mercoledì 11 maggio 2011

Calmo?

Avrei dovuto sospettarlo. I miei colleghi mi considerano un uomo calmo, posato, riflessivo. Calmo, certo; ma molto spesso durante la giornata la testa si mette a rombarmi, sordamente come un forno crematorio. Parlo, discuto, prendo decisioni, come tutti; ma al bar, davanti a una buona grappa, immagino che entri un uomo armato di fucile e apra il fuoco; al cinema o a teatro mi figuro una bomba a mano senza sicura che rotola sotto le file delle poltrone; in piazza, un giorno di festa, vedo la deflagrazione di un veicolo imbottito di esplosivo, l'allegria pomeridiana trasformata in massacro, il sangue che scorre fra le pietre del selciato, i pezzi di carne appiccicati ai muri o proiettati attraverso le finestre per atterrare nella minestra della domenica, sento le grida, i gemiti delle persone con gli arti strappati, come le zampe di un insetto da un bambino curioso, l'intontimento dei sopravvissuti, un silenzio strano, quasi incollato sui timpani, l'inizio della lunga paura. Calmo? Sì, sto calmo, qualunque cosa accada, non lascio trasparire nulla, resto tranquillo, impassibile, come le facciate mute delle città sinistrate, come i vecchietti sulle panchine dei parchi con i loro bastoni e le loro medaglie, come i volti a fior d'acqua degli annegati che nessuno ritrova mai.

[J. Littell, Le benevole, Einaudi, 2007]

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