraccio barbaro di Giulia, per dirne un'altra, che semplicemente gli sta accanto, un pensiero rapace, una voglia d'adolescenza feroce, un colore rimpianto così a lungo, da mettergli in subbuglio quella testa matta e solitaria che ha sempre avuto.
Quasi quasi al punto da fargli chiudere con le puttane, che sono una gran valvola di sfogo e s'assorbono il peso d'ogni lacrima, ma non bastano per smettere d'esser soli.
Merisi e un caso da risolvere, perchè è un detective lui, coi controcoglioni, tra l'altro.
Un personaggio nero, scomodo, troppo intuito per poter stare nel giro con tutti i crismi.
Circostanze di un conflitto passato ancora tutte da chiarire con il vecchio comandante Palma, che lo vorrebbe solo far fuori e gli affida un caso senza uscita, in cui faccia da parafulmine a delle indagini di carta, che non vedranno mai saltar fuori un colpevole, una serie telegrafica di testemonianze morte nel bianco rasposo di un fascicolo.
Ventiquattro anni, Amedeo Moretti, omosessuale, figlio di un pezzo grosso della zona. Trovato morto, completamente nudo, ai margini di un bosco, legato al tronco di un albero, trafitto da cinque stilettate inflitte in diverse parti del corpo. Una rabbia incontenibile dentro quel sangue, al di là di ogni vendetta ipotizzabile. L'autopsia di un odio disumano, che sogghigna cattivo giù in fondo alla pancia.
Merisi è un maledetto, lo è già nel nome che si ritrova sulla testa.
Non la può accettare, questa faccenda del parafulmine.
Correre contro il buio, dentro tutte le sue fughe interrotte.
Questa, la scelta giusta. Questo, lo sbaglio necessario.
Non può vedersi le gambe tagliate in questo modo. Li vuole vivi, quei pezzi di carta, vuole dar loro una voce, quella di Amedeo, rubata da occhi troppo pigri per scavarci a fondo in questa storia che un pò gli fa paura, perchè non segue direzioni nè logiche apparenti, un pò gli morde lo stomaco di adrenalina che scorre di magia e di sangue nero.
Ma arriva anche un momento nella vita di un uomo in cui è tempo di mettere da parte i bilanci.
Ed è necessario smarrirsi, liberarsi di quella pioggia a perdere che ti bagna le cicche sulla bocca.
E con coraggio, risollevarti da quella curva perfetta e immobile in cui ti eri lasciato cadere.
Per riprenderti ogni imperfezione indietro, ad ogni costo, disintegrando tutti i confini intorno. Lasciando che il resto sia solo il tuo riflesso immobile di quandi avevi vent'anni e avevi giurato che a quaranta di bilanci non ne avresti fatti.
D'altra parte metti caso che a seguirla, quella strada senza indicazioni, si sta sul treno giusto.

Un abbraccio a 'sto scrittore da strapazzo. Che va, avrei dedotto che è un geniaccio del male.
E che è ossessionato alquanto e non poco dal biondo, che si sappia.

Giulia Mafalda Gì/ Tristan Van Persie.

Fantasie orfane in cerca di storie. (Perchè di bambini è difficile trovarne). [Rileggendo "Fascia protetta", AA.VV.]


