sabato 29 gennaio 2011

(sulle spalle dei giganti)

A venir da sud, la prima cosa che vedi è la roccia.
Una roccia abbarbicata su degli alberi testardi, di quelli che piantano radici fin dentro le rotaie e si ingoiano le voci le facce i discorsi della gente, catturando fotogrammi dai finestrini dei treni in corsa. Ogni faccia, una ruga nuova. Ogni voce, un cerchio in più.
La roccia è una donna nuda sdraiata sopra a una voragine d'acqua.
E' una roccia scorbutica, cresciuta tutta rintanata in dentro, per far spazio al mare.
Un mare coi denti da animale selvatico, che non conosce tregua perché sa la fame, e sbocconcella le pareti rocciose, le buca fin dove riesce ad arrivare.
E' un mare verticale, quasi.
Roccia e acqua si rincorrono da sempre, con gli occhi condensati dalla nebbia che cala sulle montagne e ne disperde i contorni. Le montagne proprio lì, davanti a loro, sono un'abitudine buona, che fa elettriche le onde, le protegge e le rinchiude.
La seconda cosa che vedi è il mare.
Ma è improvviso, come un colpo di vento che ti frusta il collo.
Il mare è una distesa bianca di gabbiani, così tanti che sembrano vele da regata, e fanno zampettare l'acqua in piccoli focolai di fuoco freddo.
Trieste è una città con le unghie ben artigliate nelle tasche, penso.
Che ha dovuto imparare a difendersi e sopravvivere.
E abituarsi ad essere centro e periferia di tutto.
Una città difficile, fatta di vento, eppure mai libera.
Una città che vorrebbe e potrebbe, ma non riesce, c'è un orizzonte che la frena, non le lascia prendere il largo. Appesa al confine di nord-est, si arrampica tra salite e discese, mentre i secoli la attraversano sulle facciate dei palazzi.
E' una lingua mista, Trieste.
Perché sa che parlare la stessa lingua non vuol mica dire comunicare.
Perciò si è messa a reinventare gli alfabeti e a rubar lettere, significati ed assonanze.
E' lingua di bora, un crocevia di suoni a senso unico, che ulula fiera la sua solitudine estrema, il suo essere punto ultimo, luogo d'approdo a cui si arriva ma da cui non si parte.
E' una bambina perbene di famiglia imperiale.
E' una ragazzina arrabbiata, con la bocca amara e le gambe in guerra.
E' una donna dell'est, coi Balcani sulle spalle.
E' una madre con i fianchi larghi e le costole rotte, coi seni pieni del latte di tutte le terre.
E' una vecchia smaliziata e stanca, gli occhi di forestiera, che sa come non perdersi, eppure ha voglia di
smarrirsi, di mettere e strappare radici, per non morire con la stessa faccia di quando era arrivata.
E' un sentiero inerpicato verso l'alto, una strada ripida e sterrata sulla schiena di un gigante.
E' un vicolo cieco e un anello concentrico.
E' un invasore sotto assedio.
E' una persona che sa cosa significhi essere di passaggio.
Che sa la morte perché non ha vie di fuga.
Ma non s'arrende e sorride.

sabato 22 gennaio 2011

(Proust ci metteva il naso. Noi telegrafiamo l'odore).

Che alle volte basti un biscotto a tirar giù un'epopea è cosa comprovata.
Che sia sufficiente avvicinarlo al naso e, tra una crepa e l'altra dell'aroma, trapassare tutta una vita di ricordi, risalendo la china fino a quando si era soltanto un mucchietto d'ossa e cartilagini, che non la capivano mica tutta questa fretta di mettersi a camminare in verticale se poi, alla fine dei conti, orizzontali si doveva tornare.
(Guardasi gli studi dell'equipe su "Il catastrofismo del bambino Proust: dalla culla al sughero", ndr.)
E mentre il naso si incrinava tra le istantanee di quei te così diversi e così lontani l'uno dall'altro, la lingua rimasticava gli anni, con la bocca tutta intorpidita da una giovinezza rancida, bucherellata dalla muffa- che a sgranocchiarla ti si facevano i denti guasti- e una vecchiaia che era come sentirsi un pezzo di carne coi vermi, dimenticato nel bagagliaio di una macchina.

