giovedì 21 ottobre 2010

(perchè cantat fa paura. breve aneddoto personale su me e il signor cobain).

la prima volta che vedo la faccia di kurt cobain ho sì e no undici anni.
siamo all'inizio del 2000, lo ricordo bene.
è inverno. gennaio, credo, forse febbraio.
mi ricordo quel maglione blu scuro a righe celesti, di lana spessa.
quello che mi arrivava fin sotto le ginocchia, ma non volevo mettermi altro.
mi ricordo che in quel periodo inizio a sbattere insistemente l'occhio sinistro per tre, quattro volte al minuto.
ricordo che non appena metto piede alle medie la mia grafia cambia drasticamente, da un giorno all'altro.
si fa illegibile, aliena, piena di segni ai margini, come virgole spezzettate.
è una lingua indecifrabile. ci sono giorni in cui anch'io mi rifiuto di capirla.
riempo quaderni e quaderni di storie e di poesie che finiscono dritte nel cestino, neanche il tempo di scriverci su l'ultima parola.
la mia scrittura non è alfabetica nè ideogrammatica, è un'ossessione che mi pulsa tra un battito e l'altro delle palpebre, ma non esce mai abbastanza sangue per liberarmene.
inizio a tagliuzzare il cibo indecorosamente prima di mangiarne un decimo.
ogni mattina devo girare il cucchiaino nella tazza del latte tra le sette e le nove volte prima di poterlo bere.
inizio a non usare volontariamente la mano destra.
mi sforzo giorno dopo giorno di comunicare con gli altri tramite la mano sinistra.
saluto, stringo mani, passo penne, tengo libri, lego capelli con la mano sinistra.
comincio a soffrire di manie da simmetria.
se tocco qualcosa con il gomito sinistro, devo toccarlo anche col destro e viceversa.
guardo l'orologio compulsivamente.
entro in uno stato di paranoia temporale.
tictactictactictac.
capisco che non riesco ad occupare un posto in un nucleo familiare, in un gruppo di amici, in una classe.
quando mi trovo con qualcuno della mia età perdo la voce e le parole più utili.
quelle per mischiarmi in mezzo agli altri.
per far finta che anche io faccio parte del gruppo, che non sono una fuoriuscita senza esserci mai neanche entrata. inizio a leggere spasmodicamente. divoro tomi su tomi e mi convinco che le parole siano più importanti delle persone, che siano più fedeli, che non ti possano mai far male.
puttanate.
mi costruisco una prigione di carta in cui sto ancora incastrata per metà.
voglio vestirmi da maschio, non accetto che il mio corpo cambi in nessun modo.
inizio a detestare le donne, perchè non è come loro che voglio diventare.
non come le donne che vedo, che ho vicino.
voglio essere qualcosa di diverso, nè maschio, nè femmina, un ibrido forse, un mostro a dieci teste che faccia paura, che venga messo al margine, alla gogna. che almeno ci sia un motivo per tutto questo.
inizio a rifiutare il contatto con gli altri. pelle contro pelle.
mese dopo mese mi chiudo sotto una campana di vetro.
vivo soltanto nel mio lato irrisolto.
a volte penso di esistere solo nei miei difetti.
voglio rifuggire ogni abbraccio, ogni bacio, ogni tentativo di avvicinamento.
sono intoccabile. sfuggo a chiunque, mi incastro tra i meccanismi troppo ben oliati dei miei tic nervosi e perdo le coordinate.
ed è gennaio, credo, o forse febbraio del 2000.
e sono seduta davanti alla televisione, mentre tutto questo è ancora all'inizio, è una perturbazione siberiana che arriva a fracassarmi le finestre della camera come una brezza leggera, sempre da mare.
e un numero incalcolabile di pixel si unisce insieme fino a delimitare i contorni della sua faccia.
di questo ragazzo con una zazzera bionda sulla testa, tutto spettinato.
un paio d'occhi lontani, lontanissimi.
che mi stiracchiano un sorriso.
e c'è la sua voce, che pare l'eco dentro una caverna. è qualcosa di primitivo, ha il suono di una roccia sacrificale scheggiata, di un cuore scorticato, di una città rasa al suolo, di una mutazione cancerogena.
e c'è questa voce che viene da fuori, da quel fuori da cui sento di venire anche io, che dice.
"la cosa più importante è la musica, i testi vengono dopo".
poche note in sottofondo, qualche parola masticata su vecchi ricordi e un invito a venire come si è, niente di più, niente di meno.
c'è mia madre a pochi metri di me, sta asciugando un piatto, schiena contro il termosifone.
le chiedo chi sia questo ragazzo.
lei mi guarda, preoccupata. ha visto arrivare la perturbazione prima di me.
ma non ne ha capito le cause, ancora.
io forse soltanto adesso, che sono quasi guarita, le ho capite.
mi dice il suo nome, mi spiega che è morto a metà degli anni novanta, forse suicida, per quel che ricorda.
a me non interessa altro.
c'è questo nome, nirvana. io del nirvana ai tempi non so ancora molto. so che è una roba buddhista che ha a che fare con il raggiungimento di un perfetto stato di equilibrio, ma non so in che modo funzioni.
e mi pare strano, e mi pare una figata fin da subito, che un ragazzo morto suicida a 27 anni si sia scelto un nome del genere per il suo gruppo.
il giorno dopo, imbottigliata in quel maglione extralarge, sono già dentro al negozio di dischi.
compro "Nirvana: the greatest hits" più la traccia inedita "You know you're right", uscita dopo ben sei anni dalla morte di Cobain.
io non lo so davvero che cosa succeda in quel momento.
so che c'è un collegamento. lo sento di per certo.
e adesso, dopo tutti questi anni, so che non sbagliavo.
pezzo dopo pezzo sento di aver trovato una voce per tutto il mio sangue, un precipizio confortevole in cui andarmi a riparare, che mi faccia da tana fino a quando il tempo non mi curerà le ossessioni.
mi rannicchio contro la sua disperazione.
chiudo gli occhi tra i crampi di quello stomaco bucato dalle ulcere, tra quelle sculture cardiovascolari sedate dall'eroina, in quei maglioni sempre troppo grandi per essere il più possibile invisibile.
so che non è stato solo merito suo.
ma kurt cobain per tanti anni mi ha tenuto in vita.
ha tenuto in caldo la parte più buona di me.
quella che non andava cancellata, che non era un brutto vizio da correggere.
si è preso la mia solitudine per strimpellarci un pò su.
e poi me l'ha ridata, tutta scribacchiata di parole nuove, a cui mi sarei potuta aggrappare per accendere l'interruttore, una volta pronta per farlo.

