Me ne andai in giro estendendo il mio odio a tutto ciò che era opera dell’uomo, alle linee tranviarie, alla numerazione delle case, ai titoli, alla distribuzione del tempo, a tutto quel guazzabuglio trito e macchinoso che si chiama ordine, me la presi con il servizio della nettezza urbana, col calendario delle lezioni, con l’ufficio di stato civile, con tutte quelle miserabili istituzioni contro le quali è impossibile scagliarsi, contro le quali infatti nessuno si scaglia, quegli altari sui quali anch’io mi ero sacrificato, ma non ero disposto a permettere che mio figlio si sacrificasse. Come c’era arrivato mio figlio? Non era stato lui a organizzare il mondo, a causarne i guasti. Perché dunque avrebbe dovuto adattarsi a viverci? Imprecai contro l’anagrafe, le scuole, le caserme: Dategli un’opportunità! Date a mio figlio, prima che si rovini, almeno un’opportunità! Imprecavo contro me stesso perché avevo costretto mio figlio a venire in questo mondo senza far nulla per liberarlo. Questo glielo dovevo, dovevo agire, partire con lui, andare su un’isola deserta. Ma dove esiste quest’isola dove un uomo nuovo può fondare un mondo nuovo? Io ero prigioniero insieme al bambino, e condannato sin dall’inizio a far parte del vecchio mondo. Perciò abbandonai il bambino. Gli tolsi il mio amore. Questo bambino era capace di tutto, era solo incapace di una cosa, di uscir fuori, di rompere quel cerchio infernale.
Il trentesimo anno - I. Bachmann
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