domenica 20 febbraio 2011

L'elenco.

L'elenco l'ho iniziato nel 1969.
Che io avevo venticinque anni e Mario forse trenta.
Eravamo stati ragazzini insieme, amici di quartiere.
Di quelli che anche a ottant'anni ti si portano in mezzo alle rughe, tra le macchie della pelle, in mezzo ai denti gialli per le troppe sigarette.
Mario era uno di quei tipi che, a battere un pugno contro le pareti di casa, ci usciva la voce sua. Stava lì, dentro le mattonelle del pavimento, quelle tutte quadrettate, anni '50, dei nostri vecchi. Poggiavi un orecchio per terra e lo sentivi correre come uno scalmanato. Stava tra le mensole di camera mia, nell'odore dei fumetti nuovi, che a prenderli in mano adesso mi sembrano malati, ingobbiti, tutti ristretti. E stava pure nel cortile della chiesa di San Patrizio, tra le crosticine di quel sasso dove facevamo a nascondino da bambini.
Ogni volta che tornavo a casa da Roma, scendevo dal tram proprio sotto casa di Mario, e già me lo vedevo alla finestra con quelle braccia lunghe lunghe che non sapeva mai dove infilare, e allora stava sempre a sbracciarsi con quel sorriso che gli sgarrava la faccia, gliela sgarrava proprio in due, che uno che non lo conosceva pensava di sicuro che cazzo c'avrà tanto da ridersi questo. E ogni volta che mi vedeva pareva che avevo fatto la guerra e mi avevano già morto e sepolto da quanto gli si facevano bianchi gli occhi. Mi urlava alla finestra che la Pina aveva fatto le frittelle e per un caffè mi potevo pure fermare, che la Laura a Roma mi faceva proprio sciupare, me lo vedeva in quella faccia smunta smunta che avevo messo su.
E a me quel sorriso m'aveva sempre fatto male, perciò salivo, cinque piani e novantacinque scalini, ma poi a Mario gli dicevo che novantacinque era proprio un numero del cazzo, già che uno ci doveva lasciare tutto il sudore, potevano pure farne cinque in più. E lui si prendeva la sua pancia tutta costole tra le braccia e mi diceva che della vita non ci avevo capito ancora niente, che te ne fai di cento, mi chiedeva, che poi arrivi su e non c'hai niente da ridire?
La Pina era la nostra donna, la ragazzina che a quindici anni c'aveva fatto perdere la testa a tutti e due e da tutti e due s'era fatta toccare, la Pina, che mica me le scordo le sue cosce, che sono le prime che ho visto, le prime che ho baciato. Ma poi se l'era presa Mario, lui il lavoro ce l'aveva già, io facevo solo lo studente, andavo in giro a dire che volevo fare l'avvocato e non era vero niente. E Pina lo sapeva, che tutti quei quaderni erano pieni di poesie sconclusionate, che lei era una donna coi fianchi buoni per fare i figli e io no, non ce l'avevo proprio la faccia da marito.
Ed era il 1969, quando tornavo da Roma e non vedevo l'ora di precipitarmi a casa di Mario, strappare un bacio alla Pina, per dire che ci avevo messo tre anni, è vero, e avevo preso un diciotto con le suppliche, ma diritto penale l'avevo passato e toccava festeggiare.
Appena sceso dal tram, Mario non l'ho visto alla finestra.
C'era solo un codazzo di gente davanti al portone e si facevano il segno della croce, con le bocche all'ingiù e gli occhi storti e dicevano che era una disgrazia, una disgrazia davvero, povera la Pina, che adesso era pure incinta, adesso come se lo mantiene questo figlio.
E io che non capivo e chiedevo alle facce della gente ditemi che è successo.
Ma era tutto così nero, così storto e nessuno aveva il coraggio di aprire la bocca per dirmi che Mario era morto, caduto giù come una pera da un'impalcatura al cantiere, perché aveva perso l'equilibrio.
Magari, magari si stava sgarrando dalle risate, ho pensato io.
E allora ho iniziato a scrivere l'elenco.
Nome, cognome, data di nascita e di morte.
Di tutti quelli che hanno vissuto con me e se ne sono andati senza farsi offrire da bere.
Che poi alla fine avvocato ci sono pure diventato.
C'è solo un pensiero che mi angustia un po'.
Che quando toccherà a me, il mio sarà l'unico nome a mancare nell'elenco.

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