Oggi ci si barrica dentro una stanza a pensare a domani, e che magari si potrebbe anche uscire dalla finestra, non star tutto il giorno a cercare di uscire dalla porta, che c'è anche una finestra in questa stanza e magari è da lì che devo uscire. Magari questa finestra non è un'uscita d'emergenza, è soltanto la mia uscita e basta un salto, un metro o poco più, e mi ritroverò fuori, dentro questo fuori onnivoro e brulicante che mi fa venire voglia di costruire un accampamento anti-bellico, infilarci la testa e aspettare la fine, gli occhi sgranati sotto la minaccia abbagliante di una torcia. Come quando da ragazzina costruivo i miei tunnel sotterranei: due sedie messe a due angoli opposti della stanza e una coperta a fare da ponte di copertura in diagonale. Le mani dietro la nuca, la schiena a terra, i piedi nudi che grattavano il fresco incrostato lungo le mattonelle. Bastava sollevare un lembo della coperta, che il fuori arrivava subito a contaminare quell'odore rarefatto di ordine minimale, di posizioni che non cambiano, di spazi che non si estendono e non si restringono, di un tempo muto che batte la campana a morto per me, che sono lì dentro stesa in una bara con le unghie a fare i graffi alle coperte mentre la voragine del fuori, del mio non saper mai stare al mondo, perfora la stoffa, distillando in ogni centimentro della mia distanza dal resto una tensione quasi sessuale, un'ansia sospesa tra desiderio fisico e necessità di separazione.
Domani invece, si continua a buttar giù idee per Domenica ventisette.
Che è il giorno in cui è morto qualcuno ed è nato qualcun altro.
Sono storie di famiglia.
In cui la famiglia smette di esistere.
Sgretolata, distrutta, abbattuta a colpi d'ascia.
Perché le cose vanno come devono andare.
E questo è il tempo delle mie Correzioni.
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