e beh, voi direte, 'sti cazzi.
però c'è un pezzo in quella bonus track di sacha naspini, mentre cammina tra le tombe di Pere-Lachaise, che ha preso i miei undici anni e li ha sciolti dentro grumi di ricordi in tre righe secche.
"Giuro che se a questo punto mi togliessi le cuffiette potrei non capire più dove mi trovo, chi sono, che ci faccio qui, e stramazzare a terra".
ecco, i Nirvana sono stati questo per me.
senza di loro son quasi certa che le cose sarebbero andate diversamente.
mi hanno dato una strada, quella strada in cui loro stessi si sono persi, in cui cobain ha deciso di farla finita una volta per tutte e il mondo è diventato un posto "un pò peggiore".
è qui che io incontro kurt cobain, è da qui che inizia la mia strada.

e credo che se non avete mai vissuto una roba del genere, cantat vi farà sempre paura.
continuerete a vederlo come un assassino, senza capire il resto.
dovete aver vissuto spalla contro spalla con qualcuno che non avete mai incontrato, che non è più su questa terra, che è dietro un paio di sbarre, che è su un palco a centinaia di chilometri da voi.
e che sarebbe forse una delle prime persone con cui vi andrebbe di bervi una birra il venerdì sera, in silenzio, senza bisogno di dire una parola.
ma basterebbe anche un pò di orecchio.
per la musica e per la vita.
che è chiedere troppo.
perciò passo e chiudo.

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