domenica 27 febbraio 2011

Miasma.

Quando mi hanno trovata stamattina, stavo ancora tutta rannicchiata sotto le macerie tue.
Mi ci sono fatta una coperta con i tuoi cocci, una coperta di spigoli e di angoli, che mi grattavano contro la pancia e mi facevano le spine nei fianchi.
Con le ginocchia in gola e la testa reclinata in basso, in mezzo alle gambe, ero un cerchio perfetto, di quelli senza curve in dentro tutti bozzosi e indecisi, ti ricordi, quelli che da piccola mi prendevi la mano e mi ci facevi riempire i fogli da disegno fin quando non c'erano più sbavature, schizzi maldestri, linee spezzate.
Scorrevamo così parallele, madre mia, che alla fine ci siamo sovrapposte.
Stamattina sono al centro di tutte le nostre spirali, di tutti i nostri cerchi da compasso, di tutte le nostre squadrature che meno quadrate di come lo siamo state noi non potevano essere.
Quando mi hanno trovata stamattina, c'era un'alba intirizzita che non voleva uscire e restava a riscaldarsi ancora un po' dietro i cipressi. Gli occhi mi si aprivano e mi si chiudevano come due fessure murate vive nella vernice fresca. Da ogni ciglia mi pendevi tu, in tante piccole briciole di marmo bianco e mi facevi la vista tutta a macchie, mi graffiavi l'iride e tiravi via il colore, mi conficcavi gli spilli nei buchi neri delle mie pupille senza fondo.
Com'erano fondi i tuoi occhi l'ultima volta che li ho visti.
Due biglie girate all'indietro, solo bianco, solo luce.
Mi è venuto da sorridere a vederti nella tomba così calma.
Mentre ti mettevo addosso il tuo vestito di lana, quello celeste che s'arricciava intorno alle caviglie, t' ho visto nuda e ho iniziato a scorrerti una mano contro il petto, quel petto che non c'era più, te l'avevano tagliato via tutto per toglierti il male da dentro.
Carne liscia, piatta, senza sbavature.
Pensavano di salvarti, credevano che il male fosse solo là e non ti avesse già preso la testa.
Ma il male ce l'hai sempre avuto annidato nel respiro, madre mia.
Te lo sei sempre voluto addosso come una maledizione.
Solo per avere qualcosa da combattere, che altrimenti non avresti avuto niente.
Quindici anni trascorsi a tenerti lontana, pure da morta, coi tuoi occhi bianchi senza più paura che mi si aggrappavano alle spalle e mi facevano inzuppare il lenzuolo di sudore ogni notte. Quegli occhi bianchi che diventavano una bocca larga, sempre più larga che rideva oscena, presa da spasmi incontrollati, come un paio di gambe aperte e mi sussurrava:
adesso tocca a te.
adesso tocca a te.
adesso tocca a te.
E adesso mi dicono che muoio, madre mia.
Mi dicono, signorina, pensi a mettere in ordine le sue cose.
Di nuovo senza sbavature, senza schizzi maldestri, senza linee spezzate.
In ordine.
Mi dicono che tra sei mesi muoio del male che t'ha levato il petto e t'ha chiuso gli occhi.
Dicono parole grosse, sui geni che s'ereditano e sul sangue di famiglia, contro cui non si può niente. Dicono che i fattori di rischio erano alti, altissimi. La probabilità che non m'ammalassi anche io, che non ci morissi pure io, erano minime.
E adesso io mi devo prendere addosso tutte le tue colpe, tutte le paure che ti hanno sempre fatto la carne fragile e gli occhi pieni di vuoto e devo morire come sei morta tu, senza il diritto a una morte che sia soltanto mia.
Mi hai contaminata, madre mia.
Mi hai dato il tuo cancro, perché lo sapevi che era l'unica cosa che di te mi potevi lasciare.
Ma adesso io t'ammazzo.
T'ammazzo già da morta.
E profano questa tua bella tomba bianca per farti tornare gli incubi d'essere ancora viva.
E io muoio prima di te, sì, ti rubo la morte e me la cucio addosso.
Come una coperta di angoli e di spigoli.
Poi m'addormento e non mi risveglio più.

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