mercoledì 30 giugno 2010

Luigi Bernardi su Léo Malet. Bella roba.

Una trilogia nera


Alla fine del 1969, l’editore Eric Losfeld mandò in libreria la Trilogie noire, di Léo Malet. Era uno spesso volume che raccoglieva tre romanzi, i primi due già pubblicati una ventina di anni prima, il terzo inedito. Oggi, possiamo considerare la pubblicazione di quel libro, che si fregiava della sopracopertina di René Magritte, come un autentico avvenimento letterario. Vediamo perché.

Eric Losfeld era un editore sui generis, bersagliato dalla censura e dalla giustizia, la sua casa editrice si chiamava La Terrain Vague (“terreno abbandonato”, “terra di nessuno”: il nome, traduzione in francese del fiammingo “losfeld”, si doveva a una felice intuizione di André Breton) ed era una sorta di cenacolo post-surrealista nel quale si riunivano tutti coloro che, per un motivo o per un altro, parteggiavano l’entusiasmo di promuovere le culture marginali contemporanee: fumetti, cinema fantastico e horror, erotismo, fantascienza, realismo magico, poliziesco, noir. Fra gli altri, Losfeld aveva pubblicato i fumetti di Barbarella, riesumato i romanzi “maledetti” di Boris Vian, ed editava anche due riviste di cinema che si sarebbero fatte ricordare a lungo (“Positif” e “Midi-Minuit Magazine”). Era stato proprio il direttore di quest’ultima pubblicazione, Jean-Claude Rohmer, a interessarsi dell’opera di Léo Malet. Rohmer collezionava le pubblicazioni delle ricercatissime “Éditions du Scorpion” e non riusciva a trovare un titolo che gli risultava esservi stato pubblicato alla fine degli anni Quaranta: Sueurs aux tripes, di Léo Malet. Dopo tutta di una serie di ricerche vane, Rohmer si decise a contattare l’autore. Malet gli assicurò che il romanzo esisteva, solo che non era mai uscito di tipografia a causa della brusca chiusura della casa editrice: si trovava nell’elenco delle pubblicazioni ma di fatto era un testo fantasma. Rohmer ne parlò allora con Losfeld e l’idea di riunire La vie est déguelasse, Le soleil n’est pas pour nous e l’inedito Sueur aux tripes (che nel frattempo Malet aveva rititolato al singolare) in un’unica Trilogie noire era sembrata il più bell’omaggio che un editore stravagante come Losfeld potesse fare a un autore altrettanto eccentrico, dalla storia tutt’altro che lineare.

Ai tempi della pubblicazione della Trilogie noire, Léo Malet era già il maestro riconosciuto del poliziesco francese: il personaggio di Nestor Burma e la trentina di romanzi che ne raccontavano gli exploit costituivano ormai pagine gloriose di un genere letterario fortemente in voga in un paese che se n’è sempre (e non a torto) arrogato i natali. La Trilogie noire, pur avendo poco a spartire con il poliziesco in senso stretto, rinnovò l’attenzione sull’autore, ebbe un notevole successo di vendite, e oggi è considerata, insieme ad alcuni romanzi con Nestor Burma, il capolavoro di Malet, di certo l’opera che maggiormente ha influenzato la generazione di scrittori che ha iniziato a pubblicare fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta (Jean-Patrick Manchette, Pierre Siniac, Didier Daeninckx, Thierry Jonquet, Alain Demouzon, Marc Villard, Hervé Prudon, fra gli altri).