Qualche giorno fa mi è capitato di tornare a casa a tarda notte, quasi le quattro del mattino.
Ho sbattuto le palpebre un paio di volte per abituarmi a quel buio immenso che mi rapiva la voce, paralizzava il respiro, scribacchiava bianconeri sui colori fuori, da discoteca anno 3085, fluorescenze installate a forza sulle risate vuote della gente al pub, sui miei sorrisi senza sonoro, sulle mie parole che non escono quasi mai bene e muiono lì, tra i denti e le labbra, finiscono giù nel dimenticatoio delle fantasie anestetizzate e delle storie orfane. Quelle che da bambino ti venivano in mente all'improvviso, ti ricordi, quegli attacchi di genio che morivi dalla voglia di raccontare a qualcuno, non solo al primo che capitava. Voglio dire, anche al primo che capitava, perchè in fin dei conti sei sempre stato il solito e non è che potevi tirarla troppo a lungo questa storia dei segreti segretissimi tra una campanella e l'altra.
Ma c'erano delle volte in cui avevi proprio bisogno del complice giusto per realizzare i tuoi piani.
Quella spalla che fosse il tuo coltello, la carta su cui scrivere, l'attore del tuo copione.
Il mondo doveva saperlo, cazzo, che saresti tu ad avere l'idea giusta per cambiare il mondo, a rivoltare ogni cosa di quest'universo che ti sembrava proprio facesse un rumore storto. Serviva una realtà parallela, ecco, in cui il disordine fosse libero, in cui ci fosse anarchia di pensiero, che facesse male, che fosse crudele e dove non si facesse più la guerra per la democrazia o per il libero pensiero.
Che si facesse la guerra per fare la guerra.
Saresti stato tu il fondatore del nuovo esercito degli ultimi strenui difensori di un romantico cinismo demodè.
Il fatto strano è che quando eri piccolo un'alternativa non la vedevi.
Tutto era giustamente bianco e nero, così come deve essere, così come non c'è altro modo che sia.
Un mondo a fumetti, a carta, inchiostro e china.
I colori sono arrivati dopo e hanno sparato indelebili sbavature fosforescenti per incorniciarti le impronte digitali.
Da bambino inizi a capirlo presto che nessuno di quelli che ti gira intorno, dei tizi con cui ti ritrovi a vivere assieme, sia disposto ad ascoltarli veramente, i tuoi attacchi di genio. Perchè lo sono, questo è innegabile. Ma il fatto più atroce è che dopo qualche tempo, arrivi anche al passaggio successivo. Capire che una comunicazione vera coi tuoi coinquilini di casa e a volte anche di realtà parallela non ci potrà mai stare.
Capire che la gente intorno a te pensa seriamente di capirti e non capisce una sega di quello che dici, che magari è anche una roba originale, è l'ultimo attacco di genio che ti viene.
Poi smetti di essere un bambino e inizi a ingoiare caramelle ripiene delle parole e dei disegni di cui vorresti riempire i vuoti a perdere in cui ti sei cacciato di proposito, perchè le urla fuori sono colorate troppo forte e tu sei sempre stato solo una proiezione b&w a due dimensioni sullo sfondo.
Eri un bambino, la profondità non ti serviva. Eri già tu, la profondità.
Ecco, qualche giorno fa mentre cercavo a tastoni il muro di casa e mi abituavo al chiaroscuro di quella luna così bella da spogliare, ho ripensato a quanto mi piacesse da matti addormentarmi al buio, persa soltanto nel mio abbraccio, a quanto non ne fossi spaventata.
Non ero mai veramente sola.
Pensavo a quanto fossi capace di vederli là, ammucchiati uno sopra l'altro tutti i miei mostri e miei amici immaginari.
E non ero certa che non mi potessero far del male, voglio dire. Non ero certa che non esistessero davvero. Ma giocare a vivere era un dovere, un richiamo che veniva da lontano, era il tuo canto delle sirene e non potevi fare a meno di stare al gioco. Perchè ancora non li avevi visti, i colori.
Non potevi saperlo che di lì a poco tutto quello che eri stato fino a quel momento sarebbe stato murato vivo sotto una superficie spugnata color pesca. Che è il colore leggero con cui i grandi si scrollano via i mostri da sotto il letto.
Poi mi è capitato di parlare con il signor Lorenzo Palloni che all'anagrafe risulta studente di "Beni culturali" e al secolo passerà di sicuro come fumettista perchè ho il vago sentore che gli riesca parecchio meglio come cosa. Classe 1987, Palloni mi dice che ha all'attivo una pubblicazione con la Double shot per una raccolta di storie a fumetti, intitolata "Fascia protetta". Tematica: " Storie sull'infanzia".
Ma non su quel mieloso andante che, dopo averle lette, finisci per idealizzare tuo figlio alla donna angelo degli stilnovisti. Son storie feroci, signori. Di chi ha avuto il coraggio di buttare giù l'intonaco e uscire dal muro.
Dal volo nell'immenso inferno dei bambini perduti ne "L'altalena" di Brunilde Galeotti alla poesia che germoglia nella terra e dalla morte genera vita nuova di Ravazzani ne "I fiori di alice", passando per "Guasto", lavoro a sei mani di Palloni, Farinon e Marzano sulla condizione del disagio familiare nell'infanzia e sulla faccia nera dei bambini, quella che può uccidere e ritrarre la mano, mentre sugli occhi s'asciugano controvento lacrime di cristallo, le sole cicatrici che stanno lì a testimoniare che quei piccoli artefici del male sono bambini venuti su nella violenza, nella disinformazione e tra incomunicabili incomprensioni, mandati a morire in un vulcano di colori.

Se non lo compri, non sei più un bambino.
E adesso trovami un'offesa peggiore di questa.

Giulia Mafalda Gì/ Tristan Van Persie.

domenica 7 marzo 2010

Prima che diventi cenere.