Proust, per caso o per necessità, ci ha infilato il naso in quell'odore, che gli è rimasto aggrappato alle mucose per anni e anni, fino a quando tutto il tempo perduto era stato filtrato, senza che niente potesse essere recuperato per davvero.
Solo raccontato, sì. Per acquisire la possibilità di un'altra vita, di un altro tempo.
Per la prima volta è il senso a imporsi sul ricordo e a farsi il tramite della memoria.
E' nella dimensione dei sensi, nel riappropriarsi della sensibilità, della propria capacità di memorizzare attraverso il sentire, che l'uomo riporta alla mente il passato e lo simbolizza.
E' la vita dell'individuo che attraversa i pori del naso, si infila tra le cellule sudoripare, si fa addentare in un biscotto al limone, rimbalza contro la retina per andare ad esplodere in quella gran performance pirotecnica che sarebbe poi il mondo a colori.
I ricordi vengono fuori dalle mani, riesumati tra i cadaveri delle cellule morte, restano lì aggrappati al fazzoletto quando ci si soffia il naso, si incrostano tra le ferite aperte su un ginocchio, sanguinano dalle labbra quando i denti vanno a mangiarsi un pezzo di lingua per errore. E non si tratta qui di memoria del corpo, ma di memoria trattenuta dal senso, dal contatto primordiale con l'umano e il disumano che solo il senso può offrire.
Si tratta a tutti gli effetti di libera associazione tra gli accadimenti e i nostri canali percettivi. Si apre un canale, si ingurgita un evento, per poi archiviarlo nel serbatoio dei ricordi, fin quando quello stesso canale percettivo forse andrà a riaprirsi (per una una curiosa combinazione di stimoli esterni) e il passato farà irruzione nel presente, come simbolo di una connessione precedentemente stabilita.

E' una questione di tatto.
E' una dimensione primitiva, meno sovrastrutturata e più vicina al mito, in cui il senso era strumento di comprensione e di codificazione del reale.

Ma questa non voleva essere una lezione di letteratura francese.
Che poi l'equipe di francese conosce pure tre parole in croce.
No, no, no. Qui il fatto è un altro.
E' che, riflettendoci poi bene, questo discorso degli aromi e dei sapori sulla punta della lingua sta iniziando a vacillare un po'. E non è colpa di nessuno, è che il progresso ci ha portati in una certa direzione, in cui è la tecnologia che si fa touch al posto nostro.
E' la tecnologia che acquisisce sostanza e consistenza, mentre la nostra dimensione sensoriale perde di peso.
Per me, membro dell'equipe classe '89, che nel villaggio globale (se poi è mai esistito, se poi mai esisterà) ci è precipitata dentro con tutto il fasciatoio, ricordare è un processo che ha tutti altri connotati. Perché le distanze tra le persone si sono accorciate, ma sempre distanze restano. Geografiche, mentali, comunicative. Sono sempre stata abituata a parlare, a scrivere, a rapportarmi con gente che abitava minimo a 300 km da dove mi trovavo io.
E a stabilire connessioni, un universo comune di eventi chiave, un serbatoio di ricordi, sì.
Solo che hanno forma diversa, non hanno dimensione tattile.
Sono ricordi di elaborazione a posteriori, nella maggior parte di casi.
E badate bene, ci sono state tre o quattro tra queste persone che sono riuscite a cambiarmi radicalmente la vita. Senza scherzi. Molto più di altri che mi sono cresciuti accanto per anni. Eppure non ci siamo mai guardati in faccia, voglio dire, alla distanza di un metro.
Ma sono nella mia vita, dentro ai miei giorni, ne fanno parte come altri ne hanno fatto parte vivendomi attorno. Perché, in un modo o nell'altro, abbiamo elaborato forme di comunicazione e di memorizzazione nuova. Che escludono il tatto, certo, ed è una gran perdita. Ma che riescono a digitalizzare la condivisione attraverso la voce e la parola scritta.
A telegrafare l'odore, a stenografare il sapore, a visualizzare finestre comuni di conoscenza.
A costruirsi rifugi anti-atomici da dividere in tempo di guerra e di pace.

Chiaro, alle volte mi viene voglia di metterci il naso proprio come Proust.
Ma non si può più fare. Non sempre, almeno.
Per certe cose, lo riconosco, noi dell'equipe siamo nati troppo tardi.