È singolare la fortuna del romanzo poliziesco francese. Indissolubilmente legato al feuilleton e alla serializzazione, ha sempre saputo creare personaggi in grado di resistere ai cambiamenti del gusto, dal Monsieur Lecoq di Emile Gaboriau fino al Fantômas di Pierre Souvestre e Marcel Allain, passando almeno per il Roulettabille di Gaston Leroux e l’Arsène Lupin di Maurice Leblanc, e proseguendo poi con il “naturalizzato” Maigret di Simenon e l’indemoniato Sanantonio di Fréderic Dard. Non solo, ma si è posto sempre il problema di mantenere costante il contatto con il lettore, anticipando in qualche modo il marketing editoriale, in cui eccellono oggi agenti e case editrici americane. Ogni personaggio, ogni collana, ogni autore doveva farsi trovare pronto all’appuntamento periodico con il chiosco o la libreria, ognuno tempestivo nello sfamare il proprio lettore (sfamare come solo sanno fare i libri, che non tolgono quel residuo di appetito…). Tanto che in una situazione di emergenza, quando cioè durante l’occupazione nazista venne istituito il divieto di tradurre opere di autori statunitensi, si concretizzò per chiunque avesse un paio di buone idee (anche di seconda o terza mano) e sapesse scrivere almeno decentemente la possibilità di accedere alla pubblicazione, sia pure con uno pseudonimo di secco sapore americano: Léo Malet fu della partita e macinò uno dopo l’altro una serie di romanzi di scuola hard-boiled che furono pubblicati a nome di firme fantasiose quali Frank Harding o Leo Latimer. L’esperienza fu oltremodo positiva, Léo Malet guadagnò qualche soldo e acquisì sul campo quella capacità di scrittura e di gestione della trama che gli permisero di fare velocemente il grande salto: pubblicare con i proprio nome romanzi polizieschi con protagonisti e ambientazioni francesi. Nacque così Nestor Burma, un personaggio che oltralpe avrebbe saputo gareggiare in popolarità, e spesso vincere, addirittura con il commissario Maigret.

Nonostante la notorietà acquisita (aveva già pubblicato sette inchieste di Burma, oltre a innumerevoli altri libri, quando uscì La vie est déguelasse), la scrittura di romanzi polizieschi non poteva appagare uno spirito inquieto come quello di Léo Malet. Era nato a Montpellier il 7 marzo 1909, e subito il destino non si era dimostrato affatto tenero con lui: quando aveva appena due anni aveva perduto a distanza di un paio di giorni il padre e il fratellino, e un anno dopo gli sarebbe morta anche la madre. Di lui, si era allora preso cura il nonno, un personaggio curioso, grande divoratore di libri, un appassionato più che un intellettuale, ma era stata l’influenza degli articoli di André Colomer, anarchico, pacifista e disertore della grande guerra, a incitarlo ad abbandonare, quando aveva appena sedici anni, la città natale per raggiungere Parigi, dove avrebbe vissuto alla giornata. Colomer aveva uno stile lirico e trascinante entro il quale riusciva a filtrare messaggi di violenza così espliciti da mettere spesso in imbarazzo i suoi stessi pur agguerriti compagni: cosa potessero istigare quelle parole nello spirito di un adolescente in credito con la sorte è facilmente intuibile. A Parigi, Colomer aveva subito introdotto il giovane Léo negli ambienti anarchici, regalandogli in qualche modo la famiglia che non aveva mai posseduto. Sei anni più tardi, nel 1931 la conoscenza di André Breton gli era valsa l’ingresso in un’ulteriore famiglia contigua con la precedente, quella dei surrealisti, oltre a un incitamento continuo alla scrittura (ma tutta l’esperienza surrealista di Malet andrebbe raccontata a parte, dai testi che produsse, agli incontri con Aragon e Prevert, fino alla censura che lo stesso Breton gli fece subire alla vigilia dell’Esposizione Internazionale del Surrealismo, nel 1938). Breton comunque non aveva dovuto insistere troppo e Malet non si era fatto pregare: scriveva, non faceva altro che scrivere. Le frequentazioni nell’ambito surrealista gli avevano fatto conoscere editori e redattori di case editrici: per tutti avrà un testo e uno pseudonimo, sia che si tratti di romanzi polizieschi, che di storie di pirati o di cappa e spada. Malet aveva la scrittura nel sangue (l’opera omnia raccolta qualche anno fa dall’editore Laffont consta di cinque volumi per un totale di quasi seimila fittissime pagine, ognuna delle quali contiene almeno tre volte tante parole di quelle del libro che avete tra le mani) ed era sempre alla ricerca di nuove frontiere, l’invenzione di Nestor Burma non gli bastava: sentiva che era venuta l’ora di scrivere anche il “suo” romanzo, questo La vita è uno schifo, il primo di quella che vent’anni dopo sarà conosciuta come Trilogia nera.