Le sue scarpe da gigante erano due pomodori rossi rossi.
Di quelli che trovo sempre in terrazzo dalla nonna Clara, quando arriva giugno e il sole è alto alto e ti brucia i disegni sintonizzati male sugli occhi.
Perchè se lo guardi troppo fisso, finisce che vedi solo tanto bianco e più nessun disegno.
E il bianco mi fa paura.
Non ci puoi vedere niente dentro e ti devi inventare tutto tu e non è mica così semplice.
Così nonna Clara, quando arriva giugno, mi chiama dal suo wakkitokki magico che lo puoi spostare dappertutto e funziona lo stesso. Il mio wakkitokki, invece, non è magico perchè sta fermo su un mobile nella stanza dei divani e della tivvù e se lo sposti non funziona, perchè ci sono i fili, mi ha detto mamma e lì ci passa l'elettricità. Che non ho capito bene cos'è, perchè non l'ho mai vista ancora e quando ho provato a staccare il filo tutto tondo dal muro, è venuto via anche un pò di bianco intorno alla spina. Ma l'elettricità non l'ho vista lo stesso. Perciò forse non esiste, non lo so.
Nonna Clara il wakkitokki lo mette dentro una tasca del suo grembiule largo largo a quadratini arancioni e bianchi. Ce lo ha sempre addosso, non se lo toglie mai.
Quando le chiedo perchè la mia pelle è solo rosa e lei ha i quadratini cuciti sopra, scoppia a ridere, ma anche un pò a piangere e mi dice che sono una bambina birichina. E se sei birichino non stai mai fermo come il wakkitokki della nonna e vuoi sempre fare i dispetti a tutti. Però non lo capisco perchè piange. Piange sempre, nonna Clara e quando parla si fa tutta piccola nel suo maglione nero cieco, chiude gli occhie e fa sìsì con la testa, che sembra quasi che non ci voglia parlare con noi, anche se siamo là per lei. Dice che è troppo vecchia per invecchiare ancora.
Però ha un sacco di capelli neri in testa. Perciò non è così vecchia come pensa, magari.
E io glielo dico sempre che non deve preoccuparsi, che la sua pelle può tornare rosa come la mia e che mica si diventa vecchi così all'improvviso.
E poi non è mai troppo tardi per smettere di essere vecchi, se non ti va più, dico sempre a nonna. Ma lei questo non lo capisce, perciò dice che non è vero.
Quando arriva a giugno e nonna mi chiama, io mi precipito dentro il portone e salgo in fretta in fretta le scale perchè c'è un odore che non mi piace dentro ai muri.
Torta al formaggio e zuppa di cavolo. Che sono le due cose da mangiare più brutte che mi vengono in mente, ma non le ho mangiate mai. Solo che papà dice sempre alla mamma di non cucinarla, sta roba, che non la mangia nessuno, tranne lei, che è una gallina che mangia il mais.
Conto tutti i gradini ogni volta, per vedere se ogni tanto ne aggiungono o ne tolgono qualcuno. Ma da quando conosco nonna, sono sempre ottantacinque. E sono tanti davvero, tanti anche per me, non solo per nonna che non ha più il tempo di invecchiare. Se uno non ha tempo di invecchiare, figurati quello di fare ottantacinque scalini, mi dico io. E' per questo che nonna non esce quasi mai da casa, perchè poi dovrebbe risalire fin lassù e perderebbe un sacco di tempo.
A giugno, nonna sale venti scalini in più perchè va quasi tutte le mattine in terrazza. A pranzo resta lì, perchè il vento d'estate porta aria sudata, dice. E o suda lei o suda l'aria.
Alle sette e mezza spesso sono già lì e lei mi dice sottovoce di andarmi a sedere sulla sedia bianca di lino.
Io non ci voglio mai andare, perchè è bianca e ho paura che sotto ci sia un buco enorme che mi risucchia in chissà quale mondo. E io nonna non la voglio lasciare sola, ha bisogno di me che sono la sua primavera, mi dice. Quella che non muore mai. Anche se a questo non ci credo, che io non muoio mai, voglio dire. Nonna dice che sono un'eccezione, però io non penso. Sto diventando grande come tutti gli altri bambini, non sono un'eccezione. Glielo dico a nonna, vedi sono vecchia anche io. Prima stavo piccola piccola in una mano, adesso sto in un letto lungo quanto me. Nonna ride quel sorriso sordo che non lo riesci mai a sentire e mi dice che c'è differenza tra crescere e invecchiare, ma io non penso. Però a nonna non glielo dico, che per me è la stessa cosa, che vai sempre avanti, mica torni indietro.
