sabato 23 aprile 2011

La processione del venerdì santo.

La madre di Giovanni aveva singhiozzato dalla cucina che li avrebbe comprati lei i cannelloni per il pranzo della domenica. Giovanni, sprofondando nel divano rattoppato del salotto, si era arrotolato tra le lenzuola che lo ricoprivano dalla testa ai piedi come in un sudario. Era fine aprile, quell'anno la Pasqua aveva tardato ad arrivare, Gesù Cristo era stato indeciso fino all'ultimo sul da farsi, ma alla fine più per abitudine che per necessità, sarebbe risorto anche quella volta. Soltanto inerzia, pensava Giovanni, risorgere era soltanto una questione di inerzia. Chissà, prima o poi avrebbe smesso di farlo, un giorno avrebbe capito che prima di risorgere sarebbe dovuto morire per davvero, senza barare, lasciandoli tutti lì a rosicchiarsi le unghie, con gli occhi sgranati dall'angoscia ad aspettare un segno dal cielo, un'apparizione che squarciasse la notte in una fessura luminosa, una capocchia di spillo a fare da martire alla speranza.
Il sole pigro di mezzogiorno entrava sbadigliando tra le finestre aperte a festa.
La madre di Giovanni, con le guance calde di lacrime, gli aveva gridato che No, sulla loro porta non ci sarebbero state coccarde nere, nere di lutto, che la Pasqua arriva comunque, anche dentro le case dove muore un padre e lascia vedove e orfani, che le finestre dovevano restare aperte, che gli altri non avrebbero dovuto indovinare il loro dolore, sentirlo rompersi contro i vetri chiusi e le serrande abbassate, che lei i cannelloni li avrebbe comprati lo stesso e ne avrebbe lasciato qualcuno in frigo, perché a Giuseppe di notte gli veniva sempre fame e i cannelloni avanzati dal pranzo, ah, se ci andava matto, poteva scofanarsene una teglia intera, aveva ridacchiato nervosa, mentre si asciugava la faccia con un lembo del grembiule sporco di sugo.
Il pigiama di lana pesante grattava contro la pelle di Giovanni, lo pungeva rasposo, lo precipitava in una prigione di caldo, mentre un formicolio di eccitazione lo percorreva tra le cosce e gli risaliva lungo le braccia fino a fargli tremare i denti. Coi riflessi ancora rallentati dal sonno, la mano di Giovanni era scivolata leggera tra le gambe, ad accarezzargli il cazzo seguendo il ritmo del suo respiro, mentre il lenzuolo bianco, zuppo del suo sudore, si alzava e si abbassava a intervalli irregolari. Le labbra di Giovanni si erano dischiuse in un mugolio rotto, il lamento d'un animale preso a bastonate, tra i suoi ricordi iniziavano a sgomitare le immagini della processione del venerdì santo.
La notte del venerdì, la madre di Giovanni si spogliava nuda davanti allo specchio, mentre suo padre in salotto spingeva a caso i tasti del telecomando, fino a quando negli occhi potevi leggergli i prezzi delle televendite dei materassi. Giovanni, di solito, si accucciava dietro la porta della loro camera da letto e spiava sua madre infilarsi in quel vestito viola di raso, senza biancheria intima addosso. Fissava le mani di sua madre mentre stringevano i capezzoli turgidi per poi scivolare affannate verso la figa, dischiusa in un taglio verticale irregolare, un abbozzo di sorriso. Quando la madre di Giovanni usciva dalla stanza, lo prendeva in braccio e dopo avergli stampato un bacio sui capelli, lo trascinava in salotto. Ogni venerdì santo, la madre di Giovanni, nel suo vestito viola di raso, con le labbra sporche di un rosso troppo acceso, chiedeva a suo padre se volesse scendere a vedere la processione. Il padre di Giovanni, mentre le immagini di qualche ragazza seminuda delle tv a pagamento gli bucavano le pupille, scuoteva appena la testa, annoiato. Così sua madre inghiottiva un nodo si saliva, scossa dal tremito di una solitudine tremenda, e tra i denti, a testa bassa, sibilava: va bene, io e Giovanni scendiamo.
Giovanni l'aveva sempre detestata, la processione.
Quello che più lo spaventava erano gli incappucciati.
Degli incappucciati sentivi il rumore, prima di vederli arrivare.
Uno strusciare di catene sull'asfalto.
Un cingolare di morte.
Cling clong cling clong.
La campana che suona a morto.
Uno sbatacchiare di croci di legno.
Dum dam dum dam.
Lo strascinarsi dei piedi scalzi.
Frush frish frush frish.
Il frastuono di un gesso che si spezza sulla lavagna.
Lo strepitio dei loro voti a Cristo in quella sfilata della disperazione.
Quando li vedi, gli incapucciati, la paura è finita.
Giovanni scrutava curioso nei buchi per gli occhi dei loro cappucci bianchi.
Come quelli che andavano a bruciare i negri.
Quando li vedi, gli incappucciati, ti verrebbe da prenderli a calci.
Da urlargli contro le peggiori ingiurie.
Da cucirgli la bocca con le loro preghiere.
Quando li vedi, gli incappucciati, ti verrebbe da risorgere Cristo e da riattaccarlo alla croce.

Giovanni chiude gli occhi, il suo respiro si fa sempre più veloce, le gambe gli tremano in una danza incontrollata. Quando un fiotto caldo tra le gambe gli strappa un grido soffocato, il fragore dell'ultima catena gli taglia la faccia in due, mentre in cucina sua madre si sta buttando dal balcone, che tanto la finestra era rimasta aperta.





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