Qui, Malet procede per accumulo, unisce in un unico grande progetto letterario l’anarchismo della giovinezza, il surrealismo delle prime manifestazioni intellettuali e la scrittura poliziesca della maturità. Il tema dell’anarchismo lo si ritrova in alcune linee di pensiero del protagonista e nella riproposta del dibattito che animava il mondo anarchico parigino: quali armi per abbattere il potere? La violenza, il furto alla maniera di Jules Bonnot, o qualche strategia più moderna, che prescindesse dall’illegalità? È evidente che Malet, che dopo la conoscenza di Colomer aveva vagheggiato per se stesso un’esistenza da fuorilegge, è sedotto dalla prima ipotesi, anche se sa benissimo che i limiti fra violenza a scopo politico e violenza a scopo individuale sono così labili che lo sconfinamento prima o poi è inevitabile. Ma non c’è solo questo: Jean Fraiger, il protagonista, ha molti altri punti in contatto con l’autore. Il nome stesso, che ricorda quello della madre morta (Luise Refreger), la condizione di orfano, per non parlare di una concezione molto surrealista dell’amore (l’amour fou) che emerge nelle pagine centrali del romanzo. E che dire dell’idea, surrealista anche questa, ma già fortemente caratterizzata nel Marchese De Sade che siccome l’ordine è il male, non si può sfuggire dal male se non commettendo altro male, magari maggiore…

La vita è uno schifo, insomma, è un romanzo composito e sfaccettato: supera il romanzo poliziesco e apre la prospettiva di una scrittura e di tematiche diverse; di fatto canonizza un genere contiguo, il noir, con le sue scarne ma efficaci regole grammaticali.

Il noir, checché ne dicano alcuni critici di settore, non ha nulla a che vedere con l’hard-boiled school, la “scuola dei duri” americani formatasi intorno alla rivista “Black Mask”; in una parola il noir non ha nulla a che vedere con il poliziesco d’azione dei vari Hammett e Chandler (mentre in nuce traspare nei romanzi di James Cain, non a caso autore più amato dalla cultura europea, Visconti in testa). Il noir autentico è un romanzo psicologico intorno alla figura di una vittima, la scrittura del noir è sempre dal punto di vista della vittima, che si racconta o si fa raccontare nella propria discesa (o precipizio che dir si voglia) verso un punto di non ritorno. Nel giallo e nel poliziesco lo status quo viene frantumato da un evento imprevedibile di natura delittuosa, compito nella narrazione sarà di scoprire l’autore dell’infrazione, assicurarlo alla giustizia, ricomponendo così l’ordine iniziale. Che l’evento delittuoso sia un omicidio, un rapimento, un furto o una rapina, non ha importanza, così come non ne hanno l’identità (investigatore privato, poliziotto, detective dilettante) e il modus operandi di colui o coloro che si incaricano dell’indagine. Nel noir, invece, non c’è nessun ordine da ricomporre, non si torna mai al punto di partenza, l’ordine è un continuo frantumarsi in schegge impazzite di cui si perde il conto e la sostanza. Il romanzo poliziesco è un puzzle completo di tutte le proprie tessere: sarà sufficiente incastrarle le une nelle altre e il disegno apparirà in tutta la sua chiarezza. Nel noir il disegno è in continua evoluzione, ubbidisce a regole diverse, che possono cambiare da un momento all’altro. Per questo il noir non ammette lieto fine, o almeno l’unico lieto fine possibile è quando la vittima, conscia della propria condizione, si ribella e, attraverso una serie di atti “contro la legge” riesce a scamparla, a dettare le regole di un nuovo disegno, che avrà contorni, figure e colori del tutto differenti dal proscenio iniziale. In questo il noir è figlio del surrealismo e di De Sade: viviamo in un’epoca di male, e solo un male più forte può contrastarlo, cambiarne i connotati. Di qui il distacco finale, ancora più marcato, di fatto un’opposizione: nel romanzo poliziesco il male è un accidente, nel noir una costante; il primo ha una sostanziale attitudine rassicurante e consolatoria, il secondo è sempre eversivo.



Léo Malet e i poveri cristi


Abbiamo visto, parlando a proposito de La vita è uno schifo, come il noir sia, nella sua formulazione più genuina, il racconto dal punto di vista della vittima di un inciampo nella vita, uno scherzo del fato dal quale risulterà impossibile riprendersi. Quando questa sorta di caduta agli inferi avvenga, e in quali circostanze, non fa differenza, ed è materia del romanzo, come le reazioni della vittima al destino che gli ha travolto l’esistenza.

Può accadere anche – come in Il sole non è per noi – che questa caduta si sia verificata prima degli avvenimenti oggetto della narrazione, addirittura che esista da quando esiste il mondo, riassumendosi nell’impossibilità di uscire da una condizione disperante. Chi, per nascita, avesse a trovarsi fra le vittime della società, difficilmente potrebbe uscirne, potrebbe vedere la propria situazione migliorare. Qualsiasi sforzo riuscisse a produrre scatenerebbe sempre una forza contraria capace di rigettarlo al punto di partenza, se non addirittura più indietro, aprendogli le porte della prigione o anche indirizzandolo su una strada alla fine della quale c’è la morte certa.

