lunedì 31 maggio 2010

[It's the end of the world.]

Quando ci dissero che ci sarebbe stata la fine del mondo, non ci avevamo creduto.
Non avevamo affatto paura dalla morte.
Eravamo giovani, avevamo solo il terrore di invecchiare prima di morire.
La morte, di per sè, restava probabilmente una delle poche esperienze eccitanti che avremmo potuto vivere senza raccontare.
E tutto quello che non si poteva dire a parole, noi non lo conoscevamo.
Questo rendeva il tutto molto più affascinante.
Eravamo annoiati, i nostri giorni si erano ridotti a una serie di scatti in sequenza.
Solo le prospettive cambiavano. E a volte neanche quelle.
Non c'erano punti di fuga.
Eravamo quadri anomali, scomposti, disossati.
Volevamo essere appesi ogni anno alle pareti, mentre i nostri contorni si ingiallivano e i nostri istanti diventavano carta straccia.
Ci conoscevamo a memoria, schiena contro schiena, retina contro retina, vena contro vena.
Non vedevamo niente di nuovo.
Niente di più di un'immagine fissa, sempre la stessa.
Perciò ci eravamo convinti di essere quel tipo di persone che se non mettono nero su bianco la loro vita, non riescono a vederla come dovrebbero.
In realtà eravamo solo troppo lenti per andarle dietro.
Troppo poco agili per saltare con la morte, d'altronde.
Aspettavamo una svolta.
Nel frattempo ci scrivevamo addosso, ci tiravamo righe nere contropelle che erano morsi furiosi, sputavamo veleno per topi e ingoiavamo giù tutto lo spazio bianco.
Dovevamo parlare, parlare sempre. Non lasciare mai buchi tra i nostri corpi ritagliati e rincollati alla rinfusa.
Le nostre parole avevano un loro ordine, una disposizione logica, una dinamica infallibile di incastro.
Ma il silenzio, no, il silenzio di ogni fine, noi non lo conoscevamo.

Nessun commento:

Posta un commento