Mentre prepara quella salsa rossa rossa nella sua pentola da strega, vado vicino alla tivvù e spingo il pulsante che fa accendere una lucina blu e spingo spingo spingo finchè non vedo la faccia della signora flecccher, che nonna chiama signora in giallo, perchè il giallo è un tipo di libro e lei è una scrittrice di gialli oltre a fare l'investigatrice. Nonna dice che forse porta un pò male, perchè dove sta lei, qualcuno viene ucciso.
Io le chiedo perchè deve sempre morire qualcuno nel suo film giallo e lei mi risponde che è per il suo lavoro.
Allora ho iniziato a pensare che è sempre lei l'assassina, ma nessuno la scopre mai, perchè è troppo gialla e perchè tutti sono troppo impegnati a girare il film e del tipo che è morto non gli frega niente a nessuno.
Nonna dice che nonglienefreganiente non lo posso dire, perchè è un pò una brutta parola, anche se è fatta da più parole.
Comunque la signora in giallo uccide un tipo in ogni puntata, se no perde il lavoro e non la pagano più e non può regalare i giocattoli alle sue primavere.
Mentre nonna ed io mettiamo la salsa dentro tante bottiglie di vetro, mi chiedo se anche lei non ammazzi qualcuno per comprarmi i giocattoli, ma non credo, perchè la mamma mi ha detto che uccidere è sbagliato, anche se c'è un sacco di gente che lo fa e non gli succede niente lo stesso. Forse ci sono tante signore gialle nel mondo che sono troppo distratte a bersi quella cosa verdolina con le bollicine che fanno prizzz e poi ti fa girare la testa e ad andare a quelle cene in cui le donne sono vestite tutte eleganti e gli uomini sempre uguali. O forse mamma si sbaglia e uccidere non è così sbagliato qualche volta, quando proprio bisogna farlo.
Ma questo lo tengo per me.
Ogni volta che nonna schiaccia il telecomando, c'è un'immagine diversa dentro al vetro. Con lei i documentari non li guardiamo mai, invece a casa mia, quella vera, la tivvù è sempre accesa sui denti di uno squalo o sulla foto di strani animaletti pelosi che vivono molto lontani da qui. Ormai ho capito che negli altri posti del mondo sono accumulati gli animali e gli oggetti più strani e pericolosi, mentre qui è un posto sicuro, dove nessuna zanzara-altroanimale ti può pungere e poi muori. Perciò noi abbiamo la signora in giallo che porta male, ma gli altri non possono mai dormire per colpa delle zanzare-altrianimali.
Nonna dice "A ognuno la sua croce".
Quando ero un pò più piccola e sapevo dire solo poche parole, tipo mamma nonna papà asciugamano letto a castello pane pomodoro, a pranzo saliva ad aiutarci anche il nonno, che la mattina la passava a leggere dei libri gialli gialli, ma non gialli come la signora fleccher. Erano ingialliti dal tempo, mi ripeteva nonno. Io mi guardavo la pelle, con la paura di vedermi gialla da un momento all'altro, ma non succedeva quasi mai. Perciò chiedevo quanto tempo ci volesse per ingiallirsi e lì nonno mi rispondeva che dipendeva da quello che eri. Una foglia, un libro, una persona. E io gli dicevo che ero una persona, ma mi sentivo leggera come una foglia. Cioè, non glielo dicevo, perchè non conoscevo abbastanza parole, ma lo pensavo forte forte per farglielo capire.
I libri gialli di nonno non parlavano di morti e investigatori. Ce ne era uno, il più grande di tutti, che era nero lucidissimo più delle sue scarpe quando nonna gliele puliva con una pezzetta e una cosa più puzzolente della torta al formaggio che si spruzzava. Nonno mi diceva che sulla copertina c'era scritto "Gestapo" e iniziava a raccontarmi di quando c'era la guerra e lui e il suo papà in Umbria erano stati presi in una rappresaglia, che è una cosa che fai quando metti insieme un sacco di persone che non hanno niente a che fare l'una con l'altra e gli dai davvero poco tempo per conoscersi, perchè poi dei tipi con tanti fucili gli dicono di stare zitti, perciò quelli non possono più parlare tra di loro. E dopo un pò non possono proprio più parlare. Nonno sa un sacco di cose che nonna non sa sulla guerra e su quando loro erano piccoli e dovevano scappare da un posto all'altro per evitare le bombe. Dovevano essere molto più veloci i bambini prima per riuscire a sfuggire alle bombe così bene. Non credo che adesso sarei capace di sfuggire a una bomba che piove giù, ci sono così tante cose che mi distraggono qui per terra, come faccio a guardare anche su in cielo.