Ed è proprio a partire da una convinzione di questo tipo che Léo Malet scrive il secondo tomo della Trilogia nera, Il sole non è per noi, offerto per la prima volta al pubblico nel 1949, un anno dopo La vita è uno schifo.

Il romanzo, ambientato poco più di vent’anni prima della data di pubblicazione (all’epoca della “gioia di vivere”, come segnala ironicamente l’autore in una nota posta in apertura), è la storia del giovane André Arnal, la cui breve esistenza è segnata dall’ombra costante della morte. Sin dalla sua nascita, una serie di eventi luttuosi lo hanno reso prima orfano, poi un “senza famiglia”. Non solo, lui stesso diventerà un portatore di morte, anche in modo del tutto involontario, casuale. Per niente imprevedibile sarà invece la fine del racconto, che chiude l’implacabile circolarità della struttura narrativa. Che è poi specchio dell’altrettanto implacabile struttura dell’esistenza, riflessa nella forte chiave surrealista.

Infatti, come nel precedente La vita è uno schifo, anche ne Il sole non è per noi l’impronta bretoniana è evidente e non sottacibile. Il lungo sogno di André Arnal verso la metà del libro ne è la dimostrazione più lampante. E la passione, l’amour fou, fra gli adolescenti André e Gina è così totalizzante e disperata, primitiva nella sua animalesca sensualità, che non può che riportare alla mente l’analogo, folle sentimento di Jean Fraiger per la conturbante Gloria. E non è un caso se, nel filo della narrazione, il rapporto fra i due ragazzi finisce per diventare il motore della storia e il principio di disgregazione della storia stessa. Eros sempre va a braccetto con Thanatos, e all’amore non è concesso niente più che un’illusione di riscatto.

Anche qui, insomma, la preoccupazione di Malet non sembra essere sociale (come pure potrebbero far pensare alcuni capitoli posti all’inizio del romanzo) quanto letteraria. La tensione e la rivolta non sono quelle dei personaggi, per i quali il destino ha già scritto la parte, quando dell’artista che, raccontandoli, tuffandosi in questo mondo fatto di emozioni violente, ha modo di esprimere tutte le pulsioni della propria poetica insurrezionale rispetto all’accademia delle lettere e delle arti.

E questo, vale a dire il prevalere delle preoccupazioni letterarie su quelle sociali, ci permette di affrontare un problema solo apparentemente spinoso.

Il sole non è per noi è anche il romanzo che è costato a Léo Malet specifiche accuse di razzismo, e al quale si è ritornati, anche a più riprese, per spiegare l’involuzione politica dell’autore che, dopo un’adolescenza e una giovinezza vissuta sotto le bandiere dell’anarchismo, in vecchiaia si è trovato addirittura ad abbracciare le tesi xenofobe del Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen.

Detto che la bandiera di Léo Malet è soprattutto quella che lui stesso ricorda nella prefazione a La vita è uno schifo, ovvero «la bandiera color sangue e notte dell’inquietudine sessuale», va comunque concesso che alcune battute del romanzo possano apparire discutibili («Ma allora che cavolo vengono a cercare qui? Io, se fossi nato al sole…», si trova scritto a un certo punto a proposito degli algerini, e pare davvero di stare leggere certe dichiarazioni di esponenti politici contemporanei, o di catturare qualche frase scambiata oggi in un bar di periferia), ma è vero anche che nell’immediato dopoguerra, nei giorni seguenti quella che è stata la più grande carneficina della storia dell’umanità, avrebbe poco o nessun senso pretendere le precauzioni – che adesso si chiamano polically correct – che suggeriscono di non disegnare ruoli da “cattivo” a rappresentanti di popoli che siano stati nel passato o siano ancora nel presente vittime di persecuzioni razziali.

Proponendoci la figura dell’algerino cattivo (ma d’altronde anche il francesissimo Fredo lo è), Léo Malet dimostra di non avere sensi di colpa da espiare e nessuna forma di ipocrisia da contrabbandare: nel suo universo fortemente anti-rousseauiano non esistono i buoni e i cattivi, ma soltanto i predestinati. E i gesti si misurano non con il metro del valore etico ma con quello del tornaconto materiale. Trovare oggi negli arabi de Il sole non è per noi elementi tali da far sostenere un’accusa di razzismo, pare un’esercitazione vuota, scontata e un po’ volgare, come quella di chi si scaglia contro la raffigurazione “iconica” di neri o di cinesi nel cinema, nel fumetto e nella narrativa popolare. Il razzismo ha radici maggiormente insidiose, che mi pare poco abbiano a che spartire con il Léo Malet della Trilogia nera.

