Era la bocca.
C'era anche il resto prima.
Poi, all'improvviso, ha smesso di esistere.
Per nessun motivo in particolare, è scomparso.
Mi si sono fatti gli occhi bianchi tutt'un tratto.
Ogni rumore s'è fatto zitto, zitto con le labbra cucite a fil di ferro.
Anche le grida della signora Anna, la vecchia del piano di sotto.
Che, da quando siamo venuti ad abitare qui, grida solo che vuole la luce.
Non chiede mica tanto.
Che la lasciassero pure morire, ma non in quella stanza, no.
Che dalla sua finestra non si vedono neanche più le nuvole.
Solo blocchi di mattoni rossi, sbranati dalla fuliggine.
E che senso ha, grida, senza la luce che senso ha.
Lei che era abituata a uscire a piedi scalzi dalla porta di casa e ritrovarsi col mare che le faceva il solletico alle caviglie.
E adesso quel disgraziato del figlio se l'è portata a casa sua, in quel palazzo che è una colata di cemento sparata a terra da una gru imbizzarrita.
Dice che da sola non ci può più stare.
Le ha preparato una tomba di cuscini e di piumoni.
E la signora Anna è rannicchiata lì, a sbuffare ossigeno artificiale.
Proprio come il sole che non riesce più a vedere.
Che senso ha, se neanche più i lampioni riescono a far luce adesso.
E a un certo più niente.
Anche lei ha smesso di esistere.
Tanto che mi sono convinta che fosse morta.
Ho sentito una crepa aprirsi in mezzo agli occhi.
Anche lei è diventata una bocca chiusa.
Se l'è mangiata lo spazio bianco.
Di bocca aperta, di bocca viva, c'era solo la sua.
La ventosa gigantesca di un pesce rosso troppo grasso.
E tossiva, sputacchiava, gorgogliava incartapecorita.
Passavano i minuti e occupava sempre più spazio.
Era una bocca da otaria.
Da mostro marino in calore.
Una bocca che era tutto un grugnito, uno starnuto, un colpo di gola.
Una bocca che faceva fatica a respirare.
E si allargava sempre di più e si mangiava tutto il bianco.
E tritava, raschiava, rottava.
Era una bocca tutte balze, grinze, pieghe.
Unta, scivolosa, da insetto carnivoro.
Una bocca da iena.
Puzzava di cadavere e di carcasse spolpate.
Coi denti che erano zampette di ragno.
Operose, sventravano i chicchi d'uva.
Si muovevano su e giù come filamenti gialli, disossati, senza smalto.
E la lingua, dio, la lingua.
Un polpo flaccido, con qualche macchia livida di sangue al centro.
E s'arrotolava sulla pelle dell'uva, come quella d'un camaleonte.
Un corpo morto a penzoloni.
Mi ballonzolava davanti agli occhi, enorme.
Enorme.
Sciacquava i denti di saliva e la sputava nel piatto con gli acini masticati.
C'era solo la sua bocca.
E il resto, no, il resto non sono riuscita più a vederlo.
"Papà?"
ho domandato.
"Papà, stai bene?"
ho ripetuto.
Mentre sfilavo il coltello del pane dalla sua bocca, si è levato un grido dal piano di sotto.
La signora Anna era ancora viva.
Mi tastai la fronte in mezzo agli occhi.
Nessuna crepa.
Tirai un sospiro di sollievo.
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