Però la voce con cui nonno mi raccontava tutte queste storie da lontano era davvero bella.
Una voce tutta sdentata, che sgusciava via e mi soffiava nelle orecchie il vento della Polonia e mi faceva sentire i piedi dentro un paio di stivali pieni di neve.
Quando nonno veniva su a pranzo, si siedeva sulla sedia biancopanna e io sulle sue ginocchia a imbottigliare il checiap, come lo chiamavano i signori vestiti a stelle e strisce che avevano fatto salire nonno sul carroarmato e gli avevano insegnato a guidare, che è una cosa come camminare però dentro un grande pezzo di ferro che a volte può andare per conto suo.
Quando versavamo tutto nelle bottiglie, io cercavo di non sporcarmi mai le mani, perchè mi sembrava che mi si arrampicassero sopra tante formiche e restasserò lì a ballare tra un dito e l'altro, come tanti granelli rossi.
Rosso pomodoro appunto.
Come le sue scarpe da pagliaccio.
Era un'ombra gigantesca sopra di me.
E sorrideva storto e acquoso.
Io stavo in piedi, in un angolo della stanza dei divani e delle tivvù di Giada, che faceva sei anni e sua mamma le aveva preparato una torta col liquore dentro e tutti i bambini avevano vomitato sul pavimento, tranne me e giada, che non vomitavamo mai, neanche prima di andare a scuola, mentre tutti gli altri si lasciavano mangiare dalle formiche nello stomaco, perchè non ce la facevano a tenersi tutti quei colori dentro, perciò dovevano risputarli tutti mischiati.
Come la nonna non aveva la pelle rosa, ma tutta a rombi soffici color arcobaleno.
La sua faccia impiastricciata di bianco sporco e macchiette grigie qua e là e quella bocca rossa, così rossa e lunga lunga fino su alle guance.
Mi ha guardata e mi è sembrato che stesse lì lì per annaffiare l'orto, come mi rimproverava nonna, quando piango piango piango che le lacrime mi si rubano gli occhi e non me li ridanno più. Poi è sceso giù, si è seduto accanto a me e si è messo a frugare piano nella sua borsa di plastica bianca, di quel bianco che ci puoi vedere attraverso. Ha tirato fuori un palloncino sgonfio lillà e poi ha tirato fuori anche la voce, che io non avrei creduto mica ci sarebbe riuscito. Con tutta l'acqua che gli spegneva gli occhi, come faceva ad avere anche una voce che funzionasse come si deve. Infatti non funzionava bene per niente, era tutto uno scricchiolio, un ronzio che veniva su su da dove si vomitano i colori, come quando nonna metteva i puuuh nel giradischi e c'era quel bzzz che rompeva le bollicine d'aria tutt'intorno.
- Come lo vuoi il palloncino?
Era la prima volta che parlavo con un pagliaccio e non sapevo bene cosa si doveva rispondere. Perciò per un pò sono rimasta a guardare i suoi occhi spenti e non ho detto niente. Lo guardavo e pensavo che non dovesse riuscirgli molto bene fare il pagliaccio, perchè da quanto avevo capito dovevi essere davvero molto più simpatico della media della simpatia per essere un bravo pagliaccio.
E i pagliacci tristi non fanno ridere nessuno e sono utili quanto il morto della signora gialla.
Che sa tutta la verità, anche chi lo ha ammazzato, ma non può più dirla. E non è per niente giusta come cosa.
- Va bene un cagnolino? Ti piacciono i cagnolini?
Era anche la prima volta che vedevo un palloncino che si trasformava in un cane, perciò un pò le zampine delle formiche mi stavano solleticando forte. Ma solo un pò.
Così ho fatto sìsì con la testa, ma non ho sorriso.
Ho aspettato di vederlo nascere tra le sue mani grandi, il mio cagnolino lillà: prima la testa con le orecchie a punta a punta, il corpo, le zampe larghe e poi la coda tutta frizzante.
Era perfetto. Quasi vivo.
Mi sono avvicinata al signor pagliaccio e gli ho chiesto
- Hai una penna, signor pagliacciodagliocchidighiaccio?
Lui mi ha guardata, strizzando gli occhi, senza capire, però mi ha dato subito una penna violachiaro quasi come il mio nuovo cagnolino.
Io gli ho detto grazie, signor pagliaccio e poi ho bucato il palloncino con la penna.
Lui non ha detto niente.
Ha solo continuato a guardarmi e a scolarsi le risate chissàdove.
- Prima che si sgonfi da solo, lo devo sgonfiare io. Gli voglio già troppo bene- ho detto.