Predestinati, dicevo: la miseria sociale che emerge da Il sole non è per noi è più legata a caratteristiche peculiari della natura umana che a una visione politica della storia. Malet non crede alla lotta sociale capace di restituire un ruolo attivo, o anche solo la dignità umana, ai poveri cristi che popolano le sue pagine. Sono così è e così sempre saranno, sembra suggerire, accontentandosi di raccontare le loro storie, indagandone con diligenza ma anche con severità i luoghi e i modi della loro esistenza, senza la pietà che trasudava dalle pagine dei feuilleton di Eugène Sue e Paul Féval, in quelle di uno scrittore naturalista quale Emile Zola o, più avanti, di un reporter come Albert Londres. Per Malet, insomma, non esiste alcuna possibilità di redenzione, figuriamoci di giustizia: solo un grido poetico capace di smuovere emozioni nette, non contaminate da letture di parte, da gettare in faccia al conformismo e alla quiete borghese.

È già uno sguardo cinico, quello di Léo Malet («Solidarietà, strana parola», commenta a un certo punto il giovane André), lo sguardo di chi ha ben presente e ha sposato in toto la discussa affermazione seconda la quale “Chi non è stato anarchico da adolescente manca di cuore, chi lo è ancora a quarant’anni manca di cervello”. È lo sguardo di uno scrittore che attinge a piene mani nel proprio vissuto (i 16 anni a Parigi, il centro vegetariano, le notti trascorse sotto l’arco del ponte di Sully, i fraudolenti incidenti sul lavoro) quasi a dimostrare che l’unico modo di uscire dalle trappole del destino sono l’impeto rivoluzionario (ma un impeto come quello anarchico, vale a dire una posizione di rottura che non accetta compromessi) e quello poetico/letterario. Magari scrivendo romanzi di destinazione popolare che riescono ancora a smuovere emozioni a cinquant’anni e passa di distanza. Anzi, ritrovando proprio nella ciclicità dei periodi della storia, il presupposto di una straordinaria visione moderna.



Le disavventure di uno scrittore



Fra gli innumerevoli aneddoti che hanno costellato la vita di Lèo Malet, uno dei più strepitosi è stati il rifiuto a incontrare di nuovo André Breton dopo che questi era tornato in Francia, nel 1946, alla fine di un periodo trascorso all’esilio. Per Malet era una questione di rigore: o si è surrealisti o si scrivono romanzi polizieschi. E Malet, dall’ultima volta che aveva visto Breton, era diventato scrittore di romanzi polizieschi. Per questo aveva di colpo smesso di frequentare gli ambienti del surrealismo, mantenendo rapporti – epistolari – solo con René Magritte, che si sfiancava nel tentativo di convincerlo che la vena surrealista permeava anche i libri polizieschi che scriveva, anzi era proprio quella vena a renderli unici. Malet non si convinse mai del tutto. Scrivere gli piaceva, nel romanzo poliziesco aveva finalmente trovato la sua giusta espressione: tutto il resto poteva passare in secondo piano, appartenere al proprio passato.

Molti sono gli aneddoti, e altrettanti i crucci. Il maggiore, per Malet, fu senza dubbio quello di non approdare mai alla Sèrie Noire dell’editore Gallimard, la collana di maggior prestigio per chiunque si cimentasse nella scrittura di romanzo polizieschi. Ma forse, più che il cruccio in sé, a infastidire Males è stato l’aver dovuto rispondere centinaia di volte alla stessa domanda, l’aver dovuto ripetere a iosa la medesima spiegazione.

Malet e Marcel Duhamel, il creatore e per lungo tempo direttore della Série Noire, si conoscevano molto bene da prima della guerra. Erano entrambi amici di Jacques Prévert e frequentavano insieme il Cafè de Flore. Quando Malet si mise a scrivere, cominciò anche a mandare i testi in lettura a Duhamel, che invariabilmente gli rispondeva: «No, puoi fare di meglio». Quello che sulle prime sembrava un incoraggiamento, presto si rivelò soltanto un’espressione gentile di rifiuto. Una volta, un amico comune spedì a Duhamel alcuni romanzi di Malet già pubblicati, fra i quali La vita è uno schifo e Nebbia sul ponte di Tolbiac. La risposta del responsabile della Série Noire non tardò: «Ho sfogliato i romanzi di Malet che ha avuto la cortesia di inviarmi. Da quello che ho potuto vedere, si tratta di libri populisti che non corrispondono…» E qui Malet un po’ si innervosì. Intanto non gli era piaciuto per niente che Duhamel i libri li avesse solo “sfogliati” e non “letti”, non gli era piaciuto sia per il proprio, inevitabile, narcisismo di autore, sia per la stima che aveva sempre avuto per Duhamel. Non amava le persone che sfogliavano i libri, i libri si dovevano leggere, soprattutto quando si ricopriva il ruolo di direttore di collana. Poi c’era quell’aggettivo “populista”, che non gli andava proprio giù. Malet si interrogò, fece una specie di esame di coscienza, concluse che i suoi romanzi non erano più “populisti” di tanti altri. Duhamel però, nella stessa lettera, insisteva: «I romanzi polizieschi francesi sono sordidi, quelli americani sono di un livello più alto». Qui Malet non andò oltre un semplice: «Ah, sì? È un’opinione come un’altra». E i destini di Léo Malet e della Série Noire non si incrociarono mai.

Quando ebbe l’idea di scrivere La vita è uno schifo, Malet stava già pubblicando, con discreto successo, le prime avventure di Nestor Burma. La voglia di uscire dal campo specificatamente poliziesco per aggredire una tematica più noir gli era venuta a seguito del successo del romanzo Sputerò sulle vostre tombe, che Boris Vian aveva firmato con lo pseudonimo di Vernon Sullivan. Come ogni scrittore, anche Malet aveva un obiettivo di vendite: per lui le cinquantamila copie erano la cifra sulla quale misurare l’effettiva popolarità. Con La vita è uno schifo pensava di poter raggiungere per la prima volta il traguardo. Non ci arrivò, almeno non nell’immediato. La casa editrice fallì pochi giorni dopo la pubblicazione. Per fortuna di Malet, l’editore di Boris Vian riscattò l’intera tiratura e procedette a una nuova edizione, che si vendette abbastanza bene ma non superò – non subito – il tetto che l’autore si era imposto. A questo proposito, Malet non si perdonò mai di avere intitolato in quel modo il libro: «Nessuno in libreria osa chiedere un titolo del genere, si vergogna», si lamenterà poi.

Destino ancora più “nero” sarebbe toccato a Nodo alle budella. Scritto a ruota di La vita è uno schifo e Il sole non è per noi, è rimasto nel cassetto per ben ventidue anni (“Il y ètait tout seul, car, dans mes tiroirs rien ne traine!», scriverà Malet in un libro che può essere considerato una sorta di autobiografia, La vache enragée). Tratto dal racconto On ne tue pas le rêves, pubblicato su “Lectures de Paris”, Il sole non è per noi sarà edito soltanto nel 1969, grazie alla curiosità ricordata prima del regista Jean-Claude Rohmer.

Nodo alle budella è un romanzo meno costruito dei due precedenti, procede a scatti, alterna momenti di grande intensità ad altri in cui sembra che l’autore tiri il fiato per preparare la scena successiva. Paul Blondel, il protagonista, si muove anche lui disorganico, roso com’è dall’incubo che gli avvelena i sogni, quell’impiegatuccio grigio e occhialuto che per l’autore è la sintesi della faccia orribile e ripugnante di una società senz’anima. La resa dei conti con questo incubo, il trovarselo di fronte nella realtà, segnerà per Blondel l’impossibilità di tornare indietro, cercare passi diversi sui quali incamminare la propria vita. È un destino che lo lega a quello di Jean Fraiger e André Arnal, i protagonisti di La vita è uno schifo e Il sole non è per noi. Tutti e tre sono uomini per i quali il destino ha scelto la fine peggiore: cercano di opporsi al male della società commettendone a loro volta, ma è uno scalciare a vuoto, una ribellione che non produce risultati apprezzabili. Per Léo Malet, invece, che quello scalciare e quelle ribellioni, deposita nel cuore e nell’intelligenza dei propri lettori – alla fine enormemente di più dei cinquantamila che si era proposto di raggiungere – la Trilogia nera rappresenta il vertice della sua narrativa, un’opera che riscrive e codifica la grammatica del romanzo noir nella sua formulazione più genuina. Un’opera che, al pari di tutti i grandi classici, cresce d’importanza nel tempo e mantiene inalterata la propria leggibilità.

da Léo Malet, Trilogia nera, Fazi